domenica 15 dicembre 2019

Torta Pazientina



Torta Pazientina

Finalmente ci sono riuscita! Ecco qui la mia versione della celebre torta Pazientina di Padova. Non è poi così difficile da preparare, anche se ho dovuto cambiare la crema: è la crema pasticcera rosa inventata da me, ma la preferisco, perché quella allo zabaione, dopo che ho fatto un tentativo, non mi convince molto, dato che le ricette da me consultate prevedono troppe uova e troppo albume. Inoltre, la mia versione prevede l'Alkermes e non il marsala o il rum, una variante comunque contemplata. Vale la pena pazientare per prepararla, perché alla fine è squisita...

Ingredienti

Pasta bresciana
250 gr di farina
250 gr. di zucchero
250 gr. di burro (ammorbidito)
100 gr. di farina di mandorle
50 gr. di nocciole tritate fini
1 uovo
un poco di vaniglia


Pan di Spagna
Per il Pan di Spagna, fare riferimento alla mia ricetta, al link:
https://annaritamagri.blogspot.com/2016/10/pan-di-spagna-classico.html

Crema all'Alkermes ovvero crema rosa

Zucchero gr.140
Farina gr.90 (o anche fecola, che si addensa prima)
2 uova (oppure 4 tuorli)
400 ml di latte
1 bicchiere scarso di Alkermes
mezzo baccello di vaniglia (oppure qualche goccia di essenza)
un pizzico di sale


Sciroppo
Un cucchiaio di zucchero
una ciotola d'acqua
un bicchiere di Alkermes

Mousse al cioccolato
100 gr. di cioccolato fondente
25 gr. di burro
1 cucchiaio di zucchero
1 cucchiaio di latte (se necessario)
1 uovo

Preparazione
Per preparare la pasta bresciana, che è una variante della pasta frolla, basta unire gl'ingredienti in una terrina e mescolare (anche con le mani, si fa prima), finché non si ottiene una panetto sufficientemente sodo. Se necessario, aggiungete della farina. Rispetto alla comune pasta frolla, la pasta bresciana è ancora più profumata e decisamente ottima. Lasciate riposare il panetto per 2 ore, quindi stendetelo sulla tavola infarinata e ricavatene 2 dischi identici, da cuocere nelle rispettive teglie a 180 gr., per 10 minuti. Saranno la base e la copertura finale del dolce. 


Quindi, separatamente, preparate il Pan di Spagna, secondo la ricetta da me già fornita. Come già spiegato nella ricetta sui Bigné rosa:

https://annaritamagri.blogspot.com/2019/11/bigne-rosa.html

mescolate le uova e lo zucchero, quindi unite la farina (o fecola) e il sale; intanto, fate riscaldare il latte con la vaniglia e quando è giunto a ebollizione, lasciatelo raffreddare un poco, quindi unitelo al composto delle uova. Aggiungete l'Alkermes e, infine, ponete sul fuoco per pochi minuti, sempre mescolando, finché non si addensa all'improvviso. Allora spegnete. 

A questo punto, preparate la bagna diluendo l'Alkermes in una ciotola d'acqua, cui avrete aggiunto un cucchiaio di zucchero e mescolate per bene, perché il tutto si sciolga. 
Infine, è la volta della mousse di cioccolato: lasciate sciogliere insieme cioccolato e burro in un pentolino a bagnomaria e, quando avrete lasciato raffreddare, unite al tuorlo d'uovo opportunamente mescolato allo zucchero. Il latte serve solo a diluire, eventualmente, il composto del burro e del cioccolato se s'indurisse un po'. Infine, unite al composto l'albume montato a neve e lasciate in frigorifero. 


Viene ora il momento di assemblare il dolce. Sul piatto di portata, deponete un disco di pasta bresciana e irroratelo con la bagna, quindi spalmate una parte della crema rosa; aggiungete il disco di Pan di Spagna, sempre irrorato con lo sciroppo d'Alkermes, infine spalmate su di esso la crema restante, infine sovrapponete il secondo disco di pasta bresciana, sempre bagnato con lo sciroppo. Coprite con la mousse di cioccolato e lasciate in frigorifero per una notte, per dare tempo al tutto di imbeversi ben bene. Il risultato è prodigioso! 

mercoledì 4 dicembre 2019

La monaca di Monza e la sua storia



La monaca di Monza e la sua storia

Non tutti sanno che Manzoni si è sbagliato a collocare la monaca di Monza nel 1628: la vicenda, infatti, narrata da Giuseppe Ripamonti nella sua Storia patria (senza data, per non offendere la famiglia) è anteriore di una ventina d'anni o poco più; e pensare che Manzoni ebbe, prima del 1840, la possibilità di consultare il faldone originale del processo, concessogli dall'allora arcivescovo di Milano Carlo Gaetano Gaysruick. Quegli atti furono poi secretati dalla curia e messi a disposizione degli studiosi, pensate, solo dall'arcivescovo G.B.Montini nel 1957: il futuro papa Paolo VI. Del resto, la splendida ricostruzione della vicenda nei capp.9 e 10 dei Promessi sposi, risente della moda del romanzo "gotico", cioè nero, di fine Settecento: moda che aveva dato la vita, ad es., alla Monaca di Diderot (1780). E pensate che, sull'onda del successo dei Promessi sposi, nel 1829 il toscano Giovanni Rosini pubblicò un suo romanzo, intitolato La monaca di Monza; per scriverlo, chiese ripetutamente consiglio a...Giacomo Leopardi, che all'epoca era in Toscana e che, quindi, se lo ritrovava perennemente tra i piedi. 


Ma chi era veramente la monaca di Monza? 
Virginia de Leyva, al secolo Marianna (1575-1650), proveniva da una famiglia dell'alta nobiltà spagnola; suo padre, don Martino de Leyva, che aveva combattuto a Lepanto, rimasto vedovo dopo la morte per peste della madre di Marianna, Virginia Maria Marino, si risposò in Spagna e, come succede purtroppo non solo nelle fiabe, dimenticò la figlia primogenita, "sbolognata" ad una zia rigida e, pare, bigotta. A differenza di quanto racconta Manzoni, Marianna non fu mandata in convento perché era la minore e perché così si doveva salvaguardare l'eredità del primogenito, al contrario: il  padre destinò l'eredità (anche della madre di Virginia!) ai figli di secondo letto (tre maschi e una femmina) e la ragazza si ritrovò scalzata a un livello di serie B, per cui fu destinata al monastero quando aveva solo 16 anni. Ricordiamo questo dettaglio della giovanissima età in cui entrò in religione. 


Una volta in convento, il monastero delle Umiliate Benedettine di Santa Margherita di Monza, Marianna assunse da religiosa il nome della madre, riflesso di una cocente nostalgia per una grande tenerezza perduta: era infatti rimasta orfana di madre quando aveva solo un anno, nel 1576. La ragazza si ritrovò però a far parte di quella generazione di monache che stavano subendo sulla propria pelle la stretta della clausura dopo il Concilio di Trento. Il Concilio aveva sancito infatti che la clausura dovesse tornare ad essere stretta, a fronte di decenni - se non secoli - in cui era stata applicata in forma molto più blanda, date anche le numerose monacazioni forzate. Quando le monache si ritrovarono chiuse in convento a forza, non mancarono numerosi suicidi. Questo era, del resto, un argomento di diatriba continua tra Venezia e la curia romana: a Venezia c'era una concezione insolitamente larga e accondiscendente della clausura, dato che le figlie di parecchi patrizi veneziani, che non intendevano spendere per dotarle, venivano "schiaffate" in convento, ma ciò presupponeva che venissero trattate in modo più accomodante; Roma, invece, esigeva vocazioni genuine e la clausura stretta. Suor Virginia che - pare - era molto bella, non tardò a innamorarsi del famoso "Egidio", nella realtà, Giampaolo Osio, scapestrato rampollo di una famiglia aristocratica della zona e che abitava accanto al monastero. 


Suor Virginia, che era maestra delle educande, si rese conto che l’Osio ne insidiava qualcuna, reato passibile di una grave punizione; peggio, l'Osio uccise per rappresaglia l'amministratore di cui suor Virginia si serviva per amministrare Monza, G.Molteni. La suora avrebbe allora fatto arrestare l'Osio se non fosse intervenuta - in modo molto discutibile - per conto della famiglia Osio la stessa madre superiora, che le impose di revocare l'ordine per obbedienza: e suor Virginia dovette obbedire. Alla fine suor Virginia accondiscese a incontrare Giampaolo (siamo nel giugno 1598), il quale voleva ringraziarla. Secondo la confessione scritta successiva, la monaca si vide recapitare da quel momento in poi doni e, secondo lei, oggetti che convogliavano un maleficio, con la connivenza di un prete locale, don Paolo Arrigone; così, in settembre lei accondiscese a incontrare l'Osio una notte con la complicità di suor Benedetta Homati e suor Ottavia Ricci. La religiosa riferì in seguito di essere stata violentata, cosa, a mio avviso, del tutto possibile; di sicuro, suor Virginia divenne succube di Giampaolo Osio e nella loro relazione la violenza rivestiva un posto notevole. Come stupirsene se di violenza era stata intessuta tutta la vita familiare della monaca?


Cominciò così una tresca protrattasi per 9 anni, durante i quali o Giampaolo entrava in convento di nascosto travestito da suora (!), oppure suor Virginia si recava nella casa vicina. 
Dalla relazione nacque una bambina, Alma Francesca Margherita, e anche un altro figlio, morto sul nascere; la bambina fu poi allevata dai parenti dell’Osio. Suor Virginia, del resto, era continua vittima dei rimorsi; la religiosità era allora più punitiva di oggi, meno misericordiosa, la predicazione molto incline a insistere sulla morte e i novissimi (cioè le realtà ultime), specie il giudizio e l’inferno; perciò, per una suora come lei non priva di una sua religiosità, la relazione con Osio deve essere stata intessuta di numerosi conflitti interiori e sensi di colpa acutissimi. Prova ne è che la monaca scaraventava regolarmente nel pozzo del monastero il doppio delle chiavi approntate per Giampaolo appositamente da un fabbro compiacente. Le chiavi si accumularono poco per volta in fondo al pozzo – ma la relazione non finiva. La svolta fu, però, come indica del resto il Manzoni, l’omicidio.


Nel 1606, una conversa - cioè una suora che non aveva la preparazione necessaria per essere corista, per cantare l’ufficio in coro, di solito adibita ai servizi nel convento e, in quel caso, al servizio della monaca - una tal Caterina di Meda, durante una lite con suor Virginia minacciò di rivelare tutto al monsignore che sarebbe stato inviato dalla curia in occasione del successivo capitolo delle suore, capitolo in cui si doveva eleggere la superiora e durante il quale la monaca sperava di essere scelta: e l’Osio, evidentemente, la soppresse, alla presenza di altre 5 monache, colpendola con il piede di un arcolaio, quindi ne trasportò il cadavere in casa sua. Qui lo seppellì, salvo la testa che, una volta tagliata, egli gettò in un pozzo. Dettaglio riportato anche da Manzoni: fu aperta una breccia nel muro del convento per far credere che Caterina, poco incline alla vocazione religiosa, fosse scappata. 
Ma questo omicidio cominciò ad attirare un’attenzione negativa sul monastero, tanto che se ne resero “necessari” altri: quello dello sventurato fabbro, Cesare Ferrari, che forgiava continuamente i doppi delle chiavi, nonché quello del farmacista, Rainierio Roncino, che aveva servito alla monaca ripetutamente degl’intrugli abortivi. Lo speziale fu ucciso al secondo tentativo: ma la tresca e le sue nefaste conseguenze erano diventate ormai palesi. Perciò, mentre lo Stato di Milano se ne interessava e arrestava Osio una prima volta, cominciò a indagare anche l'autorità religiosa.


Il 25 novembre 1607 la monaca fu arrestata dal vicario criminale della curia e trasferita a forza nel monastero delle Benedettine di S.Ulderico a Milano: suor Virginia, ormai fuori di sé, accolse il superiore letteralmente a spada sguainata. L’Osio, che era riparato in convento, si diede allora alla fuga con suor Benedetta e suor Ottavia – detto per inciso, non è che lui si fermasse alla monaca di Monza, anzi; coinvolgeva nelle sue tresche anche queste altre suore. Mal gliene incolse, dato che suor Benedetta fu gettata da Osio nel pozzo – il pozzo è l'altro grande protagonista di questa storia -, mentre suor Ottavia, evidentemente in assenza di pozzi, fu percossa col calcio dell'archibugio e gettata nel fiume Lambro. Si salvò però fingendosi morta, e sopravvisse giusto il tempo di rendere testimonianza di quanto successo, morendo il successivo 26 dicembre; suor Benedetta fu ritrovata invece due giorni dopo viva (sempre nel pozzo, che, per inciso, era quello dove era stato gettato anche il capo di Caterina, a Velate). Negli stessi giorni fu infine arrestato il disgustoso don Pietro Arrigone, che aveva approfittato della situazione per condurre una sua tresca personale con un'altra monaca. Le indagini proseguirono a stento: sempre fuori di sé, suor Virginia tentò più volte il suicidio mentre era reclusa, mentre il senato di Milano fece confiscare i beni della famiglia Osio per far uscire Giampaolo dall'ombra: questi, difatti, fu condannato all'impiccagione e alla confisca di tutti i i suoi beni il 25 febbraio 1608. La sua casa venne rasa al suolo e, al suo posto, eretta una "colonna infame" a futura memoria, né più né meno come quella che seguì i processi agli untori e di cui Manzoni ha tracciato la storia nella Storia della colonna infame. Osio, attirato con la promessa dell'asilo in una trappola nella casa di un amico, il conte Lodovico Taverna, fu infine ucciso a bastonate nel 1609 (dopo che aveva confessato i suoi peccati, precauzione notevole).


La sentenza di suor Virginia e delle altre monache avvenne solo dopo quella di Osio, il 17 ottobre 1608; prima furono torturate col sistema dei "sibilli" (schiacciamento delle dita, la tortura riservata alle donne) allo scopo che confermassero la loro confessione; poi tutte condannate alla reclusione perpetua, suor Virginia nel convento delle Convertite di santa Valeria a Milano, un istituto per le prostitute pentite, sito vicino a S.Ambrogio. Fu però graziata 13 anni dopo, nel 1622, 13 anni che aveva passato in una cella di 1,80 x 3 (esattamente come le celle del braccio della morte odierno negli USA): fu graziata perché il cardinale Federico Borromeo si era convinto del suo pentimento. E credo che questo fosse sincero: il cardinale le affidò infatti il compito di assistere per lettera delle consorelle in crisi. 


In effetti, negli anni '60, il professor M.Marchesan, geniale fondatore della psicologia della scrittura - una vera e propria scienza della scrittura, impiegata per formare i super-periti, riconosciuti nei tribunali di mezzo mondo - operò un'analisi approfondita della grafia della "Signora" mediante suoi scritti distribuiti su di un ampio arco di tempo. Dall'analisi emerse che suor Virginia sarebbe stata "una buona madre di famiglia", non certo una suora, e un suo fondamentale equilibrio, vanificato però durante la tresca con l'Osio. Quanto alla sua responsabilità penale, ella si sentiva vittima di una forte ingiustizia, provava una forte attrazione per la vita sessuale ed era molto sensibile all'argomento della sua bellezza sacrificata - si noti la straordinaria coincidenza delle pagine di Manzoni con questi tratti -; in generale, lei avrebbe avuto diritto a varie attenuanti, considerato soprattutto che si trovava in uno stato di coazione continua. Al termine della segregazione ella mostrava segni di agitazione dovuta alla repressione. Soprattutto, Marianna avrebbe avuto bisogno di libertà, per espandersi armoniosamente nell'ambiente a sua disposizione, specie a livello affettivo ed artistico. Compromessa questa libertà, la sua etica andò a rotoli. E qui, vale la pena di ricordare che la monacazione forzata risaliva all'epoca in cui aveva solo 16 anni. Le è stata rovinata la vita. 


Tutto ciò permette di inquadrare meglio la problematica della mancanza di rispetto, il nocciolo della manipolazione relazionale attraverso le cui lenti ho provato più volte, sul blog ed a scuola, a considerare la storia della monaca di Monza. Tutta la sua vita è stata attraversata dalla mancanza di ascolto e rispetto: da quando le davano le bambole vestite da monaca per operarle una sorta di lavaggio del cervello, a tutta la sua educazione, a quando la rinchiusero nel mese di prova in cui avrebbe dovuto gustare il mondo prima di prendere definitivamente il velo, dalle moine con cui la trattarono a quando cedette alla monacazione, fino alla relazione con Osio - Egidio - che non è stata una bella storia d'amore, ma qualcosa di molto simile alle relazioni patologiche di cui sono vittime troppe donne oggi (con tanto di femminicidio finale). Gertrude - suor Virginia non ha mai avuto il diritto di esistere per quel che era, come dimostra l'analisi della sua grafia; non stupisce che sia stato così anche con quello che diceva di amarla, o che lei si sentisse vittima di un maleficio. Persino Manzoni la ritiene parzialmente responsabile, perché, osserva, lei avrebbe potuto essere, se avesse contato sulla fede, una monaca contenta. Ma lei si agitava sotto il giogo, il che peggiorò la sua situazione. Per certi versi è vero: ciò corrisponde al senso di ingiustizia rilevato in lei dal prof.Marchesan; senza contare che il suo amor proprio, sostiene lo scrittore, la induceva a una sorta di complicità sotterranea coi suoi aguzzini, che solleticavano il suo orgoglio, e Marchesan ha rilevato spinte narcisistiche nella sua grafia. Manzoni però, un po' troppo giansenista, dimentica le circostanze attenuanti: l'effetto destabilizzatore della violenza sulla sua psiche e il fatto che lei avesse, al momento di farsi suora, solo 16 anni. Credo che si sia trovata al centro di una spirale e che nessuno, ma proprio nessuno, le abbia teso una mano affettuosa, almeno fino alla grazia del cardinal Borromeo: anche quella giunta dopo una lunga, draconiana, forse eccessiva, punizione. 


Curiosità: esistono delle somiglianze tra la vicenda di suor Virginia de Leyva e quella della quasi coetanea suor Lucrezia Buonvisi, di Lucca, città che Manzoni del resto, così come suo nonno, Cesare Beccaria, conosceva bene. Tra l'altro, questa Lucrezia aveva forti legami con Ferrara: la sua famiglia era addirittura in corrispondenza con Torquato Tasso, che sovveniva! Si noti però che lei si fece suora per sfuggire alla cattura dopo che era stata complice dell'omicidio del marito.
Per la sua storia rinvio al bell'articolo di Elena Pierotti, Lucca e la sua "monaca di Monza": Lucrezia Buonvisi, al link:

sabato 30 novembre 2019

Bigné rosa



Bigné rosa

Una ricetta di mia invenzione...Alta pasticceria, molto  golosa....

Per i bigné

Farina 150 gr.
Burro 100 gr.
Acqua 250 ml.
Un cucchiaino di zucchero
2 uova
Un pizzico di sale

Questa è la ricetta migliore che ho trovato per la cosiddetta "pasta choux", cioè la pasta che in pasticceria si usa per i bignés, gli éclairs, le religieuses ecc. Infatti, questi pasticcini che vi propongo non sono propriamente bignés, bensì la loro forma più cicciuta, le cosiddette "religieuses". Fate scogliere sul fuoco il burro dentro l'acqua, quindi portate a ebollizione e togliete dal fuoco. Aggiungete al liquido la farina, il sale e lo zucchero e mescolate energicamente per creare una pasta liscia e omogenea; quindi, rimettete sul fuoco per asciugare la pasta. Infatti, essa dovrà raggiungere una consistenza soda e staccarsi dai lati della pentola; quando ha raggiunto questo stadio, togliete nuovamente dal fuoco e aggiungete i tuorli (mi raccomando, fuori dal fuoco, sennò fate una frittata!), infine i chiari montati a neve ben ferma. A questo punto la pasta deve essere più morbida e collosa. Con la siringa del pasticciere formate alcune palline sulla piastra da forno imburrata: più piccole se volete ottenere dei bignè, di 8 cm di diametro se preferite creare delle religieuses. Infine, cuocete a forno caldo (180 gradi) per 15 minuti. Però, sorvegliate con attenzione il forno, perché il tempo di cottura può variare: i bigné richiedono meno e basta un attimo per arrossirli; le religieuses, invece, devono asciugarsi all'interno.


Per la crema rosa

La crema rosa è una normale crema pasticcera divenuta rosa per l'aggiunta di Alkermes. Quindi, procedete così:

Per la crema rosa

Zucchero gr.140
Farina gr.90 (o anche fecola, che si addensa prima)
2 uova (oppure 4 tuorli)
400 ml di latte
1 bicchiere scarso di Alkermes
mezzo baccello di vaniglia (oppure qualche goccia di essenza)
un pizzico di sale



Far giungere a ebollizione il latte con la vaniglia,  poi aggiungere l'Alkermes fuori dal fuoco e lasciar raffreddare; intanto, mescolare in un'altra ciotola uova e zucchero, col pizzico di sale, e incorporare poco per volta la farina, o la fecola, setacciata; la dose prevede un cucchiaio in più rispetto alla normale crema pasticcera, per controbilanciare l'aggiunta dell'Alkermes. Ho sperimentato che 2 uova intere possono bastare al posto dei 4 tuorli, uno stratagemma che io impiego per non gettare gli albumi; tuttavia, se volete usare gli albumi, sappiate che la crema rischia di "stracciare", per cui, quando sarà giunta a ebollizione, dovrete essere pronti a mescolarla energicamente fuori dal fuoco perché torni liscia e si ricompatti. Aggiungere poco per volta a filo il latte caldo (a filo! Altrimenti cuociono le uova e vi ritrovate una frittata) e, quando il liquido finale è pronto, cuocere a fuoco molto basso, sempre mescolando (altrimenti si attacca), per una decina di minuti, fino a che la crema non si addenserà. Quando è pronta, si può aggiungere della panna fredda montata.

Per la glassa

100 gr. di zucchero a velo
Alcuni cucchiai di sciroppo ottenuto
con un poco di acqua e di Alkermes.

Stemperate lo zucchero a velo con lo sciroppo di Alkermes: ne verrà una cremina rosa.



Gran finale
Quando i bigné, o le religieuses, sono pronti e raffreddati, potete riempirli con la siringa del  pasticcere, oppure dopo averli tagliati a metà, con la crema rosa. Infine, decorate con la glassa rosa e servite dopo avere lasciato per un po' di tempo in frigorifero. Il risultato è un miracolo della pasticceria...Per i golosi come me...(adf)

giovedì 28 novembre 2019

Padre Cristoforo e Don Rodrigo


Padre Cristoforo e Don Rodrigo

Uno dei momenti più esaltanti dei Promessi sposi è l'inizio del capitolo 6, quando Padre Cristoforo incontra don Rodrigo e finisce per "cantargliele chiare". E' un momento significativo anche perché rivela sottilmente le meccaniche di sopruso e violenza seguite dall'antagonista del romanzo: se, come sosteneva Italo Calvino, i Promessi sposi sono il "romanzo dei rapporti di forza", anzi, chioserei io, una delle migliori rappresentazioni del cancro della violenza entro la società italiana, questa pagina è imperdibile. E sottolineo che il problema dell'Italia è, innanzitutto, quello della violenza e del sopruso: proprio per questo, l'opera fondamentale di Manzoni ha ancora molto da dirci.


Tuttavia, non si può comprendere questo episodio se non si analizza anche quello precedente, il banchetto nel palazzotto di don Rodrigo durante il quale Padre Cristoforo arriva e cui viene, malgrado la sua reticenza, invitato a sedere. A tavola del signorotto siedono i maggiorenti locali, in vena di leccargli le scarpe: il già noto Azzeccagarbugli, che, col suo naso rosso mostra di apprezzare particolarmente i vini del convito; il podestà, che come, sottolinea Manzoni, avrebbe dovuto far giustizia invece a Renzo; il conte Attilio, cugino e compagno di scorribande di don Rodrigo, che siede invece a capotavola; infine due convitati anonimi, probabilmente due semplici comparse, chiamate a ravvivare ulteriormente l'atmosfera di adulazione che aureola il signorotto. Tutto l'episodio rivela il persistere di una profonda logica del sopruso in questo ambiente votato alla prepotenza. Nel corso della concitata discussione, vengono toccati i seguenti argomenti:


1) Una quérelle cavalleresca (desunta dal Tasso, grande specialista nel campo) che oppone due cavalieri, uno milanese e l'altro spagnolo: il milanese ha sfidato lo spagnolo, ma quest'ultimo ha fatto bastonare il messaggero che recava il cartello della disfida.
2) Una discussione sulla guerra di successione del ducato di Mantova, episodio della più ampia Guerra dei Trent'anni e che vede il contrapporsi di Francia e Spagna.
3) La questione della carestia.

In tutti e tre questi argomenti, ognuno dei commensali dimostra un atteggiamento ben preciso: il conte Attilio rivela una mentalità spiccia e brutale, tanto da approvare le (incivili) bastonature inferte al messaggero: il che fa inorridire il podestà, più attento alle apparenze e memore del rispetto dovuto agli ambasciatori. Il podestà, d'altro canto, ama l'adulazione servile, tanto che passa parecchio tempo a elogiare in modo spropositato il primo ministro di Filippo IV di Spagna, il conte duca Olivares, esagerandone le abilità.  E' evidente come il suo entusiasmo sia motivato dalla sua verve piaggina e mediocre: come si piega a adulare don Rodrigo, così il podestà è accecato dal potere (cui si avvicina per via molto indiretta, attraverso il castellano che è figlio di un protetto di Olivares) e dimostra di capire ben poco di politica. Infine, tutti i commensali, al primo accenno sulla carestia, se la spiegano, molto stolidamente, con le presunte colpe dei fornai, che nasconderebbero la farina e che dovrebbero essere, secondo loro, impiccati: spiegazioni e metodi che collimano con una visione rozza e ignorante. Violenza, sopruso e stupidità la fanno, insomma, da padrone. Bastano poche parole di padre Cristoforo, però, a far crollare almeno il primo argomento come un castello di carte: già il suo silenzio è una critica vivente di queste discussioni; ma quando viene chiesto al frate il suo parere in materia di duelli, lui si limita a proferire: "Il mio debole parere sarebbe che non vi fossero né sfide, né portatori, né bastonate". Vero però che gli altri commensali poi non gli danno ascolto (e don Rodrigo allude volgarmente e pesantemente al passato del suo ospite).


Quando invece don Rodrigo, pur di malavoglia, dà udienza al padre, la situazione evolve rapidamente al peggio, secondo un vero e proprio climax (oggi si direbbe escalation). E il peggio arriva per colpa di don Rodrigo. Don Rodrigo è un personaggio meschino: così meschino che Manzoni non si preoccupa neanche di descriverlo. Di lui sappiamo pochissimo, tutt'al più che suo padre era diverso da lui; l'autore non ce lo descrive fisicamente, non si prende neanche la briga di delinearlo dal punto di vista del carattere; il signorotto non ha niente della sinistra grandezza dell'Innominato, uomo malvagio, ma di ben altro calibro e coraggio; lo vediamo soltanto, occasionalmente, in azione e ignoriamo completamente la sua storia. Forse Manzoni avrebbe potuto renderne il carattere un po' meno superficiale e piatto se gli avesse inventato, che so, un'infanzia infelice, ma niente: don Rodrigo è caratterizzato soltanto da un piatto, volgare egoismo e Manzoni si rifiuta di perdere tempo su di lui. L'unica descrizione accessoria che ci fornisce al suo riguardo è quella del suo ambiente, il palazzotto, un luogo sinistro e fatiscente che, tra l'altro, avrebbe bisogno urgente di manutenzione (neanche gli avvoltoi impagliati e inchiodati sul portone sono in condizioni decenti!).


La nostra disamina del passo in 2M ha rivelato i seguenti atteggiamenti tenuti da don Rodrigo durante il colloquio con padre Cristoforo:
  • E' superbo e arrogante (chiede "In che posso ubbidirla?" con un atteggiamento, però, che ricorda il duce).
  • Tira costantemente al peggio le parole di Padre Cristoforo: se questi gli chiede di rettificare la situazione di Lucia, senza giudicarlo e affermando che ci sono semplicemente dei malviventi che sfruttano il suo nome per commettere dei soprusi, il signorotto si mostra offeso, quindi accusa il religioso di essere una spia; se il padre allude a Lucia, don Rodrigo lo sbeffeggia osservando che una fanciulla gli preme molto; e così via. Questa è una tipica tattica degli aggressori: interpretare negativamente anche le frasi più anodine dei loro interlocutori, per farli passare dalla parte del torto. 
  • Irride beffardamente padre Cristoforo ("Il predicatore in casa! Non l'hanno che i principi"). Del resto, già nel capitolo precedente, si era divertito a colpire il padre con pesanti e villane allusioni al suo passato prima della conversione, un vero e proprio insulto. 
  • Finge un'inesistente sollecitudine per Lucia ("Giacché questa persona le sta tanto a cuore...").
  • Ciò che precede prelude alla provocazione finale: proporre a padre Cristoforo che Lucia si ponga nientedimeno che sotto la protezione del signorotto. Come proporre a Martin Luther King di affidarsi al Ku Klux Klan...Si intravvede qui il gusto prepotente e villano di provocare il padre tanto per imporre il proprio potere abusivo.

A questo punto, come noto, padre Cristoforo esplode (noi lo stavamo aspettando da un pezzo, ma il padre è stato tanto paziente...). Questo è uno dei punti dei Promessi sposi in cui il lettore ingrassa di 10 chili di soddisfazione: forse neanche vedere don Rodrigo divorato dalla peste produce lo stesso effetto (ecco: adesso Leo, di 2M, mi accuserà di avere introdotto uno spoiler nella narrazione). Il padre non ha più paura del signorotto: la sua malvagità lo ha ridotto ad essere abbandonato da Dio, quindi impotente; e, difatti, don Rodrigo combinerà ben poco per tutto il corso del romanzo. Nella dura requisitoria del religioso contro il signorotto emerge il ritratto, scultoreo, del Dio veterotestamentario, quello prediletto dal cattolicesimo venato di giansenismo cui Manzoni stesso era stato formato; un Dio giustiziere, severo, che colpisce con le sue folgori (Ho compassione di questa casa: la maledizione le sta sopra sospesa. State a vedere che la giustizia di Dio avrà riguardo a quattro pietre, e suggezione di quattro sgherri"). La descrizione che padre Cristoforo fornisce del "palazzotto" di don Rodrigo coincide stranamente con la realtà: il "palazzotto", già all'inizio, sembra veramente ridursi a quattro pietre; e i bravi, due dei quali sonnecchiano pigramente davanti al portone, appaiono sul serio come quattro sgherri. E' come se la rovina finale di questa casa fosse già iscritta nelle sue condizioni iniziali. Il giansenismo di Manzoni non arriva però a credere nella predestinazione: il frate pronuncia un chiarissimo "Vi siete giudicato". Come il Faraone citato poco dopo, don Rodrigo si condanna da solo: e, in effetti, succede sempre così, i malvagi provocano la loro stessa rovina (perché i cattivi nelle fiabe cadono sempre nel burrone da soli?). 


Nel corso della sua requisitoria, il frate paragona don Rodrigo al Faraone egiziano che si era opposto a Mosé: questo è uno degl'indizi per cui ritengo che la vicenda di padre Cristoforo sia modellata proprio su quella del profeta biblico. Manzoni, del resto, aveva progettato, su richiesta del suo direttore spirituale, monsignor Luigi Tosi, una biografia di Mosé mai compiuta; il testo aveva illustri precedenti, come uno scritto di san Gregorio di Nissa (IV sec.). Ma l'acme del passo viene toccato dalla famosissima chiusa: Verrà un giorno...Qui si respira l'atmosfera potente del Dies irae e padre Cristoforo assurge alla statura di un profeta biblico, anzi, apocalittico. La frase riecheggia Sal. 36,12-13, secondo cui il giorno del peccatore verrà; ma quello che manca al testo biblico è la straordinaria reticenza impiegata da Manzoni. La frase, infatti, non rivela quello che avverrà, ma il silenzio con cui essa avvolge il futuro rende l'espressione ancora più impressionante. Che cosa succederà quando verrà un giorno? Potremmo esplicitare: "Verrà un giorno che la pagherai e smetterai di tormentare degl'innocenti; verrà un giorno che sconterai le tue malefatte e la tua presunta potenza crollerà come un povero castello di carte; verrà un giorno che Dio ti giudicherà e vedrai davanti a te le fiamme dell'inferno". Potremmo continuare per un pezzo, ma sarebbe inutile: tutto può essere implicito in quella straordinaria frase e reticenza, che però diventa ancora più impressionante e potente quanto più tace. Manzoni era un maestro della reticenza: e qui raggiunge una vetta. La punizione è già insita nella profezia: verrà un giorno. Basta questo per evocare tutto e basta questa sola frase per impaurire don Rodrigo, perché, e questa è la soddisfazione più intima del lettore, i malvagi vengono sempre puniti, o in questa vita o nell'altra. Del resto, questa frase possiede in sé la forza ineguagliabile della verità. 




martedì 5 novembre 2019

Oltre la bufera (Marco Cassini, 2019)



Oltre la bufera (Marco Cassini, 2019)

C'è stata un'epoca, qui nel Ferrarese, in cui la rabbia dei braccianti infiammava le campagne e i socialisti, comprensibilmente, raccoglievano il favore della masse alla fame; contro di loro partivano allora le squadre nere, che, come uccelli del malaugurio, seminavano terrore e violenza a colpi di manganello e facevano ingollare litri di olio di ricino alle loro vittime. Non di rado, ci scappava il morto, come accadde in Piazza Castello. Era l'epoca in cui, per esempio, mia nonna Maria Cristina, allora di appena 25 anni, da sola nella casa di famiglia con 4 anziani allettati, 2 bambine sue e 4 della cognata ammalata, si chiudeva in casa la notte per il terrore, con tutte le bambine intorno, a pregare, mentre dal borgo vicino provenivano gli urli delle vittime pestate a sangue dai fascisti.


Era l'epoca della bufera del titolo, magnificamente indovinato, dell'ultima fatica di Marco Cassini e Stefano Muroni, "Oltre la bufera", film molto intenso sul ministero e il martirio di don Giovanni Minzoni, il sacerdote ucciso ad Argenta dai fascisti la sera del 23 agosto 1923. A Marco Cassini si deve la regia, attenta e curata; a Stefano Muroni, invece, l'interpretazione del protagonista, ma anche la motivazione, l'idea e una gran quantità di lavoro dietro le quinte, per assicurare il coronamento e il successo di quest'impresa; un'impresa che, nonostante i mezzi ridotti a disposizione, è riuscita a raggiungere meritatamente la platea nazionale e non ha nulla da invidiare, anzi, alle meglio foraggiate pellicole che hanno a disposizione le grandi possibilità fornite dai giganti della produzione cinematografica.  Questo per sottolineare il surplus d'impegno che un'iniziativa del genere deve avere richiesto e il discernimento con cui i mezzi a disposizione sono stati impiegati (lo si nota, ad esempio, dall'accortezza con cui è stata calibrata la scenografia).


Il film si apre col ritorno di don Giovanni Minzoni ad Argenta dopo la Prima Guerra Mondiale. Uomo di grande valore e coraggio, aveva servito nell'esercito come cappellano militare, ma era stato anche insignito di varie medaglie al valore per il suo ardimento sul campo e per come aveva guidato i suoi uomini all'attacco - ricordo per inciso che certi attacchi al nemico, sul fronte del Piave, terminavano spesso in una carneficina, specie quando gli uomini partivano all'attacco alla baionetta contro uno schieramento di mitragliatrici. Stefano Muroni, con la sua recitazione, riesce a conferire intenso spessore etico e forte rettitudine e dignità a questa figura, purtroppo non sufficientemente ricordata neanche qui a Ferrara: non conto più gli errori storici che ho udito in questi giorni di programmazione del film, segno che pochi ricordano chi era davvero don Minzoni. Invece, è stato forse la prima vittima illustre del fascismo, in quanto ucciso ben un anno prima del più noto Giacomo Matteotti (il deputato socialista di Fratta Polesine, fatto sparire tra il giugno e l'agosto del 1924, dopo le elezioni truccate che portarono il fascismo a stravincere). La pellicola non è propriamente costruita come un film storico, dato che possiede piuttosto un respiro teatrale, esaltato dai frequenti e intensi primi, se non anche primissimi piani, nonché dalla costruzione attenta, molto concettuale, dei dialoghi: la vicenda appare così condensata per sommi capi e, soprattutto all'inizio, si fatica un po' a orientarsi nel dettaglio degli avvenimenti storici, sospesi in modo generale nel biennio precedente la Marcia su Roma. Poi, il ritmo si accelera progressivamente, man mano che ci si avvicina alla conclusione.


Tuttavia, il succo della vicenda c'è, eccome, e rispetta nettamente i fatti storici. Il ritorno di don Minzoni dalla guerra; la sua amicizia con alcuni socialisti della zona; i dettagli della crisi modernista (come il particolare che i sacerdoti, allora, per rispetto della tradizione, non potevano andare in bicicletta!); l'incomprensione delle gerarchie ecclesiali, troppo attendiste col fascismo; l'uccisione, da parte dei fascisti, di un militante socialista di rilievo, massacrato a furia di botte nelle campagne; l'impegno religioso e sociale di don Minzoni, che moltiplicò le iniziative ad Argenta, dalla cooperativa femminile - frutto di uno squisito e inconsueto, anzi precocissimo interesse per la condizione femminile - agli scout cattolici, all'opera ricreativa per i giovani; il contrapporsi di queste iniziative a quelle ricreative fasciste; le minacce, le intimidazioni, la prossimità agli squadristi che organizzarono la spedizione punitiva di un celeberrimo gerarca ferrarese come Italo Balbo, il cui ruolo nella vicenda è sempre rimasto discusso. Gli assassini di don Minzoni furono sì processati (e poi amnistiati...) dopo la guerra, nel 1947, per omicidio preterintenzionale: in sostanza, avevano ucciso don Minzoni durante una spedizione punitiva che non mirava propriamente all'omicidio, ma che aveva passato il segno, finendo in un massacro. non è mai stato stabilito con chiarezza se Balbo, oggi sepolto nella nostra Certosa (non lontano da mio nonno, tra l'altro), fosse a conoscenza di ciò. Del resto, Balbo fu, probabilmente, il più intelligente e spregiudicato, forse anche il più capace tra i gerarchi fascisti della prima ora, tanto capace da suscitare la gelosia del Duce (e da fare une pessima fine in Libia). Ma era un fascista: nel film viene presentato come più prudente.


Un film del genere, di grande spessore contenutistico, etico e di genuina qualità, appare davvero utile, anzi necessario in questo periodo segnato sempre più da violenze e intolleranza di vario genere. La grande dirittura morale di don Minzoni, il suo ascendente, determinato e pacifico, sulle persone che lo circondavano e gli erano affezionate, costituisce l'ossatura intorno a cui si organizza la vicenda. Tra gli altri interpreti, vorrei ricordare soprattutto Piero Cardano, che interpreta l'antagonista fascista del sacerdote e che ben rappresenta il nucleo di violenza cieca dello squadrismo fascista: io lo ricordo nella puntata Champagne per uno della serie di Nero Wolfe, così come Davide Paganini, che qui interpreta uno degli amici socialisti di don Giovanni. Man mano che ci si avvicina alla fine, la vicenda riceve un'accelerazione  che non si limita solo al ritmo del film: è, soprattutto, un'intensificazione etica. Brilla in don Minzoni l'autenticità cristiana, il coraggio di dire "no", in modo netto, al male.

Ho voluto iniziare questa recensione ricordando alcuni fatti della storia della mia famiglia, perché la storia del nostro paese si è incarnata in profondità in quella delle nostre famiglie ed è bene che ciò alimenti la memoria; e questo, soprattutto a beneficio dei nostri ragazzi che, nella in una società sempre più vertiginosamente rapida, non riescono spesso a mantenere i contatti col passato. Anche la storia di don Minzoni, per noi di Ferrara, dovrebbe essere storia di famiglia. Ed è una storia che si apre verso il futuro e la vicenda successiva del nostro Paese. Così, l'idea di richiamare visivamente le stragi che lo hanno segnato a sangue è splendida, perché davvero don Minzoni è stato il primo (o tra i primi) di una lunga serie di morti, vittime dell'estremismo politico di ogni colore. Le scene finali in cui il sacerdote viene immolato sono davvero difficili da dimenticare.


Rettifica: nella prima versione di questa recensione avevo dato per buona la versione secondo cui il mandante dell'omicidio di don Minzoni sarebbe stato Italo Balbo. Molto gentilmente, Stefano Muroni mi ha comunicato che, in realtà, stando alle ricerche della produzione, non si è mai riuscito a stabilire la responsabilità di Balbo e che la famiglia ha sempre vinto tutte le querele in materia. Ringrazio quindi Stefano Muroni per la rettifica.

mercoledì 2 ottobre 2019

Ritorno al "Roiti"



Ritorno...al "Roiti"...

Decine di film e romanzi hanno reso immortali titoli come Ritorno a Cold Mountain, oppure, Ritorno a Berlino e così via; e, ovviamente, anche noi qui abbiamo il nostro "epico" ritorno...al "Roiti". Cioè, tornando coi piedi per terra, dato che è settembre, siamo tornati a scuola, studenti e insegnanti, oppure, per dirla con un alone di gergo locale, a sem turnà a scola. E quindi, rieccoci qua, coi soliti protagonisti delle mie pagine di memorie scolastiche, alle prese con un nuovo anno, appunto, scolastico, nostalgici tutti, dal preside in giù, delle vacanze. Qui dettaglierò alcuni episodi divertenti accaduti nel nuovo anno e che già danno il tono dell'avvenire.


Partiamo dalla 5M, la ex-4M che a marzo abbiamo portato in una memorabile gita a Milano. Lo so, state aspettando il seguito dell'epopea su quella gita, ovvero la puntata numero 4: però, vi prego di aspettare un attimo, anche perché i ragazzi della nuova 5M hanno appena finito il compito su Foscolo e prima vediamo com'è andato, poi ci sarà il seguito. Comunque, c'è già qualche avvenimento memorabile anche da loro. Sabato 7 settembre 2019, ore 17.00: nel corso della tornata di consigli di classe successivi agli esami di settembre, presiedo, in quanto coordinatrice, il consiglio di 4M (è ancora la 4M). Mentre mi occupo delle prime operazioni di scrutinio, ci rendiamo tutti conto che manca la Bea (ndr Beatrice, la collega di Latino che, tutti ricorderanno, era in gita con noi a Milano). Susanna, la collega di Inglese, osserva: "Vuoi vedere che si è dimenticata? Perché stamattina mi ha salutato dicendomi: "Ci vediamo lunedì!". In effetti: solo le paranoie del ministero, che voleva chiudere tutte le operazioni di scrutinio entro il 7, ci hanno obbligato a fare uno scrutinio, uno degli ultimi in calendario, un sabato pomeriggio, neanche fossimo al Pronto Soccorso; allora Cristina (la collega di matematica) prende il cellulare e chiama.


Mentre io comincio a scrivere il verbale, in un silenzio che non è esagerato definire "tombale", assistiamo tutti al seguente dialogo: "Ciao Bea! Come stai? Sì...Sei a casa? - silenzio - Eh, sì, noi saremmo in consiglio di classe... - altro silenzio - Eh! Il consiglio di classe della 4M! -. Il seguito ce lo ha raccontato la stessa Beatrice in termini esilaranti. Nel  momento fatidico in cui ha udito il nome della classe, dice Bea, ha avuto una "visione": Giandaniele, il mitico rappresentante di classe, che passa buona parte del suo tempo a raccogliere formulari, autorizzazioni, schede, soldi per il teatro, per la gita ecc. ecc. ecc. - difatti, anche il primo giorno, mentre raccontavo l'episodio, stava già raccogliendo le prime autorizzazioni del nuovo anno scolastico. "Giandaniele? MAMMA!!! LA 4M!!!!!" Inutile dire che si è precipitata a scuola, dove è arrivata come un razzo una ventina di minuti dopo: ma la  riflessione divertente è che Gianda, come tutti lo chiamano, è l'"uomo immagine" della classe, una vera e propria "icona", come osservava Beatrice stessa: pensare alla 4M - ora 5M - e vedere lui in visione sono tutt'uno. Gianda è secondo, in popolarità, solo al misterioso giovanotto che beccai, sei mesi fa, in mutande a cuoricini (marca "Baci e abbracci", mi hanno riferito in seguito) chiuso fuori della porta della sua camera nel lussuoso albergo di Milano. Eh, lo so, il mio pubblico vorrebbe sapere tanto chi è: chissà, un giorno, ve lo rivelerò - uno dei segreti meglio conservati del "Roiti"...


                                                        Identikit dell'eroe misterioso

Ma passiamo oltre, varchiamo l'atrio ed entriamo in 2M. Quest'anno li ho non solo per Storia, ma anche per Italiano: e siamo partiti tutti in quarta, pieni di buona volontà, per migliorare l'espressione scritta e orale al meglio. Quindi, abbiamo iniziato un'agenda in cui segnare le parole nuove. Detto, fatto. Già il secondo giorno di scuola spiegavo la vita di Manzoni, dato che in seconda si leggono i Promessi sposi: per cui, chiarisco che Manzoni era il nipote, tramite la madre Giulia, del famoso marchese Cesare Beccaria, autore del Dei delitti e delle pene...A un certo punto, un baldo giovane seduto in fondo, alza la mano di slancio e chiede: "Prof, ma che cosa c'entra Manzoni con le Marche?" Rimango esterrefatta. Lo so, quando la racconto (dico il peccato, ma non il peccatore), non tutti ridono subito, primo perché non hanno colto il collegamento tra "marchese Beccaria" e Marche, secondo, a volte (temo), perché forse hanno dei dubbi anche loro su chi sia un marchese...Dopo dieci minuti, lo stesso giovanotto mi fa un altro intervento a casaccio di questo genere, per cui gli dico: "Ascolta, pensaci un po' prima di fare le domande, sennò fai delle figuracce continue..". Il fatto è che in 2M fanno tantissime domande, talvolta anche troppe, per cui bisogna trattenerli un po', per evitare che si tirino la zappa sui piedi da soli.


Quando passiamo all'ora di Storia, anticipo il contenuto  del programma, che, quest'anno, deve abbracciare il periodo dall'Impero Romano al Medioevo. Provo a chiedere loro quanto è durato l'Impero Romano, prima quello d'Occidente e poi quello d'Oriente: la caduta di Costantinopoli (1453) nelle mani dei Turchi è una data tanto famosa, che, magari, l'hanno orecchiata prima o poi. Appena lo chiedo, però, si scatena l'asta: 300! 400! 600! 1000! E così via. A furia di giocare al rialzo, qualcuno è arrivato infine al 1400. Va bene, osservo io (...), però, potremmo essere un po' più precisi? A quel punto, il giovanotto di prima scatta con la  mano alzata ed esclama: "1492, la scoperta dell'America!" Gli altri esplodono a ridere e io lo guardo basita. Poi, non posso fare a meno di rispondere, in ferrarese: "Ma cussa gh'entra?". Quindi mi volto col suo compagno di banco Carlo: "Senti, dacci un'occhiata tu: oggi, sta delirando". A proposito: Carlo è quello che io ho soprannominato "il Perieco", perché l'anno scorso, quando abbiamo studiato Sparta, era pieno di curiosità sui perieci (ndr gli stranieri liberi a Sparta). "Prof, ma che cosa facevano i perieci? Prof, ma i perieci combattevano nell'esercito? Prof, ma i perieci partecipavano al governo?"; tutte queste domande finché, un mattino, non ho esclamato: "Senti, Carlo, ancora con 'sti perieci??? Si può sapere perché ce l'hai tanto con i perieci???". E così, da allora, "Perieco" è rimasto.


Ultima classe, la 4N. Allora, qui ci vuole un discorsetto a se stante. Forse voi avrete appreso, tanto tempo fa, della decimazione: nell'esercito romano, per punire i soldati ribelli, se ne eliminava uno ogni 10. A noi, la decimazione, ci fa un baffo. Nel passaggio dalla 3 alla 4N, la classe si è ridotta della metà, da 24 a 12: 5 bocciati - e qui vale la pena ricordare il lavoro straordinario svolto dalla coordinatrice, la collega di Matematica Serena, che è stata bravissima a mantenere i contatti con le famiglie dei ragazzi in difficoltà; secondo me, dopo questa, potrebbero prenderla direttamente all'ONU -, 2 trasferiti per motivi sportivi e 5 sparpagliati per l'anno all'estero su un'estensione del globo che va da Cork (Irlanda) a Toronto e Vancouver (Canada). Vabbè, questi ultimi torneranno: però, nel frattempo, la classe è letteralmente vuota e lo spazio tra uno studente e l'altro mi ricorda quello tra gli isolati nelle città americane: mezzo chilometro per volta. Qualche giorno fa, qualcuno, impietosito, dai piani alti ci ha mandato una ragazza trasferita, una gentile brunetta di nome Elisabetta: quando l'ho salutata per l'accoglienza, l'ho pubblicamente ringraziata perché veniva a darci una mano per ripopolare quella che assomiglia sempre più a una colonia d'oltremare, oppure al deserto del Gobi ("Dov'è il deserto del Gobi?...Mah! In Asia...Cina?" si chiedevano perplessi alcuni sopravvissuti; al che sono intervenuta: "Mongolia. Tra la Russia e la Cina").


L'anno scorso, i baldi giovani della 3N facevano una cagnara, ma una cagnara, che farli tacere - loro si sentivano molto calorosi e affettuosi a dire il vero - era un'impresa: quest'anno, quasi non hanno più la forza, nonché le energie vocali per farsi sentire, neanche se chiacchierano. Al primo CdC, li abbiamo trovati un po' "passivi". Per forza! Tra un po' dovranno ricorrere al piccione viaggiatore per le telecomunicazioni.
Il lato positivo è che così si lavora meglio - cosa che, al Ministero, non capiranno mai: per evitare la dispersione scolastica e raddoppiare la qualità del profitto, basterebbe avere delle classi poco numerose, proprio come questa. Sicuramente, però, il lavoro incombe, considerato che l'ultimo post che ho pubblicato su Facebook riguardo al "massimo della suspence" si riferisce a loro. I gialli, alla 4N, fanno decisamente male. Mentre i temi sulle ottave di Ariosto sono andati inconsuetamente bene, se volete godere dell'emozione del brivido, oppure del vertice della suspence, provate a leggere una delle loro sintesi sui gialli che si sono letti durante l'estate (Sherlock Holmes in testa): avrete tutta la suspence che volete, dato che io - che sono una specialista del genere - non ho capito neanche dove e chi fosse la vittima, men che meno chi era l'assassino. Poi c'è stato chi ha ecceduto nel senso inverso e mi ha - accartocciandolo malamente - riscritto l'intero romanzo. Conan Doyle e Camilleri, bontà loro, si staranno rigirando nella tomba.


Dato che siamo arrivati ai gialli, permettetemi una conclusione di ambito legal - universitario: per la serie, "mal comune, mezzo gaudio". Sto pensando ai colleghi delle facoltà vicine: come abbiamo ricominciato noi al "Roiti", è ripreso pure l'anno accademico, per cui anche i corsi, con tante nuove matricole, fresche fresche di diploma. Qualche giorno fa, stavo pacificamente studiando per la mia tesi (come tutti sanno, sono alla fine di una magistrale numero 2, in Storia) nella saletta d'ingresso della Biblioteca di Giuri, che ha il vantaggio di essere la più grande biblioteca universitaria della città. Lì trovo parecchi dei libri che mi servono, da Storia, a Letteratura, persino Filologia Classica e Teologia, senza contare i data base e così via; quindi, come dicevo, stavo pacificamente studiando il mio librone per la tesi, mentre, dalle finestre della biblioteca, entravano le voci dalla vicina aula magna, dove si stava tenendo un corso di Inglese giuridico. Presumo che fosse il corso zero, o introduttivo: comunque, l'amplissima aula magna traboccava di ventenni in erba. A un certo punto, comincio a sentire la docente che chiede al microfono: "What is a jury?" L'avrà ripetuto almeno una decina di volte (almeno). Evidentemente, nessuno le rispondeva. Alla quarta o quinta volta che lo ripeteva, avendo io perduto il filo del mio tomo di mille pagine sul peccato e la paura in età moderna (anche quello...), mi sono soffermata ad ascoltare. Intanto, mi dicevo tra me e me: "Dai, ragazzi! Diteglielo! Cos'è una giuria?". Non c'è stato verso. Non si trattava di tradurre all'impronta il comma 10 dell'articolo 2.898 del Codice Civile, miseria: siamo alle basi del Diritto (e dell'Inglese); cos'è una giuria? E poi: "Is there a jury in Italy? Is there a jury in the Italian legal system? Niente. Sono andata ad affacciarmi alla porta per vedere come andava a finire e ho percepito che qualcuno, da sotto la cattedra, stava faticosamente mettendo insieme l'idea che si trattava di 12 persone - e la docente precisava citizens - ma che eravamo ancora in alto mare. Stando così le cose, avremmo anche potuto vivere tuttora in un sistema assolutista. A questo punto, ho capito che, come vuole il proverbio, Se Atene piange, Sparta non ride. E, aggiungo, neanche i perieci.