giovedì 30 maggio 2019

"Ritorno" a Venezia di Mario Luzi



"Ritorno" a Venezia di Mario Luzi

Mario Luzi, morto nel 2005 e la cui poesia ha attraversato quasi tutto il Novecento, è un poeta per certi versi amato e popolare (tanto che venne insignito del ruolo di senatore a vita poco prima di morire pressoché a furor di popolo), per altri invece poco letto, perché ritenuto "difficile". Era invece rinomato perché spesso interveniva nel dibattito civile e culturale con passione e genuino amore per la pace ed anche perché spesso fu chiamato a mettere la sua poesia al servizio della collettività: per esempio, nel 1999 papa Giovanni Paolo II lo volle come autore delle meditazioni della Via Crucis al Colosseo in occasione del Venerdì Santo. Tuttavia, i suoi versi ermetici, in linea con la poetica caratteristica degli anni '30, spaventano più di un lettore; eppure, alcune sue poesie sono autenticamente splendide, come quella che propongo qui e che si ispira a un viaggio di ritorno a Venezia nel Secondo Dopoguerra. La raccolta cui appartiene è Un brindisi, pubblicata nel 1947 e ancora legata al primo periodo ermetico dell'autore.


Ritorno (da Un brindisi)

Chi coglie le uve funebri
Ed il fuoco dei pampini ai giardini
Di Giudecca là sull'acqua nebbiosa
Dove affondano i tralci?
Sotto più grave cielo ritorniamo
Non diversi da allora
A guardare fra i grappoli le statue
E le navi nel nord illuminato
Vaghe per la laguna;
Ed ancora per quanto sia passato
Un secolo di noia, con vermiglia  
Voce ascoltiamo stridere gli uccelli
Da verande di rose
E ancora per la strada conosciuta
ci volgiamo incerti a guardare le aiuole
immobili e riflessi nei canali
i giardini d'amore vietati dal tempo. 



Il poeta aveva visitato Venezia prima della guerra e vi ritornò nel 1947: una foto lo immortala assieme ad altri intellettuali coevi sullo sfondo degli edifici della Laguna. Credo che nessuna poesia abbia mai rappresentato in modo così efficace l'atmosfera sospesa, malinconica di questa città unica al mondo, con tutta la sua dolcezza intrisa di rimpianto. I primi versi racchiudono una domanda retorica, che è destinata però a rimanere suggestivamente priva di risposta: siamo in autunno, probabilmente in settembre, e il poeta si chiede chi potrà raccogliere le uve del giardino che ammira, tra i pampini rosso fuoco nelle oasi di verde prospicienti il canale della Giudecca. "Ai giardini" è un modulo espressivo tipicamente ermetico, dato che i poeti ermetici (ad esempio Quasimodo) abbondano di complementi inizianti con la preposizione "a". Le "uve funebri" è un'enallage: cioè l'aggettivo "funebre" dovrebbe riguardare l'atmosfera della città, avvolta dalle nebbie, ma viene applicato, con uno spostamento, alle "uve". L'uva è così impregnata della stessa malinconica atmosfera nebbiosa che grava sulla città, tanto che i tralci paiono affondare nell'acqua. Il "fuoco" dei pampini (metonimia) brilla in mezzo al grigio "funebre" della Laguna settembrina.


Il poeta prosegue ricordando che lui e i suoi amici (sottintesi) sono ritornati dopo molto tempo, senza essere cambiati; ma questa identità col passato viene stranamente espressa da una litote "non diversi da allora", il che, a dire il vero, pare insinuare il contrario. Si ricordi che Luzi amava evocare il suo grupo di amici artisti ed intellettuali, con moduli che ricordano lo Stilnovo. Eppure loro sono tornati "sotto grave cielo": sono trascorsi anni, c'è stata la guerra, tutto appare più arduo, difficile di prima. Anche ora continuano a contemplare i "grappoli" e fra di essi le "statue": chissà  perché, questi versi evocano in me Palazzo Venier dei Leoni, il palazzo "mai finio", come dicono i Veneziani, sede della collezione Peggy Guggenheim e, appunto, incompiuto, ma dotato di un giardino entor cui sono disperse le statue della collezione. Il poeta contempla però anche le navi "vaghe per la laguna", un aggettivo che sottolinea con un'allitterazione in v l'evanescenza di queste imbarcazioni nella foschia e nella luce pallida della laguna. Ovviamente, le navi sono attraccate all'ancora: ma condividono quest'atmosfera sospesa ed evanescente, per cui appaiono "vaghe". 


E' passato "un secolo di noia": tutto il tempo trascorso (paragonato a un secolo, con un'iperbole) è stato contrassegnato dalla noia: viene in mente Leopardi, secondo il quale la vita umana alterna al dolore la noia nei momenti privi di esso; eppure, il senso del vuoto, del rimpianto, della nostalgia e dell'incompiutezza sono frequenti nelle poesie di Luzi. Pare anzi che egli sappia declinare l'amore solo come senso di perdita, di nostalgia, di assenza. E qui, infatti, lo scenario vuoto dei giardini popolati di viti nella foschia, tra pampini fiammeggianti, grappoli e statue, pare evocare proprio un'assenza d'amore, o comunque un vuoto esistenziale. Ricordiamo che la poesia ermetica di Luzi è poesia sommamente esistenziale, come quella di Montale; e la poesia esistenziale ricerca solo due scopi: la verità e il senso della vita, che solo dà accesso alla felicità. Tutto ciò non è di quaggiù, dove ci immergiamo nella noia e nel grigio (che trapela visibilmente dai versi, anche se questo colore non viene mai citato). 



Tutto è immobile, ghermito dalla noia, eppure l'io lirico e i suoi amici ascoltano ancora lo stridio degli uccelli, sicuramente dei gabbiani, dalla "vermiglia voce", una magnifica sinestesia che evoca la vita, come il "fuoco" dei pampini: ed essi paiono levarsi da sublimi "verande di rose". E ancora, i protagonisti si volgono per cercare altri fiori, "aiuole / immobili" (si noti l'enjambement che sottolinea il sostantivo e l'aggettivo staccandoli) e infine, gli splendidi "giardini d'amore vietati dal tempo". Dicevo ai miei ragazzi che solo per questo verso Luzi avrebbe meritato il Nobel che gli hanno mai dato: i giardini d'amore evocano lo splendore della vita, della bellezza, dell'amore, inesorabilmente perduti. Tutto appare immutato e, al tempo stesso, ricorda l'effimero della nostra esistenza, l'inesorabile trascorrere del tempo: poche città convogliano questa sensazione profonda e contraddittoria come Venezia. In questa lirica torna così, grazie ad alcune splendide immagini di una Venezia immobile nel tempo, il binomio movimento - immobilità, il fluire della vita, tema caro a Luzi; ma anche il "volgersi" è ricco di significato. 



Agli amanti di Montale ricorderà l'uso dell'analogo verbo in Forse un mattino andando in un'aria di vetro, in cui il poeta si "volge" per carpire un attimo di verità nell'assurdo esistenziale; a me questo verbo ricorda però sempre Orfeo ed Euridice e la loro multiforme vicenda attraverso la letteratura europea. Solo gli amanti si voltano a guardare chi hanno lasciato, diceva anche Svevo nel suo La coscienza di Zeno: e, aggiungo, si volgono perché lasciano indietro il cuore. Qui il volgersi è spontaneo, un naturale ricercare la bellezza e l'amore passati, così come Orfeo si volgeva a cercare Euridice, carpita dalla morte. 
In effetti, Luzi conosce molto bene questo senso di perdita ed assenza, spesso associato alla giovinezza e che gli deriva però anche da un evento tragico vissuto da lui agl'inizi degli anni '40: la cognata Renata Monaci, infatti, sorella della moglie Elena, si suicidò allora giovanissima. Perciò Luzi ricorda spesso la morte di fanciulle: e la sua traduzione più celebre e splendida dal francese è ispirata proprio a questo motivo. Si tratta di una lirica del raffinatissimo poeta cinquecentesco della Pléiade Pierre de Ronsard. Questa traduzione venne premessa alla Barca, la prima raccolta di Luzi, dopo la prima edizione del 1935. E' talmente bella che me ne servo per la chiusura. 



Copia da Ronsard (Nella morte di Marie)
Come quando di maggio sopra il ramo la rosa
Nella sua bella età, nel suo primo splendore,
ingelosisce i cieli del suo vivo colore
se l’alba dei suoi pianti con l’oriente la sposa,

nei suoi petali grazia ed Amor si riposa
cospargendo i giardini e gli alberi d’odore;
ma affranta dalla pioggia o da eccessivo ardore
languendo si ripiega, fogli a foglia corrosa.

Così nella tua prima giovanile freschezza,
terra e cielo esultando di quella tua bellezza,
la Parca ti recise, cenere ti depose.

Fa’ che queste mie lacrime, questo pianto ti onori,
questo vaso di latte, questa cesta di fiori;
e il tuo corpo non sia, vivo o morto, che rose.


mercoledì 15 maggio 2019

La 4M e la 4N...nel "gran Milano"! 3



La 4M e la 4N...nel "gran Milano"! 3

Forse si saranno chiesti i miei "25 lettori" (come diceva Manzoni) perché questa lunga interruzione nella narrazione epica sulla gita dello scorso marzo di 4M e 4N. Semplice: dopo la seconda puntata, mi è venuto il mal di gola. Chiederanno sempre i famosi 25 lettori: e cosa c'entra? C'entra, c'entra. Perché se avete una classe di 28 pupilli, che, dopo la pubblicazione della puntata, ne ESIGONO la lettura pubblica e con tanto di sfumature attoriali, alla io Stanislavskij, la vostra laringe rattrappisce al solo pensiero. Mi hanno diagnosticato, alcune settimane fa, una laringo-tracheite: una brutta roba, vi riduce afoni, ma è pur sempre meglio della "laringo-bronco-tracheite", una cosa mostruosa solo a pronunciarsi, che è capitata nel frattempo alla  mia collega e Omonima, l'altra Magri del Liceo, la docente di Storia dell'Arte. I primi giorni, ho dovuto ovviare a furia di video e stratagemmi vari: per esempio, in 4M mi sono avvalsa dell'"araldo" - Giandaniele, che ha smesso temporaneamente di raccogliere quel che di solito raccoglie, soldi per il museo, autorizzazioni, firme ecc. (lui dice che fa il cane da guardia dei suoi compagni), e si è piazzato accanto alla mia cattedra per darmi una mano.


Io, con un filo di voce: "Giandaniele, digli che stiano zitti, per favore".
E lui, a voce alta: "Ueh!, Ragazzi, state zitti, che la prof non riesce a parlare!".
Alla fine, ne sono uscita fuori, ma una certa raucedine mi è rimasta per un po'. E quindi, solo adesso posso riprendere. Eravamo rimasti al Museo della Scienza e della Tecnica. I ragazzi lo hanno girato in lungo e in largo, divertendosi nei vari padiglioni. Quello di astronomia e sulle imprese spaziali è qualcosa di mitico: tute spaziali, telescopi, modelli dei pianeti, oggetti stupefacenti. C'era uno schermo su cui ho provato a riprogrammare Marte come preferivo - ho provato a farlo a pois, ma non mi riusciva -, ma la scena più divertente l'ho vista al conto alla rovescia: una scolaresca di bambini tenerissimi di prima elementare, sotto la guida del loro maestro, contavano con entusiasmo davanti a un video, in attesa che il razzo partisse! Proprio come a Cape Canaveral.


Poco più in là, un'altra sezione molto ben equipaggiata era dedicata alle telecomunicazioni. Io e le mie colleghe abbiamo imparato a usare il telegrafo a lancette (c'è voluto un po'). La fila di telefoni d'epoca non finiva mai, ma abbiamo trovato anche dei modelli della nostra infanzia: per esempio, i vecchi telefoni grigi, di quando c'era la SIP. Beatrice cercava insistentemente la sezione sui gioielli, a ragione, perché quando l'abbiamo trovata, poco prima della fine del nostro giro, conteneva degli oggetti splendidi, in alabastro rosa, in avorio, gioielli antichi, reperti archeologici, manufatti davvero pregiati. Infine, va ricordato un modello di una sezione dell'acceleratore di particelle del CERN di Ginevra, un presagio di quello che probabilmente attende le quarte per la gita dell'anno prossimo.

Quando siamo usciti dal Museo, era in programma una breve visita alla basilica di Sant'Ambrogio. Questa era stata preparata accuratamente da Beatrice, che il giorno prima in pullmann aveva  passato un mucchio di tempo a studiare. Sant'Ambrogio, vero cuore della cristianità meneghina, è la basilica tardo-antica per eccellenza, anche se fortemente rimaneggiata in epoca romanica: il suo tipico, antico atrio a quadriportico serviva per alloggiare i catecumeni, come si faceva nella Chiesa dei primi secoli; magnifica la facciata romanica, a logge, mentre l'interno è pure tipicamente romanico, con la cripta, in cui si possono venerare i resti del Santo, e la magnifica copertura delle volte a costoloni ed eleganti motivi rosso mattone. La collega aveva lanciato anche un mini-concorso: chi avrebbe ritrovato il ritratto del Santo? Alla fine non lo ha trovato nessuno (neanche noi), anche perché ci è venuto il dubbio che fosse visibile nel Museo adiacente, ormai chiuso. Abbiamo fatto in tempo a visitare la basilica prima che chiudesse alle 12.30 e poi ci siamo diretti verso il centro, per fermarci in Via Torino e dividerci per mangiare.


Dopo mangiato, avevamo appuntamento alle 13.15 in  un angolo di Via Torino. La nostra destinazione successiva era il Planetario, che è posizionato nell'angolo esattamente opposto del centro di Milano, cioè vicino a Porta Venezia, quindi a NE - noi eravamo a SO. Dovevamo quindi attraversare tutto il centro a piedi - coi mezzi pubblici ci saremmo solo complicati la vita - e arrivare per le 14.00, dato che la lezione iniziava tassativamente alle 14.30, ma ci veniva richiesto di essere là a fare i biglietti almeno 15 minuti in anticipo. Io, conoscendo i miei polli e il mio pollaio e prevedendo che smuovere un gruppo di una cinquantina di persone non fosse tanto agevole, esigevo che arrivassimo prima delle 14.15, se possibile alle 14.00. Senonché...All'appuntamento delle 13.15 ci sono stati alcuni ritardatari, ma il caso più esasperante riguarda due di preciso: Matteo M. di 4N e, soprattutto, il nostro - 4M - Enrico. Ben 20 minuti di ritardo. Dato che non potevamo perdere tutto quel tempo, il gruppo è andato avanti, e io sono rimasta ad aspettarli ancora, in quanto né li trovavamo al telefono, né davano contezza di sé. Ma siccome io dovevo essere, al tempo stesso, a capo del gruppo, tutta la manovra ha avuto, come ovvia conseguenza, che, dopo aver aspettato inutilmente un'altra decina di minuti, mi sono dovuta fare buona parte di Via Torino a passo di jogging per raggiungere gli altri; a passo di jogging, senza fiato e solennemente infuriata.


Infatti, sia detto a imperitura memoria e perenne ignominia dei due sopracitati, che in due giorni hanno accumulato tutti i ritardi possibili: 3 almeno Matteo, ma ben 4 Enrico, per un totale di 77 minuti - cronometrati dalla sottoscritta - di ritardo. Praticamente, tutte le volte che c'era un appuntamento da rispettare - davanti a un museo, dopo cena o dopo il pranzo - lui arrivava con una ventina di minuti di ritardo e in tutta calma, con la nonchalance di chi non ha niente per cui preoccuparsi; soprattutto, di chi non si preoccupa che ci siano altre 50 persone che stanno aspettando i suoi comodi. E' andata a finire che i due hanno stufato persino i loro compagni.
Comunque: sono riuscita a raggiungere il gruppo che erano ormai quasi in Piazza Duomo e poi abbiamo dovuto correre per raggiungere il Planetario, in fondo a Corso Venezia. Fortunatamente, siamo arrivati prima delle 14.15 e tutto si è svolto al meglio - ci hanno raggiunto persino i ritardatari.
Abbiamo fatto i biglietti, quindi ci hanno fatto accomodare, assieme a varie altre scolaresche, sotto la cupola del planetario più grande e antico d'Italia.


Non ero mai stata in un planetario, ma avevo avuto io l'idea di metterlo in programma quando lo avevo scoperto nella lista delle attività possibili a Milano: e trovavo l'esperienza affascinante. La lezione dura un'ora circa ed è straordinaria. A dire il vero, il buio relativo sotto la volta celeste, a più d'uno concilia il sonno: e quindi, chi aveva passato buona parte della nottata a chiacchierare, ha cominciato a sonnecchiare. A poca distanza da me, Maria Teresa ha avuto un vero e proprio cedimento strutturale: è crollata e ha dormito, poeticamente sotto le stelle, per buona parte della lezione. Faceva persino tenerezza...Del resto, le sedie girevoli sono vecchio stampo, in legno, un po' rigide e non eccessivamente comode. Il limite inferiore della volta riproduce il vecchio skyline di Milano - quello degli anni '30, quando l'istituto è stato fondato; ma quando il proiettore "accende le stelle nel cielo", la vista è bellissima, soprattutto quando gli astri vengono riprodotti con la luminosità dei tropici, senza l'effetto ottundente dell'inquinamento atmosferico. I ragazzi - quelli svegli - sono rimasti affascinati: parecchi hanno riferito che è stata l'attività da loro preferita. Qui a Ferrara abbiamo un "planetarino" a Occhiobello; ma sarebbe davvero splendido tornare a quello di Milano. Il calendario di attività inoltre trabocca.


Dopo il Planetario, avevamo il resto del pomeriggio libero. A questo punto, si è ripresentata la questione del "Bosco Verticale". Allora, rimesto ora una faccenda che, nel corso dei primi due giorni, ci ha tenuto parecchio occupati. Il fatto è che Chiara, di 4N, fin dal primo giorno, aveva avanzato la richiesta che andassimo a vedere il Bosco Verticale. Si tratta di due grattacieli, terminati e adibiti ad abitazione nel 2014, e progettati in maniera avveniristica, con un ricco corredo di piante e alberi sui numerosi terrazzi delle strutture: in sostanza, l'opera, dello Studio Boeri, nasce dalla volontà di rendere viva e ricca di natura la metropoli e l'idea era venuta all'architetto negli Emirati Arabi Uniti, laddove le città si sviluppano esclusivamente con vetro, cemento e acciaio, in modo "minerale". Gli scopi, molteplici, erano quelli di popolare di piante la metropoli, di procedere alla riforestazione, al miglioramento del clima, a un benessere  maggiore per gli abitanti e a un'aumentata biodiversità. Addirittura, le piante, più di 2.000 specie, sono disposte in maniera tale da presentare prospettive diverse e cromatismi variati a seconda delle stagioni. Nel 2015, il Bosco Verticale è stato premiato come "grattacielo più bello e innovativo del mondo", ma ha vinto anche numerosi altri premi.


Insomma, la proposta di Chiara era molto interessante e meritoria, in linea con i nostri programmi scientifici, tanto che ne abbiamo parlato con l'autista per buona parte della cena della prima sera: ma, problema...Dato che i due grattacieli si trovano sull'Isola Direzionale, cioè tra la Stazione Centrale e la Stazione di Porta Garibaldi, quindi a 2 chilometri dal centro, e dato che avevamo poco tempo...Come avremmo potuto incastrarli nel programma già fitto della gita? Non sembra, ma spostare un gruppo di 2 chilometri in tempi stretti, con o senza pullmann, in una città trafficata, rischia di essere una complicazione. E così, il "Bosco Verticale", per due giorni è diventato la nostra ossessione. Vedremo come è andata a finire nella prossima puntata. (continua).

Nota bene: Mi scuso, ma non sono riuscita a caricare nessuna foto né delle mie, né tantomeno delle 1.402 scattate da Chiara di 4N e condivise. Riproverò.

sabato 4 maggio 2019

Il mistero del caso Galileo 2



Il mistero del caso Galileo 2

L'eliocentrismo, difatti, ebbe dei problemi anche in Olanda: i filosofi olandesi cartesiani, intorno agli anni '50 del Seicento, si ritrovarono in lizza con i teologi calvinisti che leggevano la Bibbia in maniera letterale. Fu in gran parte una discussione tra teologi e docenti universitari, quindi, apparentemente, meno pericolosa a livello politico: tuttavia, anche qui il problema era la gerarchia dei saperi. Ci torneremo tra breve.

Se continuiamo la nostra analisi della vicenda Galileo, salta all'occhio che lo scienziato non ebbe problemi solo per il copernicanesimo: nel 1624 fu denunciato anche perché avrebbe seguito delle opinioni eretiche in fatto di Eucarestia. Lo studioso spagnolo Lucas Mateo - Seco ha analizzato la cosa in modo esemplare, il che si può sintetizzare come segue: la transustanziazione trasforma integralmente il pane e il vino in corpo di Cristo, ma esso permane sotto le specie eucaristiche; queste ultime (colore, forma, gusto ecc.; si ricordi che specie significa "apparenza") sono reali, ma sono un segno del corpo di Cristo in cui si è mutato il pane; ora, all'epoca si tendeva, aristotelicamente, a vedere nelle specie la forma e nel pane la sostanza. Galileo pareva non volere distinguere tra forma e sostanza, per cui l'inquisitore non riusciva più a dar conto della distinzione tra la sostanza (il corpo di Cristo) e la forma (le specie dell'Eucarestia, cioè l'apparenza di pane). La denuncia cadde, anche perché l'Inquisitore si rese conto che questa era solo una delle tante versioni delle discussioni del tempo tra teologi sull'Eucarestia, per cui Galileo non era arrivato veramente all'eresia; ma, incredibilmente, qualche decennio dopo, proprio seguendo lo stesso argomento, Cartesio "sforò" (per sua fortuna, la cosa fu denunciata solo dopo la sua morte).


Perché ricordare tutto questo almanaccare teologico? Ma perché è assurdo stare a spiegare un dogma come la transustanziazione con le formule filosofico - scientifiche del tempo, che fossero aristoteliche o meno. Mateo - Seco infatti lo sottolinea:

Dopo tanti secoli, al teologo sembra strano questo desiderio di unire le ipotesi scientifiche con le semplici affermazioni della fede cristiana, come se non appartenesse alla fede che....la presenza sacramentale del suo (sc.di Cristo) corpo....sia al di là delle nostre analisi e delle nostre ipotesi. 

Appunto. Se facciamo attenzione, ci rendiamo conto che è lo stesso pasticcio avvenuto per l'esegesi: fare equivalere la Bibbia alla scienza. La scienza si appropria della teologia e la teologia tenta di appropriarsi della scienza. Si ha la sensazione che l'aspirazione alla scientificità avesse infervorato tutti un po' troppo, da Galileo, agl'Inquisitori, ai teologi.


Ora, sicuramente quella è stata un'epoca di grande fioritura del genio scientifico, come mai prima; e ancora oggi, la scienza, di per sé una realtà splendida, continua ad abbagliare. Sembra che i suoi successi, basati su metodi rigorosi, non si fermino mai. Eppure, bisogna fare attenzione. Mi è capitato che alcuni miei allievi mi dicessero (ingenuamente) che la scienza dice la "verità": quando invece la scienza osserva e documenta una parte della realtà, ma è perennemente perfettibile. E lo fa con mezzi diversi da altri ambiti dello scibile. Ripeto per l'ennesima volta: anche la poesia si avvicina alla sua maniera alla verità, ma non con il linguaggio del calcolo esatto. E' perciò meno vera? Assolutamente no. Ora, il punto focale del problema è proprio qui: la scienza ha dei limiti? Deve essere considerata al di sopra di altre forme di sapere? Chi la giudica? Non è un problema da poco, perché ancora nel 2005 la geografa Doreen Massey, nel suo saggio For Space lamentava che gli ambiti del sapere vengono giudicati sulla base della loro prossimità alla fisica: quindi la biologia sarebbe un po' meno "scientifica" della fisica, presa come paradigma, le scienze umane ancora meno e così via.


E questo ha portato sia a una gerarchia immaginaria tra le scienze (con la fisica a un estremo e la cultura umanistica all'altro) e a un fenomeno di invidia fra una serie di pratiche scientifiche che mirano a scimmiottare, ma non possono, i protocolli della fisica. I geografi fisici pensano (talvolta) di essere più scientifici dei cultori di geografia umana; l'economia classica si è sforzata di distinguersi dalle altre scienze sociali...I geologi soffrono di invidia nei confronti della fisica...e così i biologi....Ma la cosa più evidente è che lo stato della fisica, della sua metodologia e delle sue pretese di verità, è basato su di un'immagine di questa disciplina che è ora sorpassata. Anche la fisica è cambiata (...) non si adegua per nulla al modello newtoniano-meccanicistico (...) Di più (...) quel che intriga è che alcune delle domande più serie (...) sono state sollevate dai filosofi. 

Mettere la scienza al di sopra di tutto, però, è una forma di idolatria ed è pericoloso. Si chiama scientismo. Qualcuno può arrivare ad ammazzare per questo. Anzi, è già successo: con l'eugenetica e nei lager nazisti, dove, con la scusa della scientificità, si compivano orrori.


Ma ritorniamo un attimo indietro a Galileo. Come ha dimostrato Mauro Pesce nei suoi studi sull'affaire, fin dalle lettere a Cristina di Lorena lo scienziato toscano rivendica l'autonomia della ricerca scientifica in naturalibus rispetto all'autorità religiosa che invece, come sosteneva il cardinal Roberto Bellarmino, non poteva accettarla a causa della diffusione della Riforma protestante (ci tengo anche a sottolineare che, durante l'ancien régime, la religione era una questione politica, per cui i governanti sarebbero spesso stati d'accordo). Cioè: la teoria copernicana poteva essere insegnata come mera ipotesi, perché la sua definitiva accettazione sarebbe dipesa dall'autorità religiosa, che rivendicava una potestas indirecta anche su campi non suoi allo scopo di difendere la fede.

Il sistema galileiano...richiedeva una libertà illimitata alla ricerca scientifica nel rispetto della libertà del potere illimitato delle istituzioni ecclesiastiche ufficiali in materia religiosa. 

A livello epistemologico (cioè di conoscenza) la teoria copernicana poteva anche essere quel che era, cioè una teoria: ma il problema era l'autonomia della ricerca scientifica. Valore sacrosanto, diremmo noi: vero, ma prima o poi anche la ricerca scientifica ha bisogno di un limite, come tutte le cose umane; dove lo mettiamo?


Come sottolinea lo storico della scienza Ludovico Geymonat, proprio la distinzione tra il linguaggio comune impiegato dalla Bibbia e in cui vengono rivelate le verità di fede altrimenti inaccessibili alla ragione e quello rigoroso e razionale del metodo scientifico crea una discrasia. E questa discrasia finisce per svalutare il linguaggio biblico. In effetti, esso non possiede il rigore del linguaggio matematico adottato dallo scienziato come fondamento del suo ragionamento sperimentale; gl'inquisitori se ne accorsero: la Bibbia ne usciva diminuita. Personalmente aggiungerei: pare anzi dalle espressioni di Galilei che il rigore e la ragione siano esclusi dalla riflessione biblica perché essa, nella lettera, non fa ricorso a un linguaggio esatto.

Aggiunge il filosofo Giulio Preti:

Nel linguaggio matematica la certezza umana adegua la certezza dell'intelletto divino; quando l'intelletto umano è giunto a capire la dimostrazione di un teorema, la sua conoscenza -  rispetto a quel dato teorema - è pari a quella che ne ha Dio.

Questa perfezione è garantita dal fatto che la conoscenza matematica è finita e, in quello spazio finito, può garantire un rigore paragonabile a quello del discorso divino.  Ma qui casca l'asino. Perché, se il linguaggio matematico raggiunge il livello dell'assoluto, chi lo ferma più? 


D'altro canto, questa discrasia cela la lotta tra saperi diversi, quello religioso e quello laico. Quando sopra spiegavo che in Olanda, nella discussione sull'eliocentrismo entrò in gioco la questione della gerarchia dei saperi, indicavo il nocciolo del problema anche sul lato cattolico: il Medioevo ci aveva tramandato un sapere in cui la teologia prevaleva su tutto; ma filosofia e scienza (nonché la politica) non ne volevano più sapere di fare da ancelle alla teologia. E' il processo di laicizzazione del sapere e della politica, di per sé comprensibile e più che legittimo; ma, paradossalmente, si assiste proprio ora a una sorda lotta per il monopolio del sacro (Del Prete), perché in un momento in cui le lotte confessionali sono all'ordine del giorno, proprio i saperi che si laicizzano cercano, di ritorno, di dominare l'ambito del sacro; così va a finire che scienziati e filosofi come Cartesio e Galileo si lanciano in discussioni teologiche avventurose sull'Eucarestia, cercando di spiegarla in termini "scientifici" (?); le chiese cercano di mantenersi al passo con la scienza (di qui l'errore del caso Galileo) e il razionalismo per evitare la superstizione (all'epoca, questa era un'accusa ricorrente tra Cattolici e Protestanti); e infine, tutto questo razionalismo porta a quella che Antonella Del Prete chiama l'eterogenesi dei fini, cioè, paradossalmente, a scetticismo e ateismo. Una bella confusione, che però cela problematiche ancora molto vive. In sostanza: la laicizzazione dei saperi non si è fatta pacificamente, ma con tentativi di appropriazione e predominio da una parte e dall'altra e con esiti radicali. E tutto questo proprio mentre Galileo finiva, senza rendersene conto appieno, per svalutare il linguaggio biblico. Vediamo dunque come il problema dei limiti della scienza (e non solo) sia reale. 


Torno perciò alla domanda: chi giudica la scienza? Alcuni anni fa, lo studioso austriaco ateo (sottolineo "ateo") Paul K.Feyerabend, ne Contro il metodo (un titolo davvero evocativo), accusò Galileo di "macchinazioni propagandistiche" (non del tutto a torto, Galileo sapeva come vendersi), mise in dubbio l'oggettività del metodo scientifico e della Rivoluzione scientifica, diede ragione (immaginate...) all'Inquisizione. Perché? Perché, diceva, la Chiesa si pose anche il problema delle conseguenze etiche e sociali della teoria copernicana, perché le teorie scientifiche di Galileo contenevano un nocciolo duro di forte convinzione, per nulla oggettiva, e perché, in definitiva (e qui non ha per niente torto) la scienza non riesce ad avere regole assolute e invariabili per il suo sviluppo. La componente umana, irrazionale, variabile, vi è sempre presente. La scienza ha dei limiti. 


Feyerabend è un epistemologo provocatore e non lo si può seguire del tutto nella sua critica del metodo scientifico. Però, è sano che ci ricordi i suoi limiti. Del resto era un allievo di Karl Popper, quello del "tacchino induttivista". E' una storiella molto divertente, che Popper si era inventato per rendere l'idea dei limiti della scienza e, in particolare, del metodo induttivo (l'ho imparata dai miei studenti che la infilavano in tesina qualche anno fa). 
Un bravo tacchino, molto studioso, comincia a studiare scientificamente le razioni di mangime che gli danno. Prende appunti, fa i suoi calcoli, traccia dei diagrammi e almanacca così che le sue razioni sono tendenzialmente in aumento nei mesi autunnali. Quando, dopo alcuni mesi, ha raccolto una bella mole di dati, diagrammi e simili e sta per giungere alle conclusioni su questa tendenza...un bel mattino gli tirano il collo e lo fanno arrosto (sarebbe interessante sapere se l'hanno fatto arrosto per il Giorno del Ringraziamento...). L'allora cardinal Ratzinger citò Feyerabend in una conferenza del 1990, non per giustificare la condanna di Galileo, ma per ricordare che la scienza ha dei limiti e che ha bisogno di essere compresa entro una ragione, un Logos maggiore, aperto alla trascendenza. 
Quindi, attenzione allo scientismo. Cerchiamo di non fare la fine del tacchino induttivista. 


Bibliografia
Antonio Carioti, Quella citazione di Feyerabend, l'epistemologo che smitizzò Galileo, Corriere della sera 16 gennaio 2008.       
Antonella Del Prete, Scienze della natura e immaginazione teologica, in Vincenzo Lavenia (cur.), Storia del cristianesimo III. L'età moderna (secoli XVI - XVIII), Roma, Carocci, 2015, pp. 401-21.
Doreen Massey, For Space, London, SAGE, 2005. 
Lucas F. Mateo - Seco, Galileo e l'Eucarestia. La questione teologica dell'ACDF, Indez, Protocolli, EE, f.291r-v, Acta philosophica 10 (2001), pp.243-56. 
M.Pesce, Gli ingegni senza limiti e il pericolo per la fede, http://www.fundacionorotava.org/media/web/files/page145__cap_05_02_Pesce.pdf


mercoledì 1 maggio 2019

Il mistero del caso Galileo



Il mistero del caso Galileo

Il caso Galileo è uno dei tornanti più spinosi della storia, non tanto per quello che avvenne, l'abiura di Galileo, quanto per la complessità di quello che avvenne e delle valutazioni da fare in merito. Una certa vulgata propone abitualmente una visione con l'accetta della questione: Galileo il "buono" che difendeva la "verità",  ovvero la teoria copernicana eliocentrica; l'Inquisizione "cattiva" che lo obbliga ad abiurare - oppure, c'è chi sostiene il contrario, con Galileo "cattivo" e l'Inquisizione "buona", che difende la tradizione ecc. Visioni unilaterali si sono diffuse, per esempio, all'epoca del positivismo, che svalutava la metafisica a vantaggio della scienza (no, dello scientismo, cioè dell'idolatria della scienza); l'Illuminismo vedeva in Galileo il difensore della  ragione contro la superstizione; e così via. Insomma, ogni epoca ha fatto il suo "processo", al processo Galileo. A prescindere dalla versione preferita, in realtà, tutte queste prospettive sono difettose, perché riducono al bianco e nero una questione molto, ma molto complessa, piena di sfumature di ogni genere. Provo a sintetizzare qui - a beneficio della mia 4M - alcuni punti di riflessione in merito (e sottolineo "punti di riflessione", per niente esaustivi).


I fatti basilari sono noti: nel 1616 Galileo ricevette dall'Inquisizione il decreto con ordine di non propagare la teoria copernicana, che era da intendere solo come ipotesi; ingiunzione che egli violò con la pubblicazione, nel 1632, del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano. A quel punto, Galileo venne inquisito perché sospettato de vehementi (cioè in maniera forte, ma non al massimo grado) di una tesi ereticale, che però non aveva niente a che fare con dogmi e simili. Solo il decreto del 1616 definiva che l'oggetto di questa eresia era il credere che la Terra si muovesse invece del Sole. In tal senso, era un'eresia più "disciplinare" che teologica e l'unica condanna in merito era arrivata dal Sant'Uffizio appunto col decreto del 1616, mai prima. Nel 1633, l'Inquisizione condannò Galileo all'abiura e lui, da credente cattolico, abiurò il 25 giugno 1633. Ovviamente, sulla teoria copernicana aveva ragione lui e il 31 ottobre 1992, con uno storico discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze e a seguito dei lavoro di una commissione ad hoc presieduta dal cardinal Poupard, Giovanni Paolo II ammise che Galileo aveva molto sofferto a opera di uomini di Chiesa e riconobbe sostanzialmente l'errore commesso (ma già il papa si era espresso in tal maniera nel 1979). Tuttavia, dietro la condanna c'è un groviglio di circostanze storiche molto complicato.


Innanzitutto, il fascicolo oggi conservato negli Archivi Vaticani non è completo, ma è solo un estratto dell'intero incartamento. Quel che c'è è stato più volte messo a disposizione degli studiosi a partire dall'apertura degli Archivi Vaticani sotto Leone XIII nel 1880-81, quindi pubblicato ripetutamente e infine riedito dal Vaticano stesso nel 1984; ma il resto è andato perduto. Il problema è che il fascicolo (il numero 1181) fu fatto portare in Francia da Napoleone nel 1810, assieme a ceste e ceste di documenti del Sant'Uffizio; il Vaticano ne rientrò in possesso solo nel 1843, quando fu ceduto dalla vedova del duca di Blacas, che se l'era tenuto dopo la disfatta napoleonica. Nel frattempo, però, l'inviato vaticano a Parigi, mons.Marini, aveva fatto i salti mortali per cercarlo e rientrarne in possesso e il fascicolo aveva cambiato più volte padrone. Il risultato è che a leggerlo oggi, nasce la certezza che le questioni importanti lì dentro non ci sono (come ha dimostrato Giorgio De Santillana). Inoltre, il fascicolo presenta varie incongruenze: per esempio, fu osservato che il Dialogo ottenne l'imprimatur dall'Inquisitore di Firenze, per cui, perché a Roma se la presero con lo scienziato e non con il collega di Firenze? Insomma, l'incartamento stesso, con le sue lacune e incoerenze, comunica una sensazione di stranezza del processo intero.


Anzi: leggendo le carte, gli storici hanno nutrito spesso l'impressione che sotto ci fosse qualcosa di ben più grave. Ad esempio, Urbano VIII fece un brusco voltafaccia nel 1632, proprio lui che aveva ritenuto la dottrina copernicana temeraria, ma non eretica e che, aveva dichiarato, non avrebbe mai emanato il decreto del 1616; e parlò in seguito con l'ambasciatore fiorentino di una dottrina perversa in massimo grado...La teoria copernicana? Mah. Lo storico Redondi ha individuato in passato tra le carte dell'Inquisizione una denuncia anonima contro Galileo del 1624, motivata dal Saggiatore e da cui si evincerebbe che la vera dottrina eretica sostenuta da Galileo e che preoccupava l'Inquisizione sarebbe stata un'errata interpretazione della dottrina della transustanziazione dell'Eucarestia.


Galileo disponeva di notevoli entrature in Curia: conosceva addirittura Urbano VIII, papa Barberini, che si fregiava dapprincipio di essere suo protettore. Al momento della pubblicazione del suo Dialogo lo scienziato, forse con eccessiva sicurezza, confidava soprattutto in questo fattore, dato che aveva saputo raccogliere il favore di vari ecclesiastici con una sagace opera, per così dire, pubblicitaria. Non tutti ricordano però, che Galileo, nonostante varie quérelles scientifiche con il gesuita Orazio Grassi, incontrava in genere il favore dei Gesuiti (almeno agl'inizi), mentre invece era avversato dai più tradizionali Domenicani (difatti, nel 1613 la sua lettera a Castelli fu inviata a Roma da un domenicano): e Gesuiti e Domenicani, fra loro, non si possono vedere - neanche oggi...- tanto che la loro diatriba interna potrebbe avere avuto un peso non trascurabile nell'affaire. 



Un secondo aspetto della questione è quello, evidentemente, esegetico. Dietro il problema Galileo, si solleva innanzitutto il problema dell'interpretazione da dare alla Bibbia. Ora, onestamente, chi studia l'esegesi cristiana da anni - come la sottoscritta - sa perfettamente che l'interpretazione letterale della Scrittura non è assolutamente uniforme, anzi. La Bibbia non consiste solo di libri storici, bensì anche di testi profetici, poetici, apocalittici ecc., che necessitano di un'esegesi per nulla letterale. Ora, che vari passi della Bibbia possiedano un valore metaforico o allegorico, va da sé (chi ha mai preso sul serio la frase evidentemente paradossale di Gesù in Marco 9,47: "Se il tuo occhio ti è di scandalo, cavalo"?); inoltre, l'esegesi allegorica è un classico dell'interpretazione scritturistica, prima ebraica con Filone di Alessandria (I d.C.), poi cristiana. Un esempio che convincerà tutti: Dante propone l'interpretazione allegorica della Scrittura tra i quattro sensi possibili di essa in Convivio 2,1 (una veritade ascosa sotto una bella menzogna): e, come noto, applicherà questi medesimi sensi all'interpretazione del suo poema (letterale, allegorico, morale, anagogico). Ma l'esegesi allegorica della Bibbia, tra i cristiani, data almeno dal III sec. d.C. e dal celeberrimo testimone della fede Origene, che fu il più grande esegeta della Chiesa antica ed estese l'allegoria a tutta la Scrittura, producendo volumi su volumi di interpretazioni che di letterale hanno ben poco.


Ora, fin dall'epoca almeno di Senofane (VI a.C.) tra i Greci ci si lamentava che gli dei omerici facevano veramente una pessima figura, per cui l'allegoria si diffuse come mezzo d'interpretazione volto a ovviare al noto defectus litterae, cioè al problema presentato da passi letterari problematici e inadeguati alla  divinità. Il problema permaneva anche tra i cristiani, che con la Bibbia ebbero da risolvere problemi cospicui nel corso dei secoli, non meno di quello relativo all'orbita solare (un altro esempio: i passi biblici in cui Dio viene presentato in maniera antropomorfica). E allora: perché la Chiesa del 1600 non applicò lo stesso metodo al problema copernicano e passò letteralmente sopra secoli di esegesi cristiana allegorica?
Il nocciolo è che per Galileo la Bibbia non è affidabile a livello scientifico: a prescindere dal fatto che essa sostenga il sistema tolemaico o quello copernicano, usa espressioni che non possono concordare con la concatenazione meccanica e inesorabile dei fenomeni naturali. La Bibbia, dice Galileo, parla di questioni di fede e lì va creduta; ma si occupa della rivelazione, di realtà che oltrepassano la ragione umana. Invece, per quel che riguarda l'ambito razionale umano, la scienza, che può migliorare le proprie osservazioni sensoriali mediante strumentazioni adeguate (il cannocchiale ad es.), opera a tutt'altro livello: e qui si propone l'assunto principale di Galileo, cioè la separazione dei due ambiti. La differenza la fa il metodo scientifico deduttivo e sperimentale.


Eppure: sorpresa! A un certo punto, per salvare la Bibbia, anche Galileo si appella al metodo antico, ma entro un contesto nuovo. Infatti, egli parla di un senso letterale del testo biblico scientificamente insoddisfacente, ma di un altro senso recondito da scoprire che salva il principio secondo cui la Bibbia non può mentire. Quindi, basterebbe risalire a questo senso recondito, per salvare il valore genuino dei passi scritturistici. Senonché, il decreto del 1616 consacrava, come ha dimostrato Mauro Pesce, il concordismo: cioè la tesi che la Bibbia non errava nella lettera neanche nella sua formulazione letterale, per cui era scientifica (concordismo tra valore scientifico e testo biblico), il che andava al di là di quanto mai predicato nella Chiesa cattolica in ambito di esegesi biblica. Secondo Pesce, è proprio la condanna del copernicanesimo del 1616 che ha guastato i rapporti tra scienza e fede perché, parafraso io, in quel caso la Chiesa è andata oltre un certo limite: ha vincolato la ricerca scientifica alla lettera del testo biblico valutando i due ambiti sullo stesso piano. In effetti, dal punto di vista dello storico dell'esegesi, è questo concordismo che appare una novità e che fa problema. Solo con l'enciclica Divino Afflante Spiritu emanata da Pio XII nel 1943, si riconobbe che la Bibbia si esprime secondo i generi letterari dell'antico Oriente, per cui questo concordismo non vale ed i testi biblici non possono avere valore scientifico.


Perché allora uno "sfondone" di tal fatta? Semplice. Il problema, dopo la Riforma protestante e l'affermarsi del principio del sola Scriptura fu l'irrigidimento dell'esegesi biblica, prima tra i protestanti, poi, di riflesso, anche tra i cattolici. La Chiesa cattolica si basa su due pilastri: la Bibbia e la Tradizione. La Tradizione non è un'inutile aggiunta: è l'alveo in cui scorre il fiume della Bibbia e della sua interpretazione, è l'ancoraggio storico di essa. Se però essa viene eliminata come base delle verità ecclesiali -  come noto, Lutero aveva una pessima idea di certi Padri della Chiesa - la Bibbia viene assolutizzata in un modo ingestibile e diventa una nuvola sconnessa alla terra: perciò ancora adesso ci troviamo certi evangelici statunitensi che fanno il conto delle ere geologiche sulla base delle tavole cronologiche bibliche ridotte a poco più di 6.000 anni. Per questo, l'esegesi letterale divenne un must all'epoca e neppure i cattolici ressero alla pressione di dovere seguire la tendenza, imposta da parte protestante.
Come del resto ha dimostrato un grande teologo domenicano inglese, padre Timothy Radcliffe, l'interpretazione letterale cinque-seicentesca della Bibbia la tratta come cronaca, basata su di una concezione moderna del tempo e dello spazio: il tempo e lo spazio neutri, indispensabili per misurazioni scientifiche, non quelli simbolici del testo biblico o delle epoche precedenti (ad esempio, i "giorni" di cui si parla in Genesi 1 non sono assolutamente da prendere a livello quantitativo, bensì simbolico - liturgico). Quindi, una lettura della Bibbia compiuta secondo una concezione moderna, neutra, meccanica del tempo e dello spazio, la distorce. Il problema è quindi che la Bibbia veniva letta in modo unilaterale, con occhiali che non si adeguavano più alle esigenze della fede, ma che erano dettati da tendenze culturali dell'epoca. Difatti, come vedremo nel seguito, la concezione copernicana e galileiana ebbe dei problemi anche nella tollerante - e calvinista - Olanda. (continua).


Bibliografia

Il processo Galileo: copernicanesimo o eresia?, in A.Camera - R.Fabietti, Elementi di storia. L'età moderna 2, Bologna, Zanichelli, 1987 (3), pp.407-10.
M.M.Cappellini - E.Sada, I sogni e la ragione. Il Seicento e il Settecento, Milano, Signorelli, 2015.
A.Grafton, What was History? The Art of History in early modern Europe, Cambridge University Press 2007.
M.Pesce, Gli ingegni senza limiti e il pericolo per la fede, http://www.fundacionorotava.org/media/web/files/page145__cap_05_02_Pesce.pdf
T.Radcliffe, Temps et récit. Comment lire les récits bibliques, in Que votre joie soit parfaite (trad.fr.), Paris, Cerf, 2002, pp.267-80.