martedì 23 ottobre 2018

Soldado (S.Sollima, 2018)



Soldado (2018)

Confine tra Texas e Messico. Gli elicotteri delle autorità americane setacciano il deserto: sugli schermi delle loro telecamere termiche appaiono alcune figure di immigrati irregolari che tentano la fuga nella notte. Gli agenti al suolo ne bloccano alcuni, mentre uno si inginocchia un po' in disparte e ripete febbrilmente delle parole in arabo. Non appena gli agenti si avvicinano, un'esplosione. E poi, le esplosioni si ripetono in un supermercato di Kansas City, ad opera di alcuni terroristi. Infine, Somalia: un commando di militari americani sequestra un pirata somalo, che poi confessa, sotto minaccia, di avere lasciato passare senza attaccarle delle navi su cui erano imbarcati dei terroristi con destinazione Messico.


Questo l'inizio di Soldado, il film che segna lo sbarco a Hollywood di Stefano Sollima (figlio di Sergio, famoso per la regia dello sceneggiato Sandokan, 1977: e chi se lo è scordato?). Il trailer non rende giustizia a questo thriller di classe, che sembra, dalle immagini selezionate, un'esagitata pellicola di azione, povera di contenuti: in realtà, è un ottimo film, che mescola al ritmo sostenuto, ma non frenetico, un realismo notevole, tematiche scottanti e spunti profondi di riflessione. La prova alla regia di S.Sollima è molto riuscita e si fonda sull'eccellente sceneggiatura di Taylor Sheridan: sequel di Sicario (2015), Soldado sviluppa, come il film precedente, il tema della lotta ai narcos sul filo della frontiera messicana e sulla base di materiali giornalistici. Come in Sicario (che non ho visto, ma molto acclamato), Soldado afferma che la lotta contro il narcotraffico viene portata avanti anche con metodi illegali; tuttavia, questo sfondo pare mutuato piuttosto da altre azioni illegali tipiche della CIA in altre zone del mondo. Come ha puntualizzato il giornalista Sebastian Rotella, specializzato sull'America Latina, la lotta statunitense contro i narcos mira a consegnarli alla giustizia e viene attuata mediante la polizia. In realtà, la sceneggiatura si focalizza sul chiaroscuro tra autorità americane e nemici, mostrando come il bene e il male non siano facilmente distinguibili come il bianco e il nero.


La storia è incentrata su Alejandro Gillick (Benicio del Toro), un avvocato la cui famiglia è stata sterminata dagli uomini del cartello dei Reyes. Dato che i narcos stanno cominciando a infiltrare terroristi attraverso il confine di Ciudad Juarez per il proprio tornaconto, le autorità statunitensi decidono di fomentare la guerra tra cartelli attraverso alcune azioni contro i Reyes, da attribuire alla famiglia rivale dei Matamoros: e di questo viene incaricato proprio Alejandro attraverso l'agente CIA Matt Graver  (Josh Brolin). Così viene ucciso l'avvocato dei Reyes e, soprattutto, viene rapita la figlia sedicenne del boss, Isabela (parentesi. Per un attimo sono stata d'accordo col rapimento, perché, non ci crederete, ma una delle scene più violente del film è quando Isabela, una vera peste che si approfitta della sua situazione, pesta a sangue una compagna di classe che l'ha chiamata t.....spacciatrice. A questo punto, il mio DNA di insegnante si è schierato dalla parte dei rapitori). La ragazza viene portata in Texas e quindi i militari americani fingono di liberarla. Ma quando il convoglio di Humvee e mezzi americani, autorizzato a entrare in Messico per consegnarla ai militari messicani, viene attaccato dalla polizia federale del luogo (corrotta dai Matamoros), il conflitto a fuoco che ne segue provoca un putiferio; Isabela scappa e Alejandro va a cercarla da solo, mentre gli altri rientrano di corsa in Texas. A quel punto, arriva l'ordine di eliminare entrambi, perché divenuti testimoni scomodi: ma Alejandro rifiuta. Così il film è dedicato proprio alla sua lotta solitaria per salvare la figlia di colui che ha fatto trucidare la sua.


La sceneggiatura è sobria, compatta, ottimamente costruita: la storia è davvero complessa e, a tratti, potrebbe apparire surreale, eppure l'azione scorre in maniera naturale e credibile anche nei momenti più difficili, tanto che lo spettatore la segue senza sforzo. Un altro aspetto che mi ha colpito favorevolmente è che, per quanto questo sia un film duro, con scene violente, tuttavia mantiene un equilibrio che parecchi film d'azione dimenticano: manca quell'esibizionismo della violenza tipico di certi thrillers iper-realistici (e, quindi, ben poco realistici). La fotografia dai toni cupi, in linea col deserto messicano e con i sobborghi fatiscenti di Ciudad Juarez, incrementa l'effetto realistico della pellicola che, anche se attraverso la finzione, tocca argomenti, lo ripeto, scottanti. Ecco allora una resa efficace e cruda del traffico di esseri umani al confine tra Messico e USA: ad es., il ragazzino figlio d'immigrati, ma cittadino americano, che è stato assoldato dai trafficanti per fare da scout, mentre guada il fiume con un gruppo di immigrati irregolari sente che una donna non riesce a resistere alla corrente e intima di lasciarla perdere. Efficacissima a sottolineare la durezza delle situazioni la musica della violoncellista islandese Hildur Gudnadottir. Benicio del Toro, infine, dona spessore a un personaggio che, coinvolto fino in fondo in una guerra sporca, mantiene un senso inatteso di dirittura morale. Questo rende il film riuscito in una maniera che non mi aspettavo: il finale è veramente bello.

Cfr. Sebastian Rotella, Sicario's Dirty War on Mexican Cartels is not yet Reality, Propublica 23 ottobre 2015, https://www.propublica.org/article/sicarios-dirty-war-on-mexican-cartels-is-not-yet-reality

domenica 21 ottobre 2018

La rivincita degli "zebrotti", ovvero ragazzi - e adulti - intellettualmente plusdotati



La rivincita degli "zebrotti", ovvero ragazzi - e adulti - intellettualmente plus-dotati. 

Avete presente quell'allievo / a intelligente, persino brillante, che ha guizzi di acume cui gli altri non arrivano neanche con l'ascensore, ma a cui la scuola va stretta come un maglione passato in lavatrice a 90 gradi; perennemente sulle nuvole, su di un'altra linea d'onda, oppure col cervello in ebollizione e 100.000 idee e interessi, tra cui sembra saltellare come la cavalletta Flip; ipersensibile, preoccupato delle sorti del mondo intero (che vi chiede angosciato alle 8.30 di mattina, mentre state cercando disperatamente d'interrogare: "Ma come si fa a vincere la fame nel mondo?"; "E l'ebola? Come facciamo a battere l'ebola?"...); vagamente ribelle, magari persino irritante per certi colleghi, con tutte le sue domande destabilizzanti a mitragliatrice; spesso un po' isolato, incompreso come Leopardi a Recanati; che sembra leggervi dentro con un raggio laser incorporato, tanto che fin dall'asilo mandava in crisi maestra i genitori, eppure si perde ancora ad ammirare con sguardo candido le farfalle e i peluches?    


Ebbene, questo studente così speciale è il plus - dotato, un profilo di allievo - e poi di adulto - dalle qualità meravigliose, ma troppo spesso ignorato, specie in Italia: eppure, per quanto sia capace, ha bisogno di attenzioni specifiche, perché è una forza fragile (come sanno i miei ragazzi, questo è un ossimoro, efficace però). Jeanne Siaud - Facchin, psicologa francese specializzata sul soggetto, gli ha dedicato un bel libro, Troppo intelligenti per essere felici ? (Rizzoli, 2016, traduzione dell'originale francese del 2011) che rappresenta, per quel che so, l'unico testo in Italia sull'argomento (adulti compresi). Vediamo un po' di cosa si tratta.  

I plus - dotati (francese surdoués, inglese gifted) sono bambini, poi adulti, dall'intelligenza non tanto superiore (anche se il loro QI supera i 115 punti), quanto diversa. Rappresentano il 2% della popolazione e sono molto differenti dal classico "secchione": di solito la gente si aspetta che sia lui il più intelligente, ma so per esperienza che spesso i primi della classe sono solo molto diligenti e "adattativi" (talvolta neanche particolarmente brillanti). Anzi, non di rado intelligenza non fa rima con riuscita scolastica. Niente a che vedere, a dispetto del pregiudizio popolare, col nostro plus - dotato, che d'ora in poi chiamerò "zebrotto", come fa simpaticamente la Siaud Facchin stessa. E lei si arrabbia parecchio, perché gli zebrotti sono, regolarmente, degl'incompresi e soffrono molto. Premetto che, per illustrare il seguito, userò anche degli esempi tratti dalla mia esperienza, perché...sono una zebrotta anche io (come vari colleghi, del resto). E non è per niente facile.   


I plus - dotati hanno due caratteristiche principali, in realtà due facce della stessa medaglia, indissolubilmente intrecciate: 

Un'intelligenza diversa, super-veloce: in media, gl'impulsi viaggiano nel loro cervello a una velocità di 5 cm al secondo in più per ogni punto al di sopra del normale QI (mezzo metro in più per ogni 10 punti...degli Sputnik!). Per di più, le informazioni che arrivano così velocemente non vengono stoccate in una zona sola del cervello, ma un po' dappertutto: così vengono recepite tutte in contemporanea, col risultato che il nostro zebrotto fatica a selezionare le informazioni...e ci affoga dentro. 
Ipersensibilità, una "reattività emotiva costante, fonte di un'ansia diffusa". Proprio perché ha un cervello super-veloce, lo zebrotto è ipersensibile ed emotivo, anzi, la sua emotività fa strettamente parte della sua intelligenza: per così dire, "pensa col cuore" e tutti i suoi sentimenti appaiono decuplicati. Vive quindi le cose con un'intensità impensabile (e incomprensibile) per gli altri: anche un dettaglio vira alla tragedia (o, viceversa, all'estasi). Questo è collegato alla sua tipica iperestesia ("recettività sensoriale esacerbata"), che potrebbe essere dovuta a una sensibilità acuta dell'amigdala. Ciò rende più difficile alla corteccia prefrontale di controllare le emozioni e gestire il pensiero in sintonia. 


La Siaud - Facchin consiglia a ripetizione che gli zebrotti vengano adeguatamente valutati con una batteria di test, perché "la verità rende liberi": infatti, hanno un fortissimo bisogno di sapere chi sono. Spesso il loro comportamento, anche se sono bambini e adolescenti sanissimi, appare un po'differente e questo li fa sentire a disagio, persino in colpa. Così, se un bambino plus-dotato cresce senza essere riconosciuto per quello che è, rischia dei problemi seri, come vedremo: in particolare, il crollo dell'autostima, sensi di colpa, e persino blocchi emotivi o situazioni di ansia. Il pericolo maggiore per loro è proprio il crollo dell'autostima, perché il nostro zebrotto è ipercritico con se stesso: quindi, mentre possiede delle qualità meravigliose, pensa di non valere nulla, un po' come il brutto anatroccolo, che non sapeva di essere un cigno. Da notare: gli zebrotti sono gli ultimi a credere di essere plus - dotati e, anche quando cercate di convincerli che sono molto intelligenti, non ci credono (neanche davanti ai risultati del test nero su bianco). Solo sapere che si è plus - dotati permette di riconciliarsi con se stessi e di avere uno sguardo più realistico e positivo su di sé: di occupare la propria casella giusta, per così dire, e adeguarsi al proprio funzionamento. 


Dato che il discorso è lungo, lo proseguirò in altre puntate, in cui approfondirò gli aspetti cognitivi ed emotivi della personalità dello zebrotto, sempre sulla falsariga del libro di Jeanne Siaud - Facchin e di quello che ho sperimentato, anche come insegnante. 
(continua). 

Bibliografia: J.Siaud - Facchin, Troppo intelligenti per essere felici?, Milano, Rizzoli, 2016; ADF.

martedì 16 ottobre 2018

Titanic (1997)


Titanic (1997)


Perché scrivere una recensione del film Titanic a 20 anni dalla sua prima proiezione? Forse perché adesso è possibile apprezzarne le qualità ancora di più.
Ci siamo ritrovate una sera della settimana scorsa sprofondate in  una poltrona del cinema io e due mie allieve di 3N, Federica ed Emma: pronte a salire sulla "nave dei sogni", come la soprannominavano allora - ma anche a scenderne non appena si è visto un iceberg di prua. Come io stessa anni fa, ci siamo commosse ed entusiasmate - senza grande differenza tra me e loro - mentre una folla di ragazzine affascinate come noi seguiva dietro di noi. Non c'è che dire, il Titanic è un film da rivedere al cinema, dove ci si può "immergere", alla lettera, nella storia e nell'atmosfera del racconto.


Titanic è, senza dubbio, uno dei film più importanti e ben costruiti della storia del cinema. Undici Oscar - uno meritatissimo a James Cameron per la miglior regia, quindi miglior film, migliore fotografia, scenografia, costumi, montaggio, sonoro, montaggio sonoro, effetti speciali - per forza -, infine migliore colonna sonora e canzone, capolavoro del compianto James Horner - vinse poi dei Golden Globe e una pletora di altri premi. Tuttavia, è ricordato in particolare come un cult movie, sia per le spettacolari scene dell'affondamento - più di un'ora e mezza, la durata effettiva della tragedia in mare - sia per la storia d'amore tra i due protagonisti, Jack Dawson e Rose DeWitt Bukater. Perciò, a volte, l'aspetto tecnico viene lasciato un po' in ombra. Ma le sue qualità sono superlative.


Innanzitutto, Titanic è un racconto potente, una narrazione dal respiro epico. Fin dall'inizio, ogni scena ha un senso nel disegno complessivo e nulla è fuori posto: l'esordio con le finte immagini di repertorio della partenza della nave evocano un passato che non c'è più, mentre le successive sequenze del vero Titanic che giace sul fondo dell'Atlantico ed è stato esplorato da Ballard acquistano una straordinaria densità emotiva. Non sono solo immagini da documentario: evocano anch'esse la tragedia, il fasto scomparso tra le onde assieme a tanti sogni e vite umane. Le scene però profondamente coinvolgenti non si contano: io ricordo in particolare i preziosi piatti di porcellana che si infrangono al suolo cadendo dalla loro credenza, simbolo di un lusso andato in pezzi, così come tanti altri oggetti - i quadri acquistati da Rose a Parigi finiscono sott'acqua; le mie ragazze ricordano regolarmente la  madre che racconta una fiaba ai suoi bambini per farli addormentare prima che muoiano tutti sul transatlantico che affonda; splendida è la rapidissima scena in cui i coniugi Strauss, i proprietari del grande magazzino Macy's, si abbracciano tremanti sul letto della loro cabina, mentre l'acqua entra a fiotti. Infatti, la loro storia è molto nota: essi rinunciarono a salvarsi per rimanere insieme e lasciarono il posto sulla scialuppa - e persino una pelliccia contro il freddo - alla loro giovane cameriera.


E poi le belle scene sulla celeberrima orchestra del Titanic, che suona fino alla fine con eroismo, intonando come ultimo pezzo un inno religioso; lo sconcerto dell'ingegnere Andrews, che, affranto per non avere progettato una nave più sicura, attende la morte assorto davanti alla pendola della sala da pranzo di prima classe; oppure il capitano Smith, che, praticamente sotto shock, si ritira nel castello di prua, finché l'acqua non lo invade. Sono tante, tantissime, le storie raccontate in quella globale del transatlantico: ogni morte viene narrata con rara profondità umana. Per me, una delle scene più sconvolgenti, quasi dantesca, è quella finale, in cui l'unica scialuppa che è tornata indietro si trova a vagare vuota e al buio tra i cadaveri delle persone assiderate nell'acqua gelida. Questa volta ho rivalutato persino la storia d'amore tra Rose e Jack, che vent'anni fa mi era sembrata troppo artificiale, perché veramente breve: dura la lunghezza del viaggio del transatlantico (dall'11 alla notte del 15 aprile 1912). In realtà, non solo una storia d'amore era necessaria al cuore del film e non si poteva che inventarla - e come andare a turbare la memoria delle vittime vere? -, ma la storia di Rose e Jack adempie pure a varie funzioni, tra cui una strutturale.


Che una ragazza di prima classe si innamori di un giovane di terza, permette uno spaccato integrale della vita della nave: nei loro andirivieni, i due protagonisti attraversano e ci mostrano tutto, dalla prua, alle stive, fino al locale caldaie. E lo stesso avviene durante l'affondamento, quando, per vari motivi, i due innamorati sono costretti a vagare ai piani bassi, che si stanno ormai riempiendo d'acqua. Questo spaccato, però, permette anche considerazioni sociali più profonde: il naufragio del Titanic è, anche e soprattutto, una tragedia provocata dall'arroganza umana e dall'ingiustizia. La fedelissima ricostruzione di J.Cameron insiste molto sull'iniquità che porta alla morte buona parte dei passeggeri poveri della terza classe. Il tutto è coronato dalla magnifica recitazione di Kate Winslet - che ricevette una candidatura all'Oscar - e Leonardo di Caprio, senza dimenticare le decine di altri attori, molti inglesi, di solito somigliantissimi alle vittime vere. Tra questi, vorrei ricordare Kathy Bates, perfetta nei panni del'"inaffondabile" Molly Brown, e Gloria Stuart, che interpreta Rose da vecchia.


La ricostruzione storica è stata minuziosissima, quasi maniacale; pochi i difetti: una certa tendenza manichea nel ritratto di Cal Hawkey, il fidanzato di Rose, davvero un po' troppo cattivo per essere credibile, o dei ricercatori  a caccia del Titanic, eccessivamente interessati ai soldi; anche Rose, all'inizio, sembra davvero troppo emancipata (ce la vedete una ragazzina diciassettenne della puritana Philadelphia a discettare su Freud?). Un'imprecisione seria riguarda la morte del  primo ufficiale Murdoch, che non si sparò, come mostrato nel film. Per il resto, la pellicola è di una precisione storica stupefacente; inoltre, le qualità tecniche del film sono davvero rare. La scenografia di Peter Lamont deve essere costata molte fatiche, così come gli effetti speciali di Robert Legato; bellissimi i costumi edoardiani di Deborah Lynn Scott, così come ho apprezzato molto il sonoro - ascoltate i rumori sinistri dentro la nave durante l'affondamento e capirete perché. In ogni caso, rivedendolo ci si rende conto che la regia di Cameron deve avere affrontato delle difficoltà tecniche eccezionali: molte scene, girate in acqua e in condizioni molto difficili, sono davvero più ardue di una qualsiasi scena di battaglia.


Titanic è una storia che coinvolge e rapisce: quello che il cinema dovrebbe essere. Eppure, lascia anche un messaggio molto positivo. "Credo che la vita è un dono" afferma Jack a pranzo con Rose e alcuni ricchi della prima classe: e le scene del film sottolineano questo concetto più volte. La storia d'amore tra Jack e Rose è bella anche perché lui le dona la vita: "mi ha salvato in tutte le maniere possibili" riflette lei da anziana. Jack le ha insegnato a vivere una vita diversa dalla rigida etichetta cui era abituata, le ha donato la libertà e, infine, le ha donato la vita. Se "le grandi acque non possono spegnere l'amore, né i fiumi travolgerlo", questa storia d'amore, anche se inventata, evoca il dono più completo, quello che tutti vorrebbero ricevere.

sabato 6 ottobre 2018

Fiaba d'amore a S.Pietroburgo


Fiaba d'amore a S.Pietroburgo


Questa fiaba è ambientata in una città splendida, affacciata sul Mar Baltico: S.Pietroburgo, costruita tra i ghiacci dal potente zar Pietro I più di tre secoli fa. Migliaia di prigionieri furono trasferiti in condizioni disumane a lavorare all’estremo Nord per l’edificazione della nuova capitale russa e migliaia vi morirono. Sulle loro ceneri si eresse però la “Venezia del Baltico”, un misto di armonia neoclassica italiana, soavi colori pastello, luccicante sciacquio dei canali e morbida luce del Nord, che si posa leggera e obliqua sugli splendidi edifici fin nelle lunghe, chiare notti estive dell’Artico.



A S.Pietroburgo, tanto tempo fa, su di una panchina affacciata sulla Neva e sul panorama della magnifica città, tutte le sere era possibile scorgere seduta una minuta figura di donna. Era bruna e rimaneva sulla panchina ad aspettare, senza muoversi, lo sguardo perso sull'acqua; in inverno pareva fissare il candido, vaporoso volteggiare dei fiocchi di neve sopra la Neva, la cattedrale dei santi Pietro e Paolo e il ponte della Trinità; in estate rivolgeva lo sguardo al pulviscolo dorato della luce serale che ammantava le cupole delle cattedrali e il Palazzo d'Inverno. Aspettava per un’ora, tra le 10.00 e le 11.00 di sera, poi si alzava sospirando e scivolava via in silenzio. Proprio come i protagonisti delle Notti bianche di Fedor Dostoevskij, che si ritrovavano a parlare su di una panchina nelle lunghe “notti bianche”, chiare, luminose, di S.Pietroburgo, anche lei pareva obbedire a un appuntamento segreto. Ma attendeva sempre sola. Solo i gabbiani che volavano e stridevano al di sopra della Neva potevano conoscere il suo segreto.



Chi aspettava la misteriosa sconosciuta? La giovane donna attendeva il suo amore, ma si trattava di un’attesa molto particolare. Mentre fissava le acque turchine della Neva, assieme agli stridi dei gabbiani, frammenti di un passato radioso parevano riemergere dall’acqua e dai ricordi: risa e scherzi sui gradini dell’Università, sguardi timidi e dolci che s’incrociano tra gli scaffali dei libri e sopra volumi polverosi; la trepidazione che precede un incontro tanto desiderato, quanto istantaneo ed effimero, stretto dalla tirannia delle convenienze; labbra che si schiudono al sorriso, ma non riescono a pronunciare altro delle migliaia e migliaia di parole di cui il cuore trabocca. Lei lo ricordava così, alto, slanciato tra i suoi libri, con l’aria sempre assorta, aureolato dal tepore della cultura; così alto, così energico nel passo, eppure così tenero, quasi fanciullesco nell’incarnato roseo, che s’imporporava lievemente quando la vedeva e chinava il capo, per riservatezza.



Quei ricordi così dolci costituivano una sorta di nicchia tiepida nel gelo dell’inverno nordico; una nicchia ricavata entro la crudele marea della storia che li assediava da ogni parte. Lei infatti lo aveva conosciuto alla Facoltà di Diritto, quella che, all’epoca, sotto Stalin, veniva definita dai poliziotti dell'NKDV la “facoltà delle cose inutili”: le leggi, il diritto, erano cose inutili perché, tanto, sotto uno Stato totalitario in cui il capriccio del dittatore porta allo sterminio milioni di persone, in cui si fissano quote per l’arresto e la fucilazione dei “nemici del popolo”, in cui l’economia si appoggia al lavoro dei gulag e milioni di contadini sono condannati alla morte per fame, a cosa servono i diritti? Visinskij, il procuratore generale dello Stato, quello che ordiva per Stalin i processi farsa del “Grande Terrore”, lo aveva detto chiaramente: a cosa servono le prove in un processo? Basta la confessione, e confessione ottenuta sotto tortura.



Per questo, la facoltà di Diritto sotto Stalin era inutile. Eppure lei l’aveva frequentata, per i suoi libri e la sua biblioteca, anche se studiava altrove. E così lui. Mentre intorno a loro succedeva tutto questo e incombeva la scure dell’apocalisse, l’idillio era germogliato nei loro cuori. Inconfessato, inconfessabile: nutrito di sguardi e di tepidi sorrisi; lieve e vulnerabile come i petali di un anemone assediato dall’inverno. L'anemone: il fiore del vento e dell'attesa. Mentre il sole tramontava placido dietro ai tetti di S.Pietroburgo in un mare di fuoco, lei ricordava quei giorni dei loro primi incontri come i più belli della propria vita: e le si scioglieva ancora il cuore a pensare a lui, a quanto era bello, gentile, intelligente, a quanta bellezza e amore i suoi occhi le avevano comunicato pur nel pudore della loro giovanile timidezza.



E poi era arrivata la marea, la tempesta. Anche per loro. Per una sciocchezza, lei non ricordava neanche cosa, tanto si era trattato di qualcosa di insignificante, anche lui era stato incriminato; e lei si era ritrovata al di fuori di tutta la barbara trafila, a guardare terrorizzata senza capire: false accuse, tortura, processo, condanna e poi la scomparsa. Da un giorno all’altro, lui era scomparso. Chissà dove lo avevano mandato. A lei era rimasta solo l’attesa. L’attesa e la tortura dell’incertezza. Nel dolore lancinante provocato dal vuoto e dalla paura per lui – che cosa gli era successo? Chi si occupava di lui? Come mangiava? Chi lo teneva al caldo? – non le era rimasto altro che pregare. Pregava inginocchiata davanti alla sfolgorante iconostasi di una chiesa riaperta durante la guerra: fissava i volti, astratti e paradisiaci, delle icone, rivelatori di un’altra dimensione, così radiosa, così splendente, apparentemente così lontana dalle miserie di quaggiù, eppure così vicina ad esse per misericordia, e pregava. Pregava che lui stesse bene.



Era cominciata allora la lunga attesa: l’attesa così meravigliosamente immortalata da Konstantin Simonov nella sua più bella poesia d’amore:

Aspettami ed io tornerò,
ma aspettami con tutte le tue forze.
Aspettami quando le gialle piogge
Ti ispirano tristezza,
aspettami quando infuria la tormenta,
aspettami quando c’è caldo,
quando più non si aspettano gli altri,
obliando tutto ciò che accadde ieri.
Aspettami quando da luoghi lontani
Non giungeranno mie lettere,
aspettami quando ne avranno abbastanza
tutti quelli che aspettano con te.


                                            Amore e Psiche di A.Canova si trova all'Ermitage

Aspettami ed io tornerò,
non augurare del bene
a tutti coloro che sanno a memoria
che è tempo di dimenticare.
Credano pure mio figlio e mia madre
Che io non sono più,
gli amici si stanchino di aspettare
e, stretti intorno al fuoco,
bevano vino amaro
in memoria dell’anima mia…
Aspettami. E non t’affrettare
A bere insieme a loro.



Aspettami ed io tornerò
Ad onta di tutte le morti.
E colui che ormai non mi aspettava,
dica che ho avuto fortuna.
Chi non aspettò non può capire
Come tu mi abbia salvato in mezzo al fuoco
Con la tua attesa.
Solo noi due conosceremo
Come io sia sopravvissuto:
tu hai saputo aspettare
semplicemente come nessun altro.


Questa poesia era stata composta da uno scrittore e corrispondente di guerra per i soldati dell’Armata Rossa tra cui viveva e che affrontavano tutti i giorni il fuoco nemico: solo l’amore li poteva salvare dalla morte. Tuttavia, essa poteva adattarsi a ogni forma di attesa e, quindi, anche a lei: in estate, in inverno, mentre ormai più nessuno lo aspettava e tutti pronunciavano le frasi saccenti e vuote della rassegnazione, quando ormai ogni speranza pareva vana, lei continuava ad aspettare. Anche lei aveva deciso di aspettare con tutte le sue forze, cioè di avere fede. Fede in lui, fede in Dio, che glielo avrebbe salvato: e per questo, da anni, fedelmente, si recava tutte le sere su quella panchina, luogo, tanto tempo prima, del loro primo, unico appuntamento d’amore.


E lui, ora lo sapeva, da poco era tornato. Era tornato veramente. Vivo. Eppure, preferiva non vederla. Dapprincipio, per lei fu traumatico: lui era, da poche settimane, di nuovo a S.Pietroburgo, ma non intendeva vederla; così una conoscenza comune le aveva riferito. Lei aveva provato a cercarlo, perché sperava di parlargli: ma inutilmente. Di nuovo, un’altra conoscenza comune le aveva riferito, in via del tutto riservata, che, a suo parere, lui era troppo segnato dalla sua prigionia, schiacciato dal peso dei ricordi amari; per questo preferiva non vederla. Per lei ciò aveva significato un dolore enorme e l’incomprensione più totale: tanto pregare, tanto attendere sulla loro panchina, tanto sperare e ora che lui era tornato, vivo, non la voleva vedere! Perciò lei, all’inizio, era sprofondata in una cupa tristezza.



Poi, aveva capito. I romanzi ci hanno abituato agli ostacoli più banali nelle storie d’amore: familiari, motivi d’interesse, divisioni sociali. Ma i veri ostacoli all’amore vengono da dentro. Quando due creature sono state ripetutamente ferite dalla vita o dall’odio altrui, si ripiegano su stesse, si rivestono di paura e vergogna, si sentono incapaci di amare ancora. Le creature ferite rischiano di rimanere da sole; il male divide e annienta. Anche nello splendido Padiglione cancro di Solženitsyn, il protagonista Oleg non incontra più la ex-fidanzata, una volta che entrambi sono usciti dal gulag, perché il gulag ha scavato tra loro un abisso; e, analogamente, si sente incapace di ritornare ad amare. Quel muto abisso la prigionia di lui aveva scavato tra loro: non meno profondo e invalicabile di quello che tracciavano le autorità quando riferivano alle famiglie: “Dieci anni senza diritto di corrispondenza”, il che copriva semplicemente d’un velo omertoso un’esecuzione.


Tuttavia, dopo la prima crisi di sconforto, lei decise di non perdersi d’animo. E continuò ad aspettare. Inseguirlo sarebbe stato controproducente; attirarlo a sé non poteva. Allora, proprio come è detto nella poesia, decise di aspettare, aspettare con tutte le sue forze, di aspettare come nessun altro. E così lei lo avrebbe salvato dal fuoco, ad onta di tutte le morti: e lui sarebbe tornato da lei. Aspettare così significa credere, avere fede, nutrire la speranza, perché risorgere dall’ombra della morte è possibile e ritornare nella luce della resurrezione può accadere; sperare così non significa ignorare superficialmente le difficoltà, bensì, proprio perché se ne è coscienti, profondere tutte le proprie energie per superarle. Alla fine, lei ne era sicura, la sua attesa avrebbe vinto; lui non era tipo da arrendersi e non si sarebbe mai arreso, purché lei continuasse ad amarlo; era forte, ma dal suo amore avrebbe tratto ancora più forza. E lei avrebbe cucinato per lui la pasta al forno, gli avrebbe profumato la biancheria e deposto un bacio sulla fronte mentre dormiva. Lei lo amava come non mai e desiderava soltanto rivedere il suo volto, pulito e fanciullesco, per carezzarlo dolcemente sulla guancia. Perché l'amore fa miracoli.



Solo l’amore riporta alla vita. Come dice la poesia Attesa di Raymond Carver:

C’è una casa di tronchi
Con il tetto di tavole, a sinistra.
Non è quella che cerchi.
E’ quella appresso,
subito dopo una salita. La casa
dove gli alberi sono carichi
di frutta. Dove flox, forsizia e calendula
crescono rigogliose. E’ quella
la casa dove, in piedi sulla soglia,
c’è una donna
col sole nei capelli. Quella
che è rimasta in attesa
fino ad ora.
La donna che ti ama.
L’unica che può dirti:
“Come mai ci hai messo tanto?”
ADF



Note
1) La facoltà delle cose inutili è il titolo del capolavoro di Jurij Dombrovskij, pubblicato nel 1978 e denuncia autobiografica dello stalinismo; l'autore fece un continuo andirivieni tra carceri e gulag. Nel romanzo, il titolo è però riferito alla Facoltà di Diritto di Mosca. 
2) Si noti che la chiesa ortodossa ricevette qualche garanzia da Stalin per opportunismo del dittatore solo durante la guerra. 
3) La prassi dell'NKDV era di mantenere segrete le esecuzioni e di fornire alle famiglie come unica, laconica spiegazione: "Condannato a dieci anni senza diritto di corrispondenza".

Il conte Ugolino e gli orrori della storia 2. La storia di S.Massimiliano Kolbe

Il conte Ugolino e gli orrori della storia 2. La storia di S.Massimiliano Kolbe

Dopo l'incubo della caccia infernale, Ugolino si risveglia e trova a circondarlo una realtà ancora più atroce: i suoi figli (Gaddo, Uguccione, e i nipoti Anselmuccio e Nino), dormendo, chiedono del cibo nel sonno. E lui, impotente, non può fare niente per aiutarli. Quando si svegliano, essi attendono con ansia l'arrivo del pasto: e, invece, come unica risposta alle loro invocazioni, odono che la porta della torre viene inchiavardata definitivamente: i colpi di martello sulla porta equivalgono ai colpi su di una bara (la chiave fu poi gettata da Ruggieri in Arno affinché non venisse più trovata; del resto, Ruggieri odiava Ugolino perché questi aveva fatto condannare a morte suo nipote). La risposta di Ugolino è l'implosione completa: guarda i figli senza essere in grado di replicare, tanto è lo smarrimento che prova, a tal punto che si sente divenire pietra (io non piangea, sì dentro impetrai, v.59).


C'è un verbo che ricorre spesso, nel racconto, in varie forme flesse (poliptoto): piangere. Ugolino non riesce a piangere, ma piangono i figli, per cui, egli, per non aggravare ulteriormente la loro situazione, tace; un silenzio tremendo, che dura tutto un giorno; il sole, la luna, le intemperie passano e Ugolino resta immobile, come se il dolore immane lo avesse trasformato in pietra. L'unico momento di cedimento è al v.57, quando il conte, per la disperazione, si morde le mani; ma i figli interpretano il suo gesto, di rabbia, di pena, come un gesto ispirato dalla fame. Allora i figli supplicano il padre di sopravvivere nutrendosi di loro (vv.61-63: si noti la metafora del rivestire le membra di carne e dello spogliarle). E' un disperato atto di amore, estremo come estrema è la situazione: qualcosa del genere avvenne nel famoso caso dei sopravvissuti delle Ande, i giovani della squadra di rugby uruguayana Old Christians Club, precipitati con un volo charter sulle Ande il 13 ottobre 1972 e che sopravvissero anche nutrendosi dei corpi dei compagni morti. Qualcuno dei morenti esortò infatti i sopravvissuti a nutrirsi di loro per sopravvivere. Vennero ritrovati in 16 il 23 dicembre successivo, dopo 71 giorni passati a più di 3.000 metri, tra il ghiaccio, a varie decine di gradi sottozero e in condizioni di denutrizione spaventose.
Ugolino e i suoi, invece, non furono salvati. Il conte rimane ancora impietrito nei giorni seguenti, finché non vede i suoi figli morirgli davanti uno ad uno: ultimo rimane lui, a brancolare, ormai accecato, sui cadaveri e a invocarne il nome disperatamente, perché non sa, nella sua cecità e disperazione, che sono già morti: questa è la scena immortalata dalla scultura di Rodin.

                                                Ricostruzione del volto del conte Ugolino 

L'ombra del cannibalismo aleggia su tutta la vicenda del conte Ugolino, non a caso: è logico che, tra l'odio e il ghiaccio infernali, al fondo degl'inferi, il sommo poeta situi come argomento portante l'ultimo confine dei tabù umani, lo sconvolgimento più totale dell'etica. Si tratta di un tabù tanto tremendo che i sopravvissuti delle Ande chiesero l'assoluzione a papa Paolo VI (per quanto difficilmente potessero essere considerati colpevoli). Il racconto di Dante si chiude con una celebre reticenza: poscia, più che 'l dolor, poté il digiuno, frase ambigua, che può significare sia la morte per fame, sia che Ugolino, per la disperazione, si diede al cannibalismo. Nel 2001 le ossa del conte e dei familiari sarebbero state ritrovate nella tomba situata nella chiesa di S.Francesco a Pisa, cappella dei Della Gherardesca; secondo il prof.F.Mallegni, direttore del laboratorio di Paleoantropologia umana dell'Università di Pisa, si trattava di 5 scheletri, uno, di un anziano sui 70-75 anni, privo di denti, due di quarantenni e infine altri due scheletri di ventenni (Ugolino, i figli e i nipoti; per le due coppie di scheletri il DNA può provare che erano fratelli). L'esame del DNA ha rivelato un genoma compatibile al 98% con quello dei discendenti Della Gherardesca, mentre analisi effettuate entro il 2002 avrebbero provato l'assenza dalle ossa di tracce di zinco, segno del consumo di carne nel periodo antecedente il decesso. Invece, le ossa rivelano un prevalere di magnesio, indice di un periodo di inedia a pane e acqua e di malnutrizione poco prima della morte. L'appartenenza delle ossa è stata messa in discussione nel 2008, ma i dati sono ragionevolmente sicuri.


Tuttavia, il cannibalismo rimane il punto più basso della negazione della civiltà, la massima degradazione dell'essere umano, che, a quel punto, viola non soltanto la solidarietà elementare rispetto ai suoi simili, ma rende icasticamente anche la massima perversione e crudeltà: l'assenza totale di carità, per cui l'uomo divora il suo simile. Non è un caso se il cannibalismo fu una delle conseguenze dello stalinismo: a partire dal 1928, ma soprattutto nel 1931-32, il dittatore mise in pratica la sua "soluzione" al problema costante dell'approvvigionamento sulla base della convinzione che i contadini, infingardamente, nascondessero le granaglie; e, quindi, la "soluzione" significò inviare nelle campagne dei funzionari governativi che, come le cavallette, rapinavano ai contadini anche l'ultimo chicco di grano, anche le riserve contro la carestia conservate nello jam, la buca adibita a questo. La grande "carestia di Stalin", che provocò almeno 5 milioni di morti, è considerato il suo crimine più orrendo, perché lui, a differenza di altri dittatori che se la prendono con altri, annientò i suoi. Le regioni più colpite furono le terre nere delle fertilissime steppe del Sud della Russia e dell'Ucraina, dove, non a caso, si moltiplicarono gli episodi di cannibalismo. Ancora negli anni '90 fu giustiziato in Russia un serial -killer, colpevole di decine di delitti e che aveva compiuto anche questo: non sapeva che suo fratello era stato cannibalizzato dai vicini durante la carestia ed, evidentemente, riproduceva quanto la sua famiglia aveva subito. Non è un caso se il grande Aleksander Solzenitsyn, nel suo splendido romanzo Padiglione cancro, definisce Stalin "il Cannibale". Cannibalismo significa soprattutto che tra gli esseri umani non c'è più amore e che gli uni divorano gli altri: è su questa metafora che Truman Capote ha costruito il dramma Improvvisamente, l'estate scorsa, divenuto poi un celebre film di J.Mankiewicz con Elizaberh Taylor e Montgomery Clift.


In fin dei conti, da che mondo è mondo, cibo = amore. La prima cosa che desidero fare, per le persone che amo, è di solito cucinare per loro. A un livello molto più alto, c'è chi, anche in situazioni in cui ormai sembra che prevalga il "cannibalismo", sa farsi ostia e donare amore. E' il caso di padre Massimiliano Kolbe, la cui storia mi piace condividere con i miei studenti.
Padre Kolbe, francescano, era prigioniero ad Auschwitz nel 1941, quando il campo era ancora riservato ai Polacchi (gli Ebrei arrivarono alla fine dell'anno, in quello che poi divenne Auschwitz B; padre Kolbe era nella sezione A). Alla fine di luglio del 1941, nel blocco 14A fuggì un prigioniero e, immediatamente, gli aguzzini nazisti organizzarono una rappresaglia: dieci altri sarebbero morti al suo posto, nel bunker della fame (le esecuzioni non avvenivano più per fucilazione per non sprecare i proiettili). Costretti ad aspettare in piedi, sotto il cocente sole di luglio, la decisione del comandante, i prigionieri videro poi l'SS Fritzsch scegliere a caso dieci di loro: Dieser...dieser....dieser...L'ultimo condannato, Francesco Gajowniczek, si mise ai singhiozzare: - Mia moglie, i miei poveri bambini! Non li rivedrò più!- Allora, con calma, padre Massimiliano si fece avanti e, vincendo la paura della morte per fame, si offrì di prendere il suo posto; incredibilmente, Fritzsch accettò.
Fu così che Francesco fu salvo: nel 1982 era in piazza S.Pietro per la beatificazione di padre Kolbe; padre Massimiliano invece fu rinchiuso insieme agli altri nel bunker della fame, assistendoli uno per uno nella morte e rasserenandoli con la preghiera e con amore. Morì per ultimo, come aveva chiesto pregando, per una puntura di acido fenico il 14 agosto 1941, vigilia dell'Assunzione. Al posto della fame e dell'odio, per cui gli esseri umani si divorano gli uni gli altri, aveva vinto l'amore.


Bibliografia
Dante Alighieri, Divina Commedia. Inferno, cur. G.Giacalone, Roma, Signorelli, 1988.
O.Chlevnjuk, Stalin. Biografia d'un dittatore, Milano, Mondadori, 2016.
Padre L.Kluz, Kolbe e il comandante. Due uomini, due mondi, Bologna, Edizioni dell'Immacolata, 2001.

Qui il link del sito dedicato alla tragedia delle Ande
http://www.viven.com.uy/571/eng/default.asp

La storia come riportata (egregiamente) dalla Wikipedia italiana.
https://it.wikipedia.org/wiki/Disastro_aereo_delle_Ande

Il sito di S.Francesco di Pisa, con un'accurata relazione della storia del conte e delle indagini scientifiche sulla sua tomba:
http://www.sanfrancescopisa.it/la-tomba-del-conte-ugolino-della-gherardesca/

Articolo di Archeologia viva sui dubbi relativi all'appartenenza delle ossa presunte del conte Ugolino
http://www.archeologiaviva.it/2976/ugolino-della-gherardesca-cronaca-di-una-scoperta-annunciata/