sabato 30 novembre 2019

Bigné rosa



Bigné rosa

Una ricetta di mia invenzione...Alta pasticceria, molto  golosa....

Per i bigné

Farina 150 gr.
Burro 100 gr.
Acqua 250 ml.
Un cucchiaino di zucchero
2 uova
Un pizzico di sale

Questa è la ricetta migliore che ho trovato per la cosiddetta "pasta choux", cioè la pasta che in pasticceria si usa per i bignés, gli éclairs, le religieuses ecc. Infatti, questi pasticcini che vi propongo non sono propriamente bignés, bensì la loro forma più cicciuta, le cosiddette "religieuses". Fate scogliere sul fuoco il burro dentro l'acqua, quindi portate a ebollizione e togliete dal fuoco. Aggiungete al liquido la farina, il sale e lo zucchero e mescolate energicamente per creare una pasta liscia e omogenea; quindi, rimettete sul fuoco per asciugare la pasta. Infatti, essa dovrà raggiungere una consistenza soda e staccarsi dai lati della pentola; quando ha raggiunto questo stadio, togliete nuovamente dal fuoco e aggiungete i tuorli (mi raccomando, fuori dal fuoco, sennò fate una frittata!), infine i chiari montati a neve ben ferma. A questo punto la pasta deve essere più morbida e collosa. Con la siringa del pasticciere formate alcune palline sulla piastra da forno imburrata: più piccole se volete ottenere dei bignè, di 8 cm di diametro se preferite creare delle religieuses. Infine, cuocete a forno caldo (180 gradi) per 15 minuti. Però, sorvegliate con attenzione il forno, perché il tempo di cottura può variare: i bigné richiedono meno e basta un attimo per arrossirli; le religieuses, invece, devono asciugarsi all'interno.


Per la crema rosa

La crema rosa è una normale crema pasticcera divenuta rosa per l'aggiunta di Alkermes. Quindi, procedete così:

Per la crema rosa

Zucchero gr.140
Farina gr.90 (o anche fecola, che si addensa prima)
2 uova (oppure 4 tuorli)
400 ml di latte
1 bicchiere scarso di Alkermes
mezzo baccello di vaniglia (oppure qualche goccia di essenza)
un pizzico di sale



Far giungere a ebollizione il latte con la vaniglia,  poi aggiungere l'Alkermes fuori dal fuoco e lasciar raffreddare; intanto, mescolare in un'altra ciotola uova e zucchero, col pizzico di sale, e incorporare poco per volta la farina, o la fecola, setacciata; la dose prevede un cucchiaio in più rispetto alla normale crema pasticcera, per controbilanciare l'aggiunta dell'Alkermes. Ho sperimentato che 2 uova intere possono bastare al posto dei 4 tuorli, uno stratagemma che io impiego per non gettare gli albumi; tuttavia, se volete usare gli albumi, sappiate che la crema rischia di "stracciare", per cui, quando sarà giunta a ebollizione, dovrete essere pronti a mescolarla energicamente fuori dal fuoco perché torni liscia e si ricompatti. Aggiungere poco per volta a filo il latte caldo (a filo! Altrimenti cuociono le uova e vi ritrovate una frittata) e, quando il liquido finale è pronto, cuocere a fuoco molto basso, sempre mescolando (altrimenti si attacca), per una decina di minuti, fino a che la crema non si addenserà. Quando è pronta, si può aggiungere della panna fredda montata.

Per la glassa

100 gr. di zucchero a velo
Alcuni cucchiai di sciroppo ottenuto
con un poco di acqua e di Alkermes.

Stemperate lo zucchero a velo con lo sciroppo di Alkermes: ne verrà una cremina rosa.



Gran finale
Quando i bigné, o le religieuses, sono pronti e raffreddati, potete riempirli con la siringa del  pasticcere, oppure dopo averli tagliati a metà, con la crema rosa. Infine, decorate con la glassa rosa e servite dopo avere lasciato per un po' di tempo in frigorifero. Il risultato è un miracolo della pasticceria...Per i golosi come me...(adf)

giovedì 28 novembre 2019

Padre Cristoforo e Don Rodrigo


Padre Cristoforo e Don Rodrigo

Uno dei momenti più esaltanti dei Promessi sposi è l'inizio del capitolo 6, quando Padre Cristoforo incontra don Rodrigo e finisce per "cantargliele chiare". E' un momento significativo anche perché rivela sottilmente le meccaniche di sopruso e violenza seguite dall'antagonista del romanzo: se, come sosteneva Italo Calvino, i Promessi sposi sono il "romanzo dei rapporti di forza", anzi, chioserei io, una delle migliori rappresentazioni del cancro della violenza entro la società italiana, questa pagina è imperdibile. E sottolineo che il problema dell'Italia è, innanzitutto, quello della violenza e del sopruso: proprio per questo, l'opera fondamentale di Manzoni ha ancora molto da dirci.


Tuttavia, non si può comprendere questo episodio se non si analizza anche quello precedente, il banchetto nel palazzotto di don Rodrigo durante il quale Padre Cristoforo arriva e cui viene, malgrado la sua reticenza, invitato a sedere. A tavola del signorotto siedono i maggiorenti locali, in vena di leccargli le scarpe: il già noto Azzeccagarbugli, che, col suo naso rosso mostra di apprezzare particolarmente i vini del convito; il podestà, che come, sottolinea Manzoni, avrebbe dovuto far giustizia invece a Renzo; il conte Attilio, cugino e compagno di scorribande di don Rodrigo, che siede invece a capotavola; infine due convitati anonimi, probabilmente due semplici comparse, chiamate a ravvivare ulteriormente l'atmosfera di adulazione che aureola il signorotto. Tutto l'episodio rivela il persistere di una profonda logica del sopruso in questo ambiente votato alla prepotenza. Nel corso della concitata discussione, vengono toccati i seguenti argomenti:


1) Una quérelle cavalleresca (desunta dal Tasso, grande specialista nel campo) che oppone due cavalieri, uno milanese e l'altro spagnolo: il milanese ha sfidato lo spagnolo, ma quest'ultimo ha fatto bastonare il messaggero che recava il cartello della disfida.
2) Una discussione sulla guerra di successione del ducato di Mantova, episodio della più ampia Guerra dei Trent'anni e che vede il contrapporsi di Francia e Spagna.
3) La questione della carestia.

In tutti e tre questi argomenti, ognuno dei commensali dimostra un atteggiamento ben preciso: il conte Attilio rivela una mentalità spiccia e brutale, tanto da approvare le (incivili) bastonature inferte al messaggero: il che fa inorridire il podestà, più attento alle apparenze e memore del rispetto dovuto agli ambasciatori. Il podestà, d'altro canto, ama l'adulazione servile, tanto che passa parecchio tempo a elogiare in modo spropositato il primo ministro di Filippo IV di Spagna, il conte duca Olivares, esagerandone le abilità.  E' evidente come il suo entusiasmo sia motivato dalla sua verve piaggina e mediocre: come si piega a adulare don Rodrigo, così il podestà è accecato dal potere (cui si avvicina per via molto indiretta, attraverso il castellano che è figlio di un protetto di Olivares) e dimostra di capire ben poco di politica. Infine, tutti i commensali, al primo accenno sulla carestia, se la spiegano, molto stolidamente, con le presunte colpe dei fornai, che nasconderebbero la farina e che dovrebbero essere, secondo loro, impiccati: spiegazioni e metodi che collimano con una visione rozza e ignorante. Violenza, sopruso e stupidità la fanno, insomma, da padrone. Bastano poche parole di padre Cristoforo, però, a far crollare almeno il primo argomento come un castello di carte: già il suo silenzio è una critica vivente di queste discussioni; ma quando viene chiesto al frate il suo parere in materia di duelli, lui si limita a proferire: "Il mio debole parere sarebbe che non vi fossero né sfide, né portatori, né bastonate". Vero però che gli altri commensali poi non gli danno ascolto (e don Rodrigo allude volgarmente e pesantemente al passato del suo ospite).


Quando invece don Rodrigo, pur di malavoglia, dà udienza al padre, la situazione evolve rapidamente al peggio, secondo un vero e proprio climax (oggi si direbbe escalation). E il peggio arriva per colpa di don Rodrigo. Don Rodrigo è un personaggio meschino: così meschino che Manzoni non si preoccupa neanche di descriverlo. Di lui sappiamo pochissimo, tutt'al più che suo padre era diverso da lui; l'autore non ce lo descrive fisicamente, non si prende neanche la briga di delinearlo dal punto di vista del carattere; il signorotto non ha niente della sinistra grandezza dell'Innominato, uomo malvagio, ma di ben altro calibro e coraggio; lo vediamo soltanto, occasionalmente, in azione e ignoriamo completamente la sua storia. Forse Manzoni avrebbe potuto renderne il carattere un po' meno superficiale e piatto se gli avesse inventato, che so, un'infanzia infelice, ma niente: don Rodrigo è caratterizzato soltanto da un piatto, volgare egoismo e Manzoni si rifiuta di perdere tempo su di lui. L'unica descrizione accessoria che ci fornisce al suo riguardo è quella del suo ambiente, il palazzotto, un luogo sinistro e fatiscente che, tra l'altro, avrebbe bisogno urgente di manutenzione (neanche gli avvoltoi impagliati e inchiodati sul portone sono in condizioni decenti!).


La nostra disamina del passo in 2M ha rivelato i seguenti atteggiamenti tenuti da don Rodrigo durante il colloquio con padre Cristoforo:
  • E' superbo e arrogante (chiede "In che posso ubbidirla?" con un atteggiamento, però, che ricorda il duce).
  • Tira costantemente al peggio le parole di Padre Cristoforo: se questi gli chiede di rettificare la situazione di Lucia, senza giudicarlo e affermando che ci sono semplicemente dei malviventi che sfruttano il suo nome per commettere dei soprusi, il signorotto si mostra offeso, quindi accusa il religioso di essere una spia; se il padre allude a Lucia, don Rodrigo lo sbeffeggia osservando che una fanciulla gli preme molto; e così via. Questa è una tipica tattica degli aggressori: interpretare negativamente anche le frasi più anodine dei loro interlocutori, per farli passare dalla parte del torto. 
  • Irride beffardamente padre Cristoforo ("Il predicatore in casa! Non l'hanno che i principi"). Del resto, già nel capitolo precedente, si era divertito a colpire il padre con pesanti e villane allusioni al suo passato prima della conversione, un vero e proprio insulto. 
  • Finge un'inesistente sollecitudine per Lucia ("Giacché questa persona le sta tanto a cuore...").
  • Ciò che precede prelude alla provocazione finale: proporre a padre Cristoforo che Lucia si ponga nientedimeno che sotto la protezione del signorotto. Come proporre a Martin Luther King di affidarsi al Ku Klux Klan...Si intravvede qui il gusto prepotente e villano di provocare il padre tanto per imporre il proprio potere abusivo.

A questo punto, come noto, padre Cristoforo esplode (noi lo stavamo aspettando da un pezzo, ma il padre è stato tanto paziente...). Questo è uno dei punti dei Promessi sposi in cui il lettore ingrassa di 10 chili di soddisfazione: forse neanche vedere don Rodrigo divorato dalla peste produce lo stesso effetto (ecco: adesso Leo, di 2M, mi accuserà di avere introdotto uno spoiler nella narrazione). Il padre non ha più paura del signorotto: la sua malvagità lo ha ridotto ad essere abbandonato da Dio, quindi impotente; e, difatti, don Rodrigo combinerà ben poco per tutto il corso del romanzo. Nella dura requisitoria del religioso contro il signorotto emerge il ritratto, scultoreo, del Dio veterotestamentario, quello prediletto dal cattolicesimo venato di giansenismo cui Manzoni stesso era stato formato; un Dio giustiziere, severo, che colpisce con le sue folgori (Ho compassione di questa casa: la maledizione le sta sopra sospesa. State a vedere che la giustizia di Dio avrà riguardo a quattro pietre, e suggezione di quattro sgherri"). La descrizione che padre Cristoforo fornisce del "palazzotto" di don Rodrigo coincide stranamente con la realtà: il "palazzotto", già all'inizio, sembra veramente ridursi a quattro pietre; e i bravi, due dei quali sonnecchiano pigramente davanti al portone, appaiono sul serio come quattro sgherri. E' come se la rovina finale di questa casa fosse già iscritta nelle sue condizioni iniziali. Il giansenismo di Manzoni non arriva però a credere nella predestinazione: il frate pronuncia un chiarissimo "Vi siete giudicato". Come il Faraone citato poco dopo, don Rodrigo si condanna da solo: e, in effetti, succede sempre così, i malvagi provocano la loro stessa rovina (perché i cattivi nelle fiabe cadono sempre nel burrone da soli?). 


Nel corso della sua requisitoria, il frate paragona don Rodrigo al Faraone egiziano che si era opposto a Mosé: questo è uno degl'indizi per cui ritengo che la vicenda di padre Cristoforo sia modellata proprio su quella del profeta biblico. Manzoni, del resto, aveva progettato, su richiesta del suo direttore spirituale, monsignor Luigi Tosi, una biografia di Mosé mai compiuta; il testo aveva illustri precedenti, come uno scritto di san Gregorio di Nissa (IV sec.). Ma l'acme del passo viene toccato dalla famosissima chiusa: Verrà un giorno...Qui si respira l'atmosfera potente del Dies irae e padre Cristoforo assurge alla statura di un profeta biblico, anzi, apocalittico. La frase riecheggia Sal. 36,12-13, secondo cui il giorno del peccatore verrà; ma quello che manca al testo biblico è la straordinaria reticenza impiegata da Manzoni. La frase, infatti, non rivela quello che avverrà, ma il silenzio con cui essa avvolge il futuro rende l'espressione ancora più impressionante. Che cosa succederà quando verrà un giorno? Potremmo esplicitare: "Verrà un giorno che la pagherai e smetterai di tormentare degl'innocenti; verrà un giorno che sconterai le tue malefatte e la tua presunta potenza crollerà come un povero castello di carte; verrà un giorno che Dio ti giudicherà e vedrai davanti a te le fiamme dell'inferno". Potremmo continuare per un pezzo, ma sarebbe inutile: tutto può essere implicito in quella straordinaria frase e reticenza, che però diventa ancora più impressionante e potente quanto più tace. Manzoni era un maestro della reticenza: e qui raggiunge una vetta. La punizione è già insita nella profezia: verrà un giorno. Basta questo per evocare tutto e basta questa sola frase per impaurire don Rodrigo, perché, e questa è la soddisfazione più intima del lettore, i malvagi vengono sempre puniti, o in questa vita o nell'altra. Del resto, questa frase possiede in sé la forza ineguagliabile della verità. 




martedì 5 novembre 2019

Oltre la bufera (Marco Cassini, 2019)



Oltre la bufera (Marco Cassini, 2019)

C'è stata un'epoca, qui nel Ferrarese, in cui la rabbia dei braccianti infiammava le campagne e i socialisti, comprensibilmente, raccoglievano il favore della masse alla fame; contro di loro partivano allora le squadre nere, che, come uccelli del malaugurio, seminavano terrore e violenza a colpi di manganello e facevano ingollare litri di olio di ricino alle loro vittime. Non di rado, ci scappava il morto, come accadde in Piazza Castello. Era l'epoca in cui, per esempio, mia nonna Maria Cristina, allora di appena 25 anni, da sola nella casa di famiglia con 4 anziani allettati, 2 bambine sue e 4 della cognata ammalata, si chiudeva in casa la notte per il terrore, con tutte le bambine intorno, a pregare, mentre dal borgo vicino provenivano gli urli delle vittime pestate a sangue dai fascisti.


Era l'epoca della bufera del titolo, magnificamente indovinato, dell'ultima fatica di Marco Cassini e Stefano Muroni, "Oltre la bufera", film molto intenso sul ministero e il martirio di don Giovanni Minzoni, il sacerdote ucciso ad Argenta dai fascisti la sera del 23 agosto 1923. A Marco Cassini si deve la regia, attenta e curata; a Stefano Muroni, invece, l'interpretazione del protagonista, ma anche la motivazione, l'idea e una gran quantità di lavoro dietro le quinte, per assicurare il coronamento e il successo di quest'impresa; un'impresa che, nonostante i mezzi ridotti a disposizione, è riuscita a raggiungere meritatamente la platea nazionale e non ha nulla da invidiare, anzi, alle meglio foraggiate pellicole che hanno a disposizione le grandi possibilità fornite dai giganti della produzione cinematografica.  Questo per sottolineare il surplus d'impegno che un'iniziativa del genere deve avere richiesto e il discernimento con cui i mezzi a disposizione sono stati impiegati (lo si nota, ad esempio, dall'accortezza con cui è stata calibrata la scenografia).


Il film si apre col ritorno di don Giovanni Minzoni ad Argenta dopo la Prima Guerra Mondiale. Uomo di grande valore e coraggio, aveva servito nell'esercito come cappellano militare, ma era stato anche insignito di varie medaglie al valore per il suo ardimento sul campo e per come aveva guidato i suoi uomini all'attacco - ricordo per inciso che certi attacchi al nemico, sul fronte del Piave, terminavano spesso in una carneficina, specie quando gli uomini partivano all'attacco alla baionetta contro uno schieramento di mitragliatrici. Stefano Muroni, con la sua recitazione, riesce a conferire intenso spessore etico e forte rettitudine e dignità a questa figura, purtroppo non sufficientemente ricordata neanche qui a Ferrara: non conto più gli errori storici che ho udito in questi giorni di programmazione del film, segno che pochi ricordano chi era davvero don Minzoni. Invece, è stato forse la prima vittima illustre del fascismo, in quanto ucciso ben un anno prima del più noto Giacomo Matteotti (il deputato socialista di Fratta Polesine, fatto sparire tra il giugno e l'agosto del 1924, dopo le elezioni truccate che portarono il fascismo a stravincere). La pellicola non è propriamente costruita come un film storico, dato che possiede piuttosto un respiro teatrale, esaltato dai frequenti e intensi primi, se non anche primissimi piani, nonché dalla costruzione attenta, molto concettuale, dei dialoghi: la vicenda appare così condensata per sommi capi e, soprattutto all'inizio, si fatica un po' a orientarsi nel dettaglio degli avvenimenti storici, sospesi in modo generale nel biennio precedente la Marcia su Roma. Poi, il ritmo si accelera progressivamente, man mano che ci si avvicina alla conclusione.


Tuttavia, il succo della vicenda c'è, eccome, e rispetta nettamente i fatti storici. Il ritorno di don Minzoni dalla guerra; la sua amicizia con alcuni socialisti della zona; i dettagli della crisi modernista (come il particolare che i sacerdoti, allora, per rispetto della tradizione, non potevano andare in bicicletta!); l'incomprensione delle gerarchie ecclesiali, troppo attendiste col fascismo; l'uccisione, da parte dei fascisti, di un militante socialista di rilievo, massacrato a furia di botte nelle campagne; l'impegno religioso e sociale di don Minzoni, che moltiplicò le iniziative ad Argenta, dalla cooperativa femminile - frutto di uno squisito e inconsueto, anzi precocissimo interesse per la condizione femminile - agli scout cattolici, all'opera ricreativa per i giovani; il contrapporsi di queste iniziative a quelle ricreative fasciste; le minacce, le intimidazioni, la prossimità agli squadristi che organizzarono la spedizione punitiva di un celeberrimo gerarca ferrarese come Italo Balbo, il cui ruolo nella vicenda è sempre rimasto discusso. Gli assassini di don Minzoni furono sì processati (e poi amnistiati...) dopo la guerra, nel 1947, per omicidio preterintenzionale: in sostanza, avevano ucciso don Minzoni durante una spedizione punitiva che non mirava propriamente all'omicidio, ma che aveva passato il segno, finendo in un massacro. non è mai stato stabilito con chiarezza se Balbo, oggi sepolto nella nostra Certosa (non lontano da mio nonno, tra l'altro), fosse a conoscenza di ciò. Del resto, Balbo fu, probabilmente, il più intelligente e spregiudicato, forse anche il più capace tra i gerarchi fascisti della prima ora, tanto capace da suscitare la gelosia del Duce (e da fare une pessima fine in Libia). Ma era un fascista: nel film viene presentato come più prudente.


Un film del genere, di grande spessore contenutistico, etico e di genuina qualità, appare davvero utile, anzi necessario in questo periodo segnato sempre più da violenze e intolleranza di vario genere. La grande dirittura morale di don Minzoni, il suo ascendente, determinato e pacifico, sulle persone che lo circondavano e gli erano affezionate, costituisce l'ossatura intorno a cui si organizza la vicenda. Tra gli altri interpreti, vorrei ricordare soprattutto Piero Cardano, che interpreta l'antagonista fascista del sacerdote e che ben rappresenta il nucleo di violenza cieca dello squadrismo fascista: io lo ricordo nella puntata Champagne per uno della serie di Nero Wolfe, così come Davide Paganini, che qui interpreta uno degli amici socialisti di don Giovanni. Man mano che ci si avvicina alla fine, la vicenda riceve un'accelerazione  che non si limita solo al ritmo del film: è, soprattutto, un'intensificazione etica. Brilla in don Minzoni l'autenticità cristiana, il coraggio di dire "no", in modo netto, al male.

Ho voluto iniziare questa recensione ricordando alcuni fatti della storia della mia famiglia, perché la storia del nostro paese si è incarnata in profondità in quella delle nostre famiglie ed è bene che ciò alimenti la memoria; e questo, soprattutto a beneficio dei nostri ragazzi che, nella in una società sempre più vertiginosamente rapida, non riescono spesso a mantenere i contatti col passato. Anche la storia di don Minzoni, per noi di Ferrara, dovrebbe essere storia di famiglia. Ed è una storia che si apre verso il futuro e la vicenda successiva del nostro Paese. Così, l'idea di richiamare visivamente le stragi che lo hanno segnato a sangue è splendida, perché davvero don Minzoni è stato il primo (o tra i primi) di una lunga serie di morti, vittime dell'estremismo politico di ogni colore. Le scene finali in cui il sacerdote viene immolato sono davvero difficili da dimenticare.


Rettifica: nella prima versione di questa recensione avevo dato per buona la versione secondo cui il mandante dell'omicidio di don Minzoni sarebbe stato Italo Balbo. Molto gentilmente, Stefano Muroni mi ha comunicato che, in realtà, stando alle ricerche della produzione, non si è mai riuscito a stabilire la responsabilità di Balbo e che la famiglia ha sempre vinto tutte le querele in materia. Ringrazio quindi Stefano Muroni per la rettifica.