lunedì 21 maggio 2018

"Crocifisso sul palo del telegrafo": Quasimodo e la violenza nel Novecento


"Crocifisso sul palo del telegrafo": Quasimodo e la violenza nel Novecento

Una delle poesie più note di Quasimodo, Alle fronde dei salici, recita:

E come potevamo noi cantare           
Con il piede straniero sopra il cuore,
Tra i morti abbandonati nelle piazze
Sull’erba dura di ghiaccio, al lamento          
D'agnello dei fanciulli, all'urlo nero
Della madre che andava incontro al figlio                            
Crocifisso sul palo del telegrafo?                              
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,            
oscillavano lievi al triste vento.         



Questa poesia molto nota e tratta dalla raccolta Giorno dopo giorno, pubblicata nel 1947, è un valido esempio della poesia del secondo Quasimodo, quella che gli ha probabilmente attirato maggiori consensi e spianato la via al Nobel del 1958: al primitivo ermetismo, più arduo e che attinge a temi assoluti, mitici, il poeta unisce la riflessione sulla contemporaneità e sulla società del Dopoguerra. Qui però medita sulle devastazioni prodotte dall'invasione tedesca della Seconda Guerra Mondiale: e la lirica di Quasimodo densa di immagini, ma di immagini che risultano, in fin dei conti, semplici e senza tempo, evoca il dominio sprezzante del nemico (la metonimia con il piede straniero sopra il cuore) e le vittime delle sue atrocità in vario modo: i morti abbandonati nelle piazze, poi la metafora dell'agnello che si lamenta prima di essere condotto al macello ed è termine di paragone per i bambini, infine la forte sinestesia l'urlo nero /della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo. Quasimodo usa volutamente il vocabolo "crocifisso" per rimandare al motivo della crocifissione di Cristo; del resto, anche l'immagine dell'agnello rinvia a Lui (si legga la profezia di Isaia 53, 7, come un agnello condotto al macello... applicata a Lui; qui sotto la splendida resa nell'Agnus Dei di Francisco de Zurbaran, 1635-40).



Il filo unificante della poesia è costituito da un "pre-testo", cioè un testo che serve da modello e riferimento: il salmo 137, ovvero "salmo dell'esiliato" (qui vv. 1-4):

Sui fiumi di Babilonia,
là sedevamo piangendo 
al ricordo di Sion. 
Ai salici di quella terra
appendemmo le nostre cetre. 
Là ci chiedevano parole di canto
coloro che ci avevano deportato,
canzoni i nostri oppressori: 
"Cantateci i canti di Sion!"
Come cantare i canti del Signore
in terra straniera?

Gli Ebrei portati in esilio a Babilonia dopo la sconfitta del 586 a.C. non possono più intonare i canti del Tempio distrutto di Gerusalemme e vengono scherniti dai loro carcerieri, che domandano loro proprio quei canti; così essi appendono ai salici (si noti, piangenti) le loro cetre, strumento tipico di accompagnamento del culto interrotto. Nella lirica di Quasimodo, la cetra rappresenta la poesia, muta davanti alle atrocità della guerra; e l'ultima, bellissima immagine dei versi è proprio quella delle cetre che dondolano tristemente al vento, un vento "triste" (ipallage). Quasimodo era molto sensibile al tema dell'esilio: qui è come se ritraesse la sua terra, l'Italia, in esilio da se stessa a causa di una crudele invasione. Che l'autore sia stato affascinato proprio dal "canto biblico dell'esiliato" è sintomatico. 

Qui vorrei soffermarmi soprattutto sull'immagine, molto densa, del "figlio crocifisso sul palo del telegrafo", triste spettacolo di troppi massacri novecenteschi. Essa porta a compimento una specie di climax di immagini di morte. Il primo parallelo che mi viene in mente è un particolare di Guernica di Picasso, la celebre tela a olio in bianco e nero che rievoca la Guerra Civile spagnola e il terrificante bombardamento della Luftwaffe sull'omonima cittadina basca del 26 aprile 1937: un quadro volutamente brutto, per rappresentare le brutture del conflitto. Mi riferisco qui alla madre che regge il figlio bambino tra le braccia e si dispera, una versione cubista del motivo tradizionale della Pietà o della Madonna col Bambino.



Come nella lirica di Quasimodo, il riferimento al Cristo è implicito: Lui è la vittima per eccellenza a cui tutte le vittime innocenti sono assimilate. Lo stesso avviene in un altro celeberrimo quadro, anch'esso denuncia di una guerra insana, quella napoleonica d'invasione della Spagna del 1808: 3 maggio 1808 di Francisco Goya. Il quadro rappresenta, assieme al 2 maggio 1808,  la resistenza madrilena contro i Francesi e le successive fucilazioni: sullo sfondo di una Madrid buia, un nucleo di fucilieri senza volto, si direbbe senz'anima, punta il fucile contro un gruppo inerme di ribelli. Già alcuni cadaveri sono riversi nel sangue a sinistra, ma tutta l'attenzione è attirata dal'unico punto bianco del quadro, un uomo ritratto volutamente con le braccia alzate come un Crocifisso e rivestito di  una camicia bianca. Anch'egli è una vittima innocente che sta per morire. Il quadro fu realizzato nel 1814, dopo che le guerre napoleoniche erano ormai finite (salvo Waterloo).



Sempre Goya ha realizzato, con un anticipo strabiliante rispetto ai massacri del Novecento, una serie di stampe eseguite  nel 1820, I disastri della guerra, in cui dettagliava gli orrori dell'invasione napoleonica. Una, terrificante, assomiglia proprio all'immagine offerta da Quasimodo: 


Si noti il soldato francese che osserva l'impiccato, senza dar segni di sentimento alcuno, indifferente. 
Purtroppo, però, di "crocifissi sul palo del telegrafo" nel corso del Novecento ce ne sono stati tanti: proprio i telegrafi, simbolo di modernità, sono divenuti spesso, troppo spesso, delle sinistre forche (del resto, già all'epoca della Repubblica romana, gli schiavi insorti con Spartaco erano stati crocifissi lungo tutta la via Appia). Qui sotto una foto che rappresenta corpi di partigiani uccisi ed esposti in pubblico a Ravenna nel 1944 a opera dei nazi-fascisti. E si ricorderà come la scena si ribaltò quando vennero uccisi Mussolini e i suoi. Al di là delle intenzioni dei partigiani, i corpi del Duce, della Petacci e di altri furono appesi alle filanie di Piazzale Loreto ed esposti al pubblico ludibrio come già era successo a tanti prima di loro.



Sotto invece una tristissima immagine del Viale dei Martiri di Bassano del Grappa, dove, il 26 settembre 1944 furono esposti i corpi di 31 giovani della Resistenza trucidati dai Tedeschi. Al ritorno da Berlino, alcuni dei miei allievi di 5O, tra cui Sofia, mi hanno mostrato delle foto analoghe di partecipanti della Resistenza ucraina impiccati ai pali del telegrafo al passaggio della Wehrmacht. 



Ma non è tutto. La pessima abitudine di appendere i giustiziati ai pali del telegrafo come monito atroce per la popolazione si era già diffusa nel Messico devastato dalla guerra cristera, la rivolta scoppiata nel 1926 e terminata nel 1929, dopo che una legislazione violentemente anti-cattolica era stata imposta dall'élite governativa liberale al paese fin dal 1917, poi applicata con la forza nel 1926. Si noti che i fedeli messicani reagirono dapprincipio con la non violenza e solo dopo numerose vessazioni alcuni si diedero alla macchia ed alla resistenza armata. In una scena del bel film Cristiada, del 2012, che ripercorre le vicende della rivolta, un rappresentante della conferenza episcopale del Messico sta cercando di trattare su di un treno con l'ambasciatore americano (che rendeva possibile il rifornimento di armi al governo), per giungere al termine del conflitto. A un certo punto, il treno ha un sobbalzo e si ferma: dal finestrino è visibile una scena identica a quella fotografata qua sotto. Numerosissimi sacerdoti e laici fecero questa fine semplicemente perché erano cattolici. Si calcola che la guerra provocò tra i 70.000 e gli 85.000 morti: morti di cui nessuno parla mai...


Dato che ci sono inserisco qui il link del trailer del film, che annovera tra i suoi protagonisti Andy Garcia, Peter O'Toole ed Eva Longoria. 

giovedì 3 maggio 2018

Un giardino alla rovescia: "Meriggiare pallido e assorto" di E.Montale



Un giardino alla rovescia: "Meriggiare pallido e assorto" di E.Montale

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche. 



Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.



La poesia più nota, forse, del Novecento italiano, è stata tra le prime redatte da Montale: nel 1916, prima di partire per il fronte, il poeta aveva solo vent'anni e compose questa lirica, poi inserita negli Ossi di seppia. Come si sa, la prima raccolta di Montale, pubblicata nel 1925, immerge la lirica nel paesaggio salmastro e scosceso delle Cinque Terre, dove lui passava le estati al mare con la famiglia; proprio quel paesaggio diventa un repertorio di immagini per rappresentare la vita e la sua asprezza.
Qui, gli elementi del paesaggio diventano cifra dell'ardua condizione esistenziale dell'essere umano; e Montale non cessa, per tutta la vita di interrogarsi su questioni di carattere filosofico, esistenziale, spirituale. Nel corso degli anni egli definisce se stesso "nestoriano smarrito": lo smarrimento si coniuga alla definizione dell'eresia che separava eccessivamente l'umanità dalla divinità di Cristo. Un po' come gli antichi epicurei, Montale ritiene che gli dei, se anche esistono, si disinteressano dell'uomo. Questa lirica diventa allora una metafora della vita.


La poesia di Montale è filosofica. Si pone alcune questioni fondamentali: conoscere la verità e il senso della vita. Montale è una specie di scettico e, talora, amareggiato Ponzio Pilato che chiede al Cristo: "Che cos'è la verità?". Protagonista della crisi del Novecento, grande lettore della filosofia antica, moderna e contemporanea, soprattutto di Schopenauer, ma anche di Leopardi, l'autore dubita che si possa arrivare mai da un lato alla verità, dall'altro al senso della vita; e questo rappresenta instancabilmente nelle sue poesie. In Schopenauer trovava l'idea che i fenomeni sono illusione, coperti come sono dal "velo di Maya" (Il mondo come volontà e rappresentazione, 1818), mentre l'uomo è abitato da un'insaziabile, irrazionale volontà che anima la sua esistenza; in Leopardi, invece, egli rinveniva l'idea della "natura matrigna" (quasi un controcanto alle Myricae di Pascoli, ha osservato A.Marchese).


Ma Montale, che si potrebbe definire, in senso lato, "esistenzialista" (non come appartenente all'omonimo movimento filosofico, ma in quanto interessato al dibattito sull'esistenza), conosceva e amava anche altri autori intrisi di anti-intellettualismo e di una paradossale consapevolezza dei limiti della ragione: Pascal, il russo Sestov, Kierkegaard, Doestoevskij. Si era avvicinato alla tormentata riflessione religiosa modernista, grazie alla sorella Marianna (che gli faceva da chioccia e condivideva con lui molte letture) e a sacerdoti barnabiti da cui lei si faceva consigliare, come padre Trinchero. Tra l'altro, Montale si sentiva un "inetto", inadeguato alla vita pratica quotidiana (quasi una trasposizione del motivo sveviano): assediato dalla malinconia, ironico, consapevole dei suoi limiti, l'autore si è in seguito descritto come in "totale disarmonia con la realtà" (cfr. Il secondo mestiere. Arte, musica e società, raccolta dei suoi interventi sul Corriere della sera). Proprio per questo motivo, da giovane fu attratto dalla lettura del diario di un autore molto vicino a questa sensibilità da "inetto", i Fragments d’un journal intime di Henri-Frédéric Amiel (1821-81).


Il giovane poeta ha respirato vari influssi letterari coevi: dalla triade Pascoli, D'Annunzio (quello del Poema paradisiaco), Gozzano, dedita a una poesia sintatticamente più semplice e prosastica, al frammentismo vociano, da Sbarbaro, altro ligure (Pianissimo), ai geni simbolisti Baudelaire e Rimbaud, che lui adorava; addirittura, del simbolismo egli recepisce la commistione artistica e il gusto per la sinestesia, tanto che, colpito da Debussy, sogna di fondere poesia, colori e musica.
In seguito, l'autore, per definire  meglio la sua poetica, ha parlato di "correlativo oggettivo", alla maniera di Thomas Eliot nella Waste Land. Il correlativo oggettivo è semplicemente un oggetto che, evocato in poesia, suscita emozioni nel lettore come le ha suscitate nel poeta. Non è propriamente un simbolo: i simboli sono forme che rinviano a una molteplicità di contenuti e traslati. Non è neanche del tutto un'allegoria: l'allegoria è una forma che rinvia a un contenuto traslato preciso. Metafore e similitudini, invece, sono procedimenti retorici che mettono in comunicazione insiemi semantici, di significati, diversi (ad es., "i capelli d'oro" connette l'insieme dei metalli preziosi con quello del corpo umano"), arricchendo così il discorso. 


Ma qui è diverso. Gli oggetti sono veri, reali: essi evocano però sensazioni del soggetto. Giustamente, la poesia di Montale è stata collegata all'arte metafisica di De Chirico: precisa, netta, essa delinea oggetti e luoghi di tutti i giorni, come piazze e monumenti; ma li sospende in un'atmosfera al di fuori del tempo e quei luoghi od oggetti assumono una valenza che va al di là di loro stessi. Sono "metafisici" appunto. Anche gli oggetti di Montale evocano sensazioni al di là  di loro stessi.Solo, sono oggetti molto comuni, che di solito non appartengono al pantheon delle metafore poetiche consacrate dalla tradizione. Oppure sì? Inoltre, proprio perché provengono dalla soggettività del poeta, non dalla tradizione, trasmettono collegamenti e sensazioni unici. Eppure, stranamente, sulla pagina di Montale assumono un valore senza tempo.


In questa poesia, l'io lirico delinea una sua passeggiata nella natura ligure: lo stile è ellittico, senza verbi reggenti, e la poesia consiste di un cumulo di infiniti che, accostati gli uni agli altri descrivono le azioni di lui o della natura. Così, sembra che tutto sia sospeso fuori dal tempo, proprio in una dimensione metafisica. E' un pomeriggio assolato, vicino a un muro arroventato (che ritorna, non a caso, ad anello alla fine); la natura si riassume nel verso dei merli e nel fruscio dei serpenti, in radi cespugli e sterpi. A mio modesto avviso, i pruni e sterpi del v. 3 non sono privi di echi del XIII dell'Inferno dantesco, in cui l'orrida flora della selva dei suicidi è costituita proprio da pruni e sterpi; anche le serpi appaiono sinistre. Del resto, si noterà che Montale impiega qui molte sonorità aspre, un po' come le stesse rime petrose di Dante, così tipiche dell'Inferno. Spesso (scricchi, schiocchi) si tratta di dure onomatopee. Insomma, il giardino che vuole descrivere il poeta è pieno di risonanze di morte, quasi infere.


In mezzo a questa natura desolata, inaridita, Montale (che molto conosceva sia di botanica, che di entomologia), contempla le file di minuscole formiche: così minute e impotenti, esse ricordano la piccolezza degli esseri umani, che si affannano ugualmente senza posa. E mentre, nella terza quartina, si leva il frinire delle cicale nel meriggio assolato, l'io lirico contempla in lontananza il mare, descritto splendidamente nel suo ondeggiare dalla metafora "scaglie di mare". Si ricordi che il mare, in Mediterraneo, poemetto in parti che appartiene agli Ossi, rappresenta la violenza della vita; e tutto questo paesaggio assetato rinvia a una condizione esistenziale difficile, assetata anch'essa. L'ultimo correlativo oggettivo è proprio il muro: come tanti muri di proprietà liguri, esso è incoronato da cocci di vetro con funzione deterrente: quel muro rappresenta l'impossibilità di trovare il famoso "varco", la via verso la verità e il senso della vita e del suo travaglio (si noti la lunga serie di assonanze in gl dell'ultima strofa, di 5 versi).


I correlativi oggettivi qui impiegati sembrano inusuali: e certo il panorama ligure era inusuale nella poesia italiana, a parte forse il precedente di Camillo Sbarbaro. Eppure, questo strano paesaggio, accecato dal sole e pieno di animali striscianti, sembra un locus amoenus alla rovescia. Non giardini, acque, fontane, erba, fiori: ma un'immagine desolata, di sterpi, biscie, terra inaridita, formiche e il mare, minaccioso, ma evocatore, lontano. E qui vale la pena ricordare ancora Leopardi.
Nel 1826, mentre era a Bologna (il 19 aprile), egli compose una pagina celeberrima dello Zibaldone, detta "Il giardino della sofferenza", in cui ribalta la tradizionale e idilliaca immagine del locus amoenus.

Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare....

La natura è ormai completamente matrigna. Nel mondo non esiste armonia: esiste solo il dolore e il male, universale.