lunedì 14 giugno 2021

"La primavera hitleriana", di Eugenio Montale


La primavera hitleriana di Eugenio Montale

La Primavera hitleriana di Eugenio Montale è una lirica decisamente difficile, appartenente alla raccolta più ardua del poeta, La bufera e altro (1956): si tratta dell'opera in cui lo stile di Montale raggiunge il vertice della concentrazione e dell'ermetismo, addensando una serie di metafore e analogie di non sempre facile comprensione. Il titolo fa riferimento alla visita di Hitler a Firenze del maggio 1938, occasione che si rivelò in seguito esiziale per l'Italia, dato che spianò la strada all'alleanza militare e politica tra fascismo e Terzo Reich; come osservavano giustamente i miei studenti che hanno presentato in classe la lirica dopo averci svolto una ricerca sopra (Simone, Matteo e Leonardo), il titolo può essere inteso anche come un ossimoro, perché il nazismo è sicuramente agli antipodi di una realtà attraente e dolce come la primavera (in particolare, quella primavera, nella splendida Firenze dai ricordi rinascimentali). Il testo è suddiviso in lasse di versi liberi e fu concluso nel 1946, quando ormai era chiaro quanto letale fosse stato l'invasamento per il nazionalsocialismo. 


Folta la nuvola bianca delle falene impazzite
turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette,
stende a terra una coltre su cui scricchia
come su zucchero il piede; l'estate imminente sprigiona
ora il gelo notturno che capiva
nelle cave segrete della stagione morta,
negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai. 


La prima lassa esordisce con un'anastrofe che ricorda certi incipit leopardiani (Folta la nuvola bianca, come Dolce e chiara è la notte e senza vento): i primi versi presentano i lungarni, con la loro popolazione di falene bianche, riunite in una nuvola (metafora) intorno ai lampioni delle "spallette"; le farfalline muoiono a ripetizione, tanto da costituire una sorta di tappeto sul terreno, che scricchiola come lo zucchero (similitudine). Qualcuno ha individuato in queste "falene" i volantini di carta che imperversavano durante la visita del Fuehrer; in ogni caso, le "falene impazzite" che muoiono perché si bruciano al contatto con i lampioni da cui sono inesorabilmente attratte, fanno pensare alla folla in delirio per i dittatori e attratta, nella più piena incoscienza e follia, dalla morte che essi portano. Quanto alla similitudine dello zucchero, questo è un elemento amato da Montale: esso ritorna in alcune similitudini anche ne La bufera (brucia ancora/ una grana di zucchero nel guscio/ delle tue palpebre), forse anche perché il suono duro della doppia c rinvia a quelle "rime petrose" dantesche cui il nostro poeta sembra essersi ispirato spesso per sottolineare la durezza di certe situazioni tipiche del Novecento. Del resto, qui lo zucchero assume un valore ambiguo. 


I versi proseguono affermando che l'estate lascia emergere paradossalmente il freddo che era contenuto (capiva ha qui un significato intransitivo) nelle buie cantine dell'inverno: il gelo non mi sembra casuale e mi fa pensare a quello che domina Cocito, al fondo dell'Inferno dantesco. In sostanza, questa estate, profanata dalla visita del Fuehrer, lascia emergere quanto di peggio era finora nascosto nel segreto delle coscienze umane: le cave segrete della stagione morta fa rabbrividire, perché evoca tutto un mondo oscuro, buio e contrassegnato dal gelo di morte, celato nelle anime delle persone in tempi "normali", ma pronto a esplodere all'occasione. Quel gelo, stranamente e contraddittoriamente, abitava anche negli orti (cioè nei giardini) che da Maiano scavalcano a questi renai:  i giardini di Maiano (amena località presso Fiesole, quindi uno dei punti più paradisiaci della collina fiorentina) potrebbero evocare i paesaggi più dolci della città, qualcosa di molto lontano da quel gelo: e invece, inequivocabilmente, anch'essi se ne fanno ricetto, essi che scavalcano a questi renai, cioè raggiungono la sabbia delle rive dell'Arno. Si noti l'uso intransitivo del verbo scavalcare, secondo modalità che forzano il lessico proprie della poesia espressionista (per esempio, di Clemente Rebora). Quindi, neanche l'armonia paradisiaca del vertice della cultura di Firenze basta più davanti alla catastrofe umana incombente: e non è possibile non percepire una nota amara nei renai, la sabbia accumulata presso il fiume. Ricordiamo che i fiumi e l'acqua in Montale di solito non manifestano un significato positivo: l'Arno è lo stesso che anni dopo avrebbe sommerso i ricordi di Montale e di sua moglie nella splendida L'alluvione ha sommerso il pack dei mobili di Satura (Xenia 2,14). 


Da poco sul  corso è passato a volo un messo infernale
tra un alalà di scherani, un golfo mistico acceso
e pavesato di croci a uncino l'ha preso e inghiottito,
si sono chiuse le vetrine, povere
e inoffensive benché armate anch'esse
di cannoni e giocattoli di guerra, 
ha sprangato il beccaio che infiorava
di bacche il muso dei capretti uccisi,
la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue
s'è tramutata in un sozzo trescone d'ali schiantate,
di larve sulle golene, e l'acqua seguita a rodere
le sponde e più nessuno è incolpevole.  


Nella seconda lassa viene evocata più direttamente la visita di Hitler: è descritto come un messo infernale appena passato sulla via principale e i versi si attardano a descrivere efficacemente l'atmosfera esaltata di queste messe in scena, con l'auto del dittatore che sfreccia tra gli scherani, cioè, con  un'efficace metafora, tra i sicari, i nazisti e fascisti al suo soldo; essi innalzano le loro ovazioni (i famosi alalà di memoria fascista) e formano, con la loro folla, una sorta di golfo mistico acceso, cioè l'immagine del dittatore viene risucchiata in un mare di bandiere con la svastica e di folla presa da una sorta di delirio mistico (si noti la forte analogia del golfo o anche l'ipallage di mistico, aggettivo che non si riferisce tanto al golfo, quanto al delirio e all'invasamento di queste folle, già pronte a uccidere per il dittatore). 


E' un giorno di festa, quindi i negozi sono chiusi e così anche le vetrine; con un ossimoro, Montale osserva che esse sono povere / e inoffensive benché armate anch'esse: nella quotidianità dei negozi più banali (la macelleria, la giocattoleria) compaiono già i sintomi di una violenza montante, perché i giocattoli esposti sono spesso armi in piccolo; oppure, ancora più tremenda è l'immagine della macelleria (significativamente definita con il termine beccaio decisamente più dispregiativo) che espone i capretti decorati con bacche di ginepro. Forse è un'analogia un po' lontana, però mi viene in mente quella norma ebraica secondo cui non è lecito bollire agnelli e capretti nel latte, perché non è giusto bollire un piccolo nel latte della madre; questa norma che denota una squisita sensibilità può far comprendere, all'opposto, quanto sia feroce l'immagine di miti capretti uccisi ed esposti senza alcuna remora. 


Poi alcuni versi terrificanti: la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue...Quello che fa rabbrividire è quell'ancora. Il fortissimo ossimoro miti carnefici fa  pensare che la massa di gente semplice e per lo più ignara non si è ancora macchiata le mani di sangue, ma è ben pronta (per ignoranza, per ferocia, per dabbenaggine, per meccanismo del capro espiatorio ecc.) a farlo. Già sagra possiede un significato negativo qui, che declassa la festa in un'atmosfera di crassa trivialità; poi essa diventa con un'altra metafora un sozzo trescone, cioè un'immonda tregenda, crudele e volgare. Ritorna l'immagine iniziale delle falene che si schiantano al suolo, ora rappresentate dalla metonimia delle ali spezzate o dalle larve che vegetano nei pressi della riva del fiume. E poi:
...e l'acqua seguita a rodere
le sponde e più nessuno è incolpevole.
L'acqua in Montale è di solito negativa: per esempio in Mediterraneo, il poemetto suddiviso in 9 parti degli Ossi di seppia, il mare rappresenta la violenza della vita. Se qui il fiume corrode le rive, ciò non dice niente di buono. L'acqua continua la sua opera distruttiva: e più nessuno è incolpevole (terribile litote, non a caso formulazione del tutto negativa), perché ormai tutti sono coinvolti in quell'atmosfera da tregenda evocata sopra e scatenata dall'arrivo del messo infernale; tutti partecipano, tutti festeggiano, tutti paiono del tutto dimentichi e ciechi a fronte dell'orrore che si avvicina. Non siamo lontani dalla denuncia allibita di Hannah Arendt contro la "banalità del male", all'epoca del processo Eichmann. Del resto, tutte le epoche (anche la nostra, come dimostra la mancanza di logica e razionalità esplosa negli ultimi tempi) sono pronte per questi assurdi autodafé. 


Tutto per nulla, dunque? - e le candele
romane, a San Giovanni, che sbiancavano lente
l'orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii
forti come un battesimo nella lugubre attesa
dell'orda (ma una gemma rigò l'aria stillando
sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi
gli angeli di Tobia, i sette, la semina
dell'avvenire) e gli eliotropi nati
dalle tue mani - tutto arso e succhiato
da un polline che stride come il fuoco
e ha punte di sinibbio..

All'esordio della nuova lassa, il  poeta si pone allora una domanda angosciata: tutto per nulla? Cioè, tutto ciò che di bello e valido lui ha vissuto, non conta niente davanti a questi orrori? A questo punto, Montale rievoca una sera ben diversa che lui aveva passato con Clizia, la sua donna - angelo: ricorda i fuochi d'artificio (le candele romane) della festa del patrono fiorentino, S.Giovanni Battista (24 giugno), una data molto amata a Firenze; quei fuochi sbiancavano... /l'orizzonte (anche qui il verbo viene impiegato con una forzatura, applicato a oggetti e non a visi e, per di più, con un senso transitivo che di solito non ha). Montale ricorda anche i pegni, sicuramente d'amore, i lunghi addii, tutto l'immaginario amoroso che lui ha sicuramente vissuto nella breve estate del 1933 in cui incontrò la donna ispiratrice di Clizia, la famosa Irma Brandeis. Con lei visse una storia d'amore molto intensa e, purtroppo, breve. I lunghi addii, paradossalmente, esprimevano tanto amore da apparire (metafora o analogia molto azzardata) quasi un battesimo, un inizio, una consacrazione (mentre la catastrofe e l'orda, cioè i malvagi, incombevano). 


Nella parentesi il poeta inserisce l'immagine, molto bella, di una stella cadente - una gemma rigò l'aria, si noti la preziosa metafora - , che stilla (altro verbo usato in modo un po' atipico), cioè porta sui lidi, sulle sponde dove si trova Clizia, una serie di segni positivi: Montale fa riferimento ai sette angeli di Tobia, quando in realtà Tobia, nell'omonimo libro della Bibbia, era stato accompagnato dall'arcangelo Raffaele, uno però dei sette arcangeli che stanno sempre di fronte al trono dell'Altissimo. Con un'altra metafora tutto ciò è definito semina dell'avvenire: poi il poeta menziona i girasoli, che rinviano al senhal, il nome rivelatore di Clizia, e al mito omonimo. Clizia, che amava il Sole e che poi ne fu abbandonata...Clizia che, secondo quanto racconta Ovidio, si ammalò d'amore perché il Sole la ignorava e digiuna si nutriva solo di rugiada e di lacrime, vivendo solo in attesa del passaggio del dio....Clizia che infine si trasformò in girasole, per poter contemplare sempre il volto dell'amato... (cfr. Metamorfosi 6,256-70). 


Forse vale la pena segnalare che questi versi sottintendono la forza salvifica dell'amore: il riferimento a Tobia tradisce il ricordo della storia del protagonista di questo libretto biblico, che partì per la Media e, accompagnato dall'arcangelo Raffaele, fu aiutato in molte maniere e consigliato di sposare Sara; quest'ultima, lontana appartenente alla sua stessa schiatta, non riusciva mai a sposarsi, perché il diavolo ammazzava tutti i suoi promessi (evidentemente, ben poco meritevoli). Solo l'amore puro di Tobia la salvò dalla vergogna e dalla solitudine. Di converso, Clizia è l'immagine dell'amata che si strugge e immola per amore: ma la sua storia immette quasi una sfumatura triste nel motivo dell'amore salvifico, perché lei si consuma senza che il Sole veramente la ricambi. Forse la Clizia montaliana è anche immagine del fallimento dell'amore, dell'amore incompreso: è noto che Montale non le rivelò dapprima di avere già intessuto una relazione con Mosca, Drusilla Tanzi, per poi barcamenarsi in modo deludente tra le due, finché Irma Brandeis non poté più visitare l'Italia a causa delle leggi razziali del 1938 e lo lasciò. Montale lo sapeva bene, Clizia era immagine anche dell'amore che non era stato accolto, né compreso come si meritava: nel senso, ami così tanto, dai tutta te stessa, e poi tutto questo non conta niente...


                    Oh la piagata 
primavera è pur festa se raggela
in morte questa morte! Guarda ancora
in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
che il non mutato amor mutata serbi,
fino a che il cieco sole che in te porti
si abbacini nell'Altro e si distrugga
in Lui, per tutti. Forse le sirene, i rintocchi
che salutano i mostri nella sera
della loro tregenda, si confondono già
col suono che slegato dal cielo, scende, vince - 
col respiro di un'alba che domani per tutti
si riaffacci, bianca, ma senz'ali
di raccapriccio ai greti arsi del sud...

La primavera è detta piagata (ipallage: le piaghe sono sicuramente quelle degli uomini), ma diventa, metaforicamente, una festa, perché raggela in morte questa morte: abbiamo visto che il gelo è immagine montaliana e dantesca, ma questa volta il gelo, paradossalmente, grazie all'amore di Clizia diventa "morte per la morte" (sarebbe un poliptoto). Clizia, nonostante l'incomprensione, può ancora guardare in alto speranzosamente, perché lei custodisce dentro di sé, nonostante i mutamenti cui la vita l'ha obbligata, il non mutato amor: sono sempre più convinta che la strofa precedente riveli una sfumatura di incomprensione per l'amore di Clizia, ma proprio questa incomprensione fa sì che la fedeltà di lei risalti ulteriormente: l'amore vero non viene mai meno. Anzi: Clizia non è solo girasole, lei porta in sé il Sole (e ricordiamo che nelle Scritture e nella tradizione cristiana, il Sole rappresenta Dio), cioè è "cristofora", portatrice di Cristo. 


Quel sole è, con un ossimoro (l'ennesimo) cieco, nel senso che è abbacinante, oppure che risente della sofferenza e della cecità degli esseri umani intorno a Clizia; ma quel sole è destinato a disciogliersi e fondersi in quello di Dio (la maiuscola è esplicita), in estremo sacrificio per gli altri. Clizia, così, portatrice di Dio e di tutto ciò che di bello esiste, si immola per tutti. E negli ultimi versi, Montale si abbandona alla speranza che le acclamazioni e i suoni di giubilo (sirene, rintocchi) intonati in onore del messo infernale, dei mostri nella sera, si perdano invece tra suoni di tutt'altro genere. A mio avviso, qui Montale fa riferimento al rintocco soave della campana che nel mito antico della danza macabra disperdeva i demoni del sabba ai primi chiarori dell'alba. La sinestesia vede l'alba "respirare": è come se tornasse la vita. Domani quest'alba di speranza tornerà per tutti, ai greti arsi del sud, cioè per le rive che la canicola ha disseccato col suo calore torrido (altra metafora di spietatezza). Senz'ali di raccapriccio, cioè senza resti di crudeltà o efferatezza, arriverà l'aurora: si noti come le ali vengano qui citate ancora e rinviino alle falene vittime dell'atmosfera di esaltazione dittatoriale descritta sopra. Al termine di questa poesia, si affaccia così un'alba nuova di speranza. 

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