domenica 15 dicembre 2019

Torta Pazientina



Torta Pazientina

Finalmente ci sono riuscita! Ecco qui la mia versione della celebre torta Pazientina di Padova. Non è poi così difficile da preparare, anche se ho dovuto cambiare la crema: è la crema pasticcera rosa inventata da me, ma la preferisco, perché quella allo zabaione, dopo che ho fatto un tentativo, non mi convince molto, dato che le ricette da me consultate prevedono troppe uova e troppo albume. Inoltre, la mia versione prevede l'Alkermes e non il marsala o il rum, una variante comunque contemplata. Vale la pena pazientare per prepararla, perché alla fine è squisita...

Ingredienti

Pasta bresciana
250 gr di farina
250 gr. di zucchero
250 gr. di burro (ammorbidito)
100 gr. di farina di mandorle
50 gr. di nocciole tritate fini
1 uovo
un poco di vaniglia


Pan di Spagna
Per il Pan di Spagna, fare riferimento alla mia ricetta, al link:
https://annaritamagri.blogspot.com/2016/10/pan-di-spagna-classico.html

Crema all'Alkermes ovvero crema rosa

Zucchero gr.140
Farina gr.90 (o anche fecola, che si addensa prima)
2 uova (oppure 4 tuorli)
400 ml di latte
1 bicchiere scarso di Alkermes
mezzo baccello di vaniglia (oppure qualche goccia di essenza)
un pizzico di sale


Sciroppo
Un cucchiaio di zucchero
una ciotola d'acqua
un bicchiere di Alkermes

Mousse al cioccolato
100 gr. di cioccolato fondente
25 gr. di burro
1 cucchiaio di zucchero
1 cucchiaio di latte (se necessario)
1 uovo

Preparazione
Per preparare la pasta bresciana, che è una variante della pasta frolla, basta unire gl'ingredienti in una terrina e mescolare (anche con le mani, si fa prima), finché non si ottiene una panetto sufficientemente sodo. Se necessario, aggiungete della farina. Rispetto alla comune pasta frolla, la pasta bresciana è ancora più profumata e decisamente ottima. Lasciate riposare il panetto per 2 ore, quindi stendetelo sulla tavola infarinata e ricavatene 2 dischi identici, da cuocere nelle rispettive teglie a 180 gr., per 10 minuti. Saranno la base e la copertura finale del dolce. 


Quindi, separatamente, preparate il Pan di Spagna, secondo la ricetta da me già fornita. Come già spiegato nella ricetta sui Bigné rosa:

https://annaritamagri.blogspot.com/2019/11/bigne-rosa.html

mescolate le uova e lo zucchero, quindi unite la farina (o fecola) e il sale; intanto, fate riscaldare il latte con la vaniglia e quando è giunto a ebollizione, lasciatelo raffreddare un poco, quindi unitelo al composto delle uova. Aggiungete l'Alkermes e, infine, ponete sul fuoco per pochi minuti, sempre mescolando, finché non si addensa all'improvviso. Allora spegnete. 

A questo punto, preparate la bagna diluendo l'Alkermes in una ciotola d'acqua, cui avrete aggiunto un cucchiaio di zucchero e mescolate per bene, perché il tutto si sciolga. 
Infine, è la volta della mousse di cioccolato: lasciate sciogliere insieme cioccolato e burro in un pentolino a bagnomaria e, quando avrete lasciato raffreddare, unite al tuorlo d'uovo opportunamente mescolato allo zucchero. Il latte serve solo a diluire, eventualmente, il composto del burro e del cioccolato se s'indurisse un po'. Infine, unite al composto l'albume montato a neve e lasciate in frigorifero. 


Viene ora il momento di assemblare il dolce. Sul piatto di portata, deponete un disco di pasta bresciana e irroratelo con la bagna, quindi spalmate una parte della crema rosa; aggiungete il disco di Pan di Spagna, sempre irrorato con lo sciroppo d'Alkermes, infine spalmate su di esso la crema restante, infine sovrapponete il secondo disco di pasta bresciana, sempre bagnato con lo sciroppo. Coprite con la mousse di cioccolato e lasciate in frigorifero per una notte, per dare tempo al tutto di imbeversi ben bene. Il risultato è prodigioso! 

mercoledì 4 dicembre 2019

La monaca di Monza e la sua storia



La monaca di Monza e la sua storia

Non tutti sanno che Manzoni si è sbagliato a collocare la monaca di Monza nel 1628: la vicenda, infatti, narrata da Giuseppe Ripamonti nella sua Storia patria (senza data, per non offendere la famiglia) è anteriore di una ventina d'anni o poco più; e pensare che Manzoni ebbe, prima del 1840, la possibilità di consultare il faldone originale del processo, concessogli dall'allora arcivescovo di Milano Carlo Gaetano Gaysruick. Quegli atti furono poi secretati dalla curia e messi a disposizione degli studiosi, pensate, solo dall'arcivescovo G.B.Montini nel 1957: il futuro papa Paolo VI. Del resto, la splendida ricostruzione della vicenda nei capp.9 e 10 dei Promessi sposi, risente della moda del romanzo "gotico", cioè nero, di fine Settecento: moda che aveva dato la vita, ad es., alla Monaca di Diderot (1780). E pensate che, sull'onda del successo dei Promessi sposi, nel 1829 il toscano Giovanni Rosini pubblicò un suo romanzo, intitolato La monaca di Monza; per scriverlo, chiese ripetutamente consiglio a...Giacomo Leopardi, che all'epoca era in Toscana e che, quindi, se lo ritrovava perennemente tra i piedi. 


Ma chi era veramente la monaca di Monza? 
Virginia de Leyva, al secolo Marianna (1575-1650), proveniva da una famiglia dell'alta nobiltà spagnola; suo padre, don Martino de Leyva, che aveva combattuto a Lepanto, rimasto vedovo dopo la morte per peste della madre di Marianna, Virginia Maria Marino, si risposò in Spagna e, come succede purtroppo non solo nelle fiabe, dimenticò la figlia primogenita, "sbolognata" ad una zia rigida e, pare, bigotta. A differenza di quanto racconta Manzoni, Marianna non fu mandata in convento perché era la minore e perché così si doveva salvaguardare l'eredità del primogenito, al contrario: il  padre destinò l'eredità (anche della madre di Virginia!) ai figli di secondo letto (tre maschi e una femmina) e la ragazza si ritrovò scalzata a un livello di serie B, per cui fu destinata al monastero quando aveva solo 16 anni. Ricordiamo questo dettaglio della giovanissima età in cui entrò in religione. 


Una volta in convento, il monastero delle Umiliate Benedettine di Santa Margherita di Monza, Marianna assunse da religiosa il nome della madre, riflesso di una cocente nostalgia per una grande tenerezza perduta: era infatti rimasta orfana di madre quando aveva solo un anno, nel 1576. La ragazza si ritrovò però a far parte di quella generazione di monache che stavano subendo sulla propria pelle la stretta della clausura dopo il Concilio di Trento. Il Concilio aveva sancito infatti che la clausura dovesse tornare ad essere stretta, a fronte di decenni - se non secoli - in cui era stata applicata in forma molto più blanda, date anche le numerose monacazioni forzate. Quando le monache si ritrovarono chiuse in convento a forza, non mancarono numerosi suicidi. Questo era, del resto, un argomento di diatriba continua tra Venezia e la curia romana: a Venezia c'era una concezione insolitamente larga e accondiscendente della clausura, dato che le figlie di parecchi patrizi veneziani, che non intendevano spendere per dotarle, venivano "schiaffate" in convento, ma ciò presupponeva che venissero trattate in modo più accomodante; Roma, invece, esigeva vocazioni genuine e la clausura stretta. Suor Virginia che - pare - era molto bella, non tardò a innamorarsi del famoso "Egidio", nella realtà, Giampaolo Osio, scapestrato rampollo di una famiglia aristocratica della zona e che abitava accanto al monastero. 


Suor Virginia, che era maestra delle educande, si rese conto che l’Osio ne insidiava qualcuna, reato passibile di una grave punizione; peggio, l'Osio uccise per rappresaglia l'amministratore di cui suor Virginia si serviva per amministrare Monza, G.Molteni. La suora avrebbe allora fatto arrestare l'Osio se non fosse intervenuta - in modo molto discutibile - per conto della famiglia Osio la stessa madre superiora, che le impose di revocare l'ordine per obbedienza: e suor Virginia dovette obbedire. Alla fine suor Virginia accondiscese a incontrare Giampaolo (siamo nel giugno 1598), il quale voleva ringraziarla. Secondo la confessione scritta successiva, la monaca si vide recapitare da quel momento in poi doni e, secondo lei, oggetti che convogliavano un maleficio, con la connivenza di un prete locale, don Paolo Arrigone; così, in settembre lei accondiscese a incontrare l'Osio una notte con la complicità di suor Benedetta Homati e suor Ottavia Ricci. La religiosa riferì in seguito di essere stata violentata, cosa, a mio avviso, del tutto possibile; di sicuro, suor Virginia divenne succube di Giampaolo Osio e nella loro relazione la violenza rivestiva un posto notevole. Come stupirsene se di violenza era stata intessuta tutta la vita familiare della monaca?


Cominciò così una tresca protrattasi per 9 anni, durante i quali o Giampaolo entrava in convento di nascosto travestito da suora (!), oppure suor Virginia si recava nella casa vicina. 
Dalla relazione nacque una bambina, Alma Francesca Margherita, e anche un altro figlio, morto sul nascere; la bambina fu poi allevata dai parenti dell’Osio. Suor Virginia, del resto, era continua vittima dei rimorsi; la religiosità era allora più punitiva di oggi, meno misericordiosa, la predicazione molto incline a insistere sulla morte e i novissimi (cioè le realtà ultime), specie il giudizio e l’inferno; perciò, per una suora come lei non priva di una sua religiosità, la relazione con Osio deve essere stata intessuta di numerosi conflitti interiori e sensi di colpa acutissimi. Prova ne è che la monaca scaraventava regolarmente nel pozzo del monastero il doppio delle chiavi approntate per Giampaolo appositamente da un fabbro compiacente. Le chiavi si accumularono poco per volta in fondo al pozzo – ma la relazione non finiva. La svolta fu, però, come indica del resto il Manzoni, l’omicidio.


Nel 1606, una conversa - cioè una suora che non aveva la preparazione necessaria per essere corista, per cantare l’ufficio in coro, di solito adibita ai servizi nel convento e, in quel caso, al servizio della monaca - una tal Caterina di Meda, durante una lite con suor Virginia minacciò di rivelare tutto al monsignore che sarebbe stato inviato dalla curia in occasione del successivo capitolo delle suore, capitolo in cui si doveva eleggere la superiora e durante il quale la monaca sperava di essere scelta: e l’Osio, evidentemente, la soppresse, alla presenza di altre 5 monache, colpendola con il piede di un arcolaio, quindi ne trasportò il cadavere in casa sua. Qui lo seppellì, salvo la testa che, una volta tagliata, egli gettò in un pozzo. Dettaglio riportato anche da Manzoni: fu aperta una breccia nel muro del convento per far credere che Caterina, poco incline alla vocazione religiosa, fosse scappata. 
Ma questo omicidio cominciò ad attirare un’attenzione negativa sul monastero, tanto che se ne resero “necessari” altri: quello dello sventurato fabbro, Cesare Ferrari, che forgiava continuamente i doppi delle chiavi, nonché quello del farmacista, Rainierio Roncino, che aveva servito alla monaca ripetutamente degl’intrugli abortivi. Lo speziale fu ucciso al secondo tentativo: ma la tresca e le sue nefaste conseguenze erano diventate ormai palesi. Perciò, mentre lo Stato di Milano se ne interessava e arrestava Osio una prima volta, cominciò a indagare anche l'autorità religiosa.


Il 25 novembre 1607 la monaca fu arrestata dal vicario criminale della curia e trasferita a forza nel monastero delle Benedettine di S.Ulderico a Milano: suor Virginia, ormai fuori di sé, accolse il superiore letteralmente a spada sguainata. L’Osio, che era riparato in convento, si diede allora alla fuga con suor Benedetta e suor Ottavia – detto per inciso, non è che lui si fermasse alla monaca di Monza, anzi; coinvolgeva nelle sue tresche anche queste altre suore. Mal gliene incolse, dato che suor Benedetta fu gettata da Osio nel pozzo – il pozzo è l'altro grande protagonista di questa storia -, mentre suor Ottavia, evidentemente in assenza di pozzi, fu percossa col calcio dell'archibugio e gettata nel fiume Lambro. Si salvò però fingendosi morta, e sopravvisse giusto il tempo di rendere testimonianza di quanto successo, morendo il successivo 26 dicembre; suor Benedetta fu ritrovata invece due giorni dopo viva (sempre nel pozzo, che, per inciso, era quello dove era stato gettato anche il capo di Caterina, a Velate). Negli stessi giorni fu infine arrestato il disgustoso don Pietro Arrigone, che aveva approfittato della situazione per condurre una sua tresca personale con un'altra monaca. Le indagini proseguirono a stento: sempre fuori di sé, suor Virginia tentò più volte il suicidio mentre era reclusa, mentre il senato di Milano fece confiscare i beni della famiglia Osio per far uscire Giampaolo dall'ombra: questi, difatti, fu condannato all'impiccagione e alla confisca di tutti i i suoi beni il 25 febbraio 1608. La sua casa venne rasa al suolo e, al suo posto, eretta una "colonna infame" a futura memoria, né più né meno come quella che seguì i processi agli untori e di cui Manzoni ha tracciato la storia nella Storia della colonna infame. Osio, attirato con la promessa dell'asilo in una trappola nella casa di un amico, il conte Lodovico Taverna, fu infine ucciso a bastonate nel 1609 (dopo che aveva confessato i suoi peccati, precauzione notevole).


La sentenza di suor Virginia e delle altre monache avvenne solo dopo quella di Osio, il 17 ottobre 1608; prima furono torturate col sistema dei "sibilli" (schiacciamento delle dita, la tortura riservata alle donne) allo scopo che confermassero la loro confessione; poi tutte condannate alla reclusione perpetua, suor Virginia nel convento delle Convertite di santa Valeria a Milano, un istituto per le prostitute pentite, sito vicino a S.Ambrogio. Fu però graziata 13 anni dopo, nel 1622, 13 anni che aveva passato in una cella di 1,80 x 3 (esattamente come le celle del braccio della morte odierno negli USA): fu graziata perché il cardinale Federico Borromeo si era convinto del suo pentimento. E credo che questo fosse sincero: il cardinale le affidò infatti il compito di assistere per lettera delle consorelle in crisi. 


In effetti, negli anni '60, il professor M.Marchesan, geniale fondatore della psicologia della scrittura - una vera e propria scienza della scrittura, impiegata per formare i super-periti, riconosciuti nei tribunali di mezzo mondo - operò un'analisi approfondita della grafia della "Signora" mediante suoi scritti distribuiti su di un ampio arco di tempo. Dall'analisi emerse che suor Virginia sarebbe stata "una buona madre di famiglia", non certo una suora, e un suo fondamentale equilibrio, vanificato però durante la tresca con l'Osio. Quanto alla sua responsabilità penale, ella si sentiva vittima di una forte ingiustizia, provava una forte attrazione per la vita sessuale ed era molto sensibile all'argomento della sua bellezza sacrificata - si noti la straordinaria coincidenza delle pagine di Manzoni con questi tratti -; in generale, lei avrebbe avuto diritto a varie attenuanti, considerato soprattutto che si trovava in uno stato di coazione continua. Al termine della segregazione ella mostrava segni di agitazione dovuta alla repressione. Soprattutto, Marianna avrebbe avuto bisogno di libertà, per espandersi armoniosamente nell'ambiente a sua disposizione, specie a livello affettivo ed artistico. Compromessa questa libertà, la sua etica andò a rotoli. E qui, vale la pena di ricordare che la monacazione forzata risaliva all'epoca in cui aveva solo 16 anni. Le è stata rovinata la vita. 


Tutto ciò permette di inquadrare meglio la problematica della mancanza di rispetto, il nocciolo della manipolazione relazionale attraverso le cui lenti ho provato più volte, sul blog ed a scuola, a considerare la storia della monaca di Monza. Tutta la sua vita è stata attraversata dalla mancanza di ascolto e rispetto: da quando le davano le bambole vestite da monaca per operarle una sorta di lavaggio del cervello, a tutta la sua educazione, a quando la rinchiusero nel mese di prova in cui avrebbe dovuto gustare il mondo prima di prendere definitivamente il velo, dalle moine con cui la trattarono a quando cedette alla monacazione, fino alla relazione con Osio - Egidio - che non è stata una bella storia d'amore, ma qualcosa di molto simile alle relazioni patologiche di cui sono vittime troppe donne oggi (con tanto di femminicidio finale). Gertrude - suor Virginia non ha mai avuto il diritto di esistere per quel che era, come dimostra l'analisi della sua grafia; non stupisce che sia stato così anche con quello che diceva di amarla, o che lei si sentisse vittima di un maleficio. Persino Manzoni la ritiene parzialmente responsabile, perché, osserva, lei avrebbe potuto essere, se avesse contato sulla fede, una monaca contenta. Ma lei si agitava sotto il giogo, il che peggiorò la sua situazione. Per certi versi è vero: ciò corrisponde al senso di ingiustizia rilevato in lei dal prof.Marchesan; senza contare che il suo amor proprio, sostiene lo scrittore, la induceva a una sorta di complicità sotterranea coi suoi aguzzini, che solleticavano il suo orgoglio, e Marchesan ha rilevato spinte narcisistiche nella sua grafia. Manzoni però, un po' troppo giansenista, dimentica le circostanze attenuanti: l'effetto destabilizzatore della violenza sulla sua psiche e il fatto che lei avesse, al momento di farsi suora, solo 16 anni. Credo che si sia trovata al centro di una spirale e che nessuno, ma proprio nessuno, le abbia teso una mano affettuosa, almeno fino alla grazia del cardinal Borromeo: anche quella giunta dopo una lunga, draconiana, forse eccessiva, punizione. 


Curiosità: esistono delle somiglianze tra la vicenda di suor Virginia de Leyva e quella della quasi coetanea suor Lucrezia Buonvisi, di Lucca, città che Manzoni del resto, così come suo nonno, Cesare Beccaria, conosceva bene. Tra l'altro, questa Lucrezia aveva forti legami con Ferrara: la sua famiglia era addirittura in corrispondenza con Torquato Tasso, che sovveniva! Si noti però che lei si fece suora per sfuggire alla cattura dopo che era stata complice dell'omicidio del marito.
Per la sua storia rinvio al bell'articolo di Elena Pierotti, Lucca e la sua "monaca di Monza": Lucrezia Buonvisi, al link: