Dante, il grande amore e la storia di Paolo e Francesca. 5 e ultima parte
Francesca
da Polenta, bellissima, nata a Rimini verso il 1260 da Guido da Polenta, fu
obbligata a sposare nel 1275 Gianciotto (Giovanni) Malatesta da Rimini, che del
fratello Paolo (detto, non a caso, "il Bello") era il contrario:
rude, sgraziato, zoppo. Pare che si sia innamorata del cognato fin dal primo
incontro, quando credeva di dover sposare lui e non Gianciotto. Paolo era nato
intorno al 1247 ed era già sposato con Orabile Beatrice, ultima erede dei conti
di Ghiaggiolo, che gli aveva dato due figli. Nel 1284 circa i due giovani (lei
sui 25, lui sui 38) furono scoperti insieme e uccisi da Gianciotto. Un anonimo
fiorentino narra che Paolo non poté salvarsi dalla spada del fratello perché
una maglia dell'indumento che indossava rimase impigliata; Francesca si sarebbe
frapposta fra lui e il marito, sarebbe stata trafitta per prima, poi fu ucciso
Paolo. Secondo invece una fonte cinquecentesca (Vincenzo Carrari, Istoria di Romagna) i due giovani furono
ritrovati addormentati a letto insieme e trafitti d'un sol colpo. Dante stesso
aveva conosciuto il giovane nel 1282, quando questi era stato capitano del
popolo a Firenze, scelto, in quanto guelfo, da papa Martino V. D'altro canto,
Francesca era zia di Guido Novello da Polenta, ospite e mecenate di Dante.
Presunto ritratto di Francesca, ora
perduto, nella chiesa di S.Maria in Porto, Ravenna
Molto
simile la vicenda dei ferraresi Ugo e Parisina: lei era la giovanissima seconda
moglie di Niccolo III d'Este, che aveva avuto invece il figlio maggiore Ugo
dall'amante Stella de'Tolomei; Ugo, credendo che la madre sarebbe stata
finalmente la moglie del padre, concepì dapprincipio una forte antipatia per la
giovanissima matrigna, che era appena sua coetanea; Niccolò si adoperò per
rappacificare i due giovani, che però poi divennero amanti. Scoperti, furono
condannati a morte entrambi e decapitati nei sotterranei della Torre dei Leoni,
nel Castello Estense. Ulteriore conferma che la mancanza di libertà nella
scelta del coniuge, imposta per secoli entro i ceti alti, è stata fomite di
rovine a non finire.
Paolo e Francesca, di Ingres.
La
vicenda dei due amanti è del tutto iscritta all'interno dell'amor cortese come tratteggiato
verso il 1185 da Andrea Cappellano nel suo De
amore: un amore dettato da regole feudali e cavalleresche, nutrito da
romanzi cortesi (come il Lancillotto citato;
ma persino lo svenimento finale di Dante potrebbe essere ispirato a quelli di
Tristano nella Tavola rotonda) e
poesia provenzale, da uno stile d'espressione musicale e raffinato, da
sentimenti nobili e grande sensibilità; cortese e stilnovistica è l'idea che
l'amore nasce solo in un cuore nobile,
da Andrea Cappellano è ripreso il pallore dei due amanti (v. 131), così come le
celebri norme d'amore enunciate tramite l'anafora Amor...Amor...Amor, specie quella per cui l'amore è sempre
ricambiato, norme disposte quasi in un sillogismo per arrivare a quella,
sovrana, dell'amore irresistibile; e come romanzo cavalleresco d'amore viene
narrata la vicenda dei due amanti, ambientata nella stanza silenziosa di un
castello, sospesa in un incanto senza tempo di
fiaba antica e inesorabilmente perduta.
Ma
è un amore che può portare alla morte, alla rovina, perché, data la società del
tempo, l'amor cortese nasceva per forza di cose come amore adulterino. Non è un
caso se Andrea Cappellano concepì il terzo libro del suo trattato (poi
condannato) come ritrattazione e se papa Innocenzo III proibì la lettura del Lancillotto. Il nostro smarrimento
davanti al castigo di Paolo e Francesca, come abbiamo visto, è ampiamente
condiviso anche da Dante: ma, a posteriori, possiamo affermare che la "peccaminosità"
dell'amor cortese era una conseguenza inevitabile di ben altre storture volute
dagli esseri umani e che sfociavano nella violenza, fisica e psicologica, a
carico soprattutto dei più innocenti. Oggi forse Dante insisterebbe di più sul
fatto che la rovina di Paolo e Francesca dipese anche e soprattutto da altri:
basti pensare che Francesca fu obbligata al matrimonio quando aveva poco più di
15 anni (l'età dei miei allievi!) e che combinato fu pure il matrimonio di
Paolo.
Anselm Feuerbach, Paolo e Francesca, 1864
Ma
molte altre forme di violazione della libertà, ancora adesso, interferiscono
con le scelte di molti a livello affettivo (basti pensare a forme di violenza
psicologica e fisica tuttora diffuse): perciò, il quadro amoroso oggi di tante
persone è talmente disastrato da forme di egoismo e mancanza di rispetto, che
quasi nessuno crede più ai miti sopra elencati; miti in cui però molti, sotto
sotto, sperano ancora. Questi "miti" esprimono infatti aspirazioni
profonde ed autentiche dell'essere umano e l'apparente cinismo della mia
insegnante di anni fa rifletteva, probabilmente, il fatto che molti, troppi, in
amore hanno incontrato soprattutto l'egoismo proprio o altrui e sono rimasti
delusi, feriti, talora mortalmente. L'amore si trasforma allora in
un'aberrazione, in un incubo. Si dice spesso che "in guerra e in amore,
tutto è permesso", ma un'asserzione del genere è mostruosa: perché
trasforma l'amore in una guerra. Nessuno parla mai di come anche l'amore di
coppia (e l'atteggiamento di chi circonda una coppia) vada vissuto in modo
etico, con rispetto: ma ciò è essenziale, per non trasformare la vita in un
inferno.
A
ben guardare, come è implicito in Dante, anche il sogno di un amore eterno, vero,
tra due esseri, pone nuovamente l'interrogativo di base dell'esistenza, quello
che Blaise Pascal riassumeva nella sua celebre scommessa (nel dubbio, è meglio
scommettere che Dio esista): o il mondo è caos e nonsenso, e allora l'amore
vero non esiste, bensì esiste solo un coacervo di egoismi; oppure, se vogliamo
l'amore vero, esso può esistere solo perché discende da Dio e dal suo Amore. E
possiamo sperare che noi esseri umani ci portiamo queste aspirazioni dentro al
cuore perché Qualcuno vuole davvero adempierle: e questo ben al di là del
nostro egoismo, anzi, con lo scopo di guarirci dal nostro egoismo. In fin dei conti, il grande amore lo sogniamo tutti: e, su questo, ci giochiamo la nostra felicità. Ecco perché
Dante percorre faticosamente i tre regni, per arrivare fino a Beatrice: e poi,
per vedere Dio.
In
fin dei conti, quest'aspirazione permane, fortissima, anche in Paolo e
Francesca. Qualcuno forse si sarà accorto che, nella statua di Rodin, i corpi dei
due amanti formano quasi due spirali convergenti, come se tendessero a
compenetrarsi, ma con un punto di convergenza al di là delle loro teste, in una
dimensione che va "oltre" loro stessi. Forse, chissà, negli ultimi
anni della sua vita, quando ormai l'Inferno
circolava per l'Italia in versione definitiva, Dante si sarà chiesto se non
sarebbe stato più giusto mostrare anche verso di loro quella misericordia che
il poeta invoca nel canto III del Purgatorio
per Manfredi, principe scomunicato. Magari, al termine della sua vita, avrà
sperato di trovarli in Paradiso, o almeno in Purgatorio: e, adesso, dall'aldilà
che ha descritto, si augurerà che tutti, trovando l'amore, ricevano la prova che
l'Amore esiste davvero e governa il cosmo. Ma per corrispondere a un ideale
tanto alto, l'amore deve diventare (o tornare) libero da ogni egoismo, una
palestra di virtù, bellezza vera.
Dice
la chiusa del Cantico dei cantici (8,5-8):
Mettimi
come sigillo sul tuo cuore,
come sigillo sul tuo braccio;
perché forte come la morte è l'amore,
tenace come gl'inferi è la passione:
le sue vampe sono vampe di fuoco,
una fiamma del Signore!
Le grandi acque non possono spegnere l'amore
né i fiumi travolgerlo.
Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa
in cambio dell'amore, non ne avrebbe che disprezzo.
come sigillo sul tuo braccio;
perché forte come la morte è l'amore,
tenace come gl'inferi è la passione:
le sue vampe sono vampe di fuoco,
una fiamma del Signore!
Le grandi acque non possono spegnere l'amore
né i fiumi travolgerlo.
Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa
in cambio dell'amore, non ne avrebbe che disprezzo.
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