giovedì 20 maggio 2021

Guarire l'autostima e i traumi...in modo inatteso

Guarire l’autostima e i traumi…in modo inatteso

Tutti noi abbiamo dei problemi di autostima: e ci sono delle mattine in cui, invece di alzarci, preferiremmo piuttosto sprofondare sotto al piumone. Del resto, traumi e disgrazie varie non aiutano certo a tirarci su di morale, anzi: spesso e volentieri le nostre frustrazioni quotidiane vanno a pungere vecchi punti dolenti, con l'effetto del sale sulle ferite. Si sa, la lingua batte dove il dente duole: quindi spesso il nocciolo del problema non sono i guai del presente, bensì i ricordi traumatici del passato. Ebbene, sfogliando la letteratura spirituale di qualche secolo fa, ho scoperto una cura paradossale ed efficacissima per l'autostima ferita: le mortificazioni. Mi immagino qui che i miei lettori sbraneranno tanto d'occhi a questa notizia, ma è proprio vero: proprio le mortificazioni, quelle che più ci affanniamo ad evitare, se impiegate in maniera adeguata costituiscono un grosso aiuto, anzi sono quelle pietre che sembrano sbarrarci il cammino, mentre invece, ci spianano la strada. Ça va sans dire, questo discorso può essere compreso meglio in un'ottica di fede e deve essere attuato senza eccessi: tuttavia, può sicuramente aiutare chiunque, agnostico o credente che sia.

Tutto comincia alcuni mesi fa, quando ho rispolverato alcuni consigli che la famosa mistica Santa Faustina Kowalska aveva ricevuto niente meno che dallo stesso Gesù misericordioso. È noto come le apparizioni a Santa Faustina siano state riconosciute ufficialmente dalla Chiesa, come siano all'origine della festa della Santissima Misericordia la prima domenica dopo Pasqua, festa inaugurata da San Giovanni Paolo II, ed è altrettanto noto come a Cracovia sorga un magnifico santuario dedicato proprio alla Divina Misericordia. Ebbene Gesù dava spesso a Santa Faustina dei consigli su come lottare contro il male, contro il peccato e contro il diavolo: tra questi ricordava molto la necessità di combattere contro il nostro orgoglio e il nostro egoismo e raccomandava, tra l’altro le mortificazioni.


Dapprincipio ero abbastanza dubbiosa al riguardo: mi ricordavo degli exploits dei cosiddetti “santi eroici” del 1600, che passavano da una penitenza terrificante all'altra e che sembravano quasi, nonostante la straordinaria buona volontà, inclinare verso il masochismo. Questo era lo stile della morale eroica ed aristocratica del tempo, che difatti si ritrova anche nelle tragedie seicentesche di Corneille; però, come potrebbe un consiglio del genere valere per un povero disgraziato come noi, che assomigliamo, chi più chi meno, al povero…Charlie Brown? Le mortificazioni intese in quel senso sono chiaramente improponibili, soprattutto per chi voglia vivere in maniera sana.


In realtà, ricordavo anche un altro stile, molto più alla portata di tutti. Mentre altri santi dell'epoca si davano a digiuni terrificanti, cilici, flagelli, veglie senza fine e così via, San Francesco di Sales intendeva la vita cristiana in modo molto diverso. Di nascita nobile, colto, intriso dell’Umanesimo, era stato scelto come vescovo di Ginevra agl’inizi del Seicento ed incaricato di riportare al cattolicesimo una regione ormai scivolata verso la Riforma: e lui era molto deciso a perseguire la sua missione, ma con dolcezza, con amore, senza l' intransigenza e la durezza cui parecchi si abbandonavano all'epoca da una parte e dall'altra. A causa della sua formazione e del suo buon senso, diffidava degli eccessi e riteneva che la vita cristiana dovesse essere alla portata di tutti e intrisa di amore, un amore adeguato alla semplicità della vita quotidiana. Non a caso, scrisse la
Filotea o Introduzione alla vita devota, un manualetto sulla vita cristiana adatto ai laici di ogni condizione, semplice, accessibile, adeguato alla quotidianità e che all'epoca andò a ruba come un vero bestseller. Ebbene, lui consigliava proprio di lottare contro il nostro orgoglio ed egoismo sfruttando le piccole mortificazioni che ci capitano durante la vita quotidiana; suggeriva così che questo era molto più importante di tutte le penitenze straordinarie cui indulgevano altri mistici, penitenze che, del resto, potevano portare esse stesse a un orgoglio patologico.


Si tratta quindi di sfruttare le piccole occasioni di mortificazione che ci capitano tutti i giorni e di sfruttarle al meglio. Io ci ho provato e gli effetti sono stati straordinari. Infatti, questo sistema mi ha permesso di guarire progressivamente da alcuni ricordi traumatici, di rafforzare la mia autostima e di consolidare la mia resistenza alle contrarietà e allo stress. Sono anche diventata più impermeabile all' opinione degli altri, di cui troppo spesso siamo dipendenti. Adesso faccio alcuni esempi per far capire di cosa sto parlando.

Immaginiamo uno screzio a un incrocio dopo che due macchine si sono scontrate. Uno dei due automobilisti provoca l'altro con delle parole poco lusinghiere e il secondo si sente ferito e insultato. Se però reagisce anche lui con gli insulti (grossa tentazione), non la si finisce più e si entra in un circolo vizioso: anzi, gli psicologi spiegano molto chiaramente che se sfoghiamo la rabbia, questa aumenta e la stessa cosa succede con le altre emozioni negative. Quindi va a finire che, se lasciamo loro spazio, esse ci trascinano dove non vogliamo. Ma noi possiamo governare le nostre emozioni: come? Usandole a fin di bene.


Immaginiamo allora che l'automobilista insultato, anche se avrebbe comprensibilmente voglia di affettare l'altro come una salamina da sugo (!), si dica fra sé: va bene, non reagisco in modo violento, mi limito a contenere l’altro; inoltre, preferisco offrire questa frustrazione per diminuire il mio egoismo e perché, con questo sacrificio, Dio possa aiutare delle persone che soffrono. Chiaramente, al momento si tratta di un sacrificio non indifferente e lui può pensare anche di passare per stupido; senonché, un po’ di tempo dopo, si accorgerà che quell'episodio non gli fa più male, che esso ha perso quel pungiglione che lo tormentava nell'intimo; non solo: si accorgerà anche che non gli importa della brutta figura, anzi che non c'è nessuna brutta figura di cui vergognarsi, perché avrà uno sguardo più lucido e capirà che gli astanti hanno correttamente valutato l'altro come un…somaro. Il nostro bravo automobilista potrebbe decidere di ripetere l'esperimento tutte le volte che gli viene rivolta una parola sgarbata: certo, deve imparare a reagire in maniera composta e assertiva (cioè a difendere i propri diritti con calma e fermezza, senza travalicare); ma soprattutto decide di non insistere per avere ragione a tutti i costi, tanto è inutile, bensì mira a usare quella momentanea frustrazione a fin di bene.


Ebbene, poco per volta si renderà conto che la sua autostima si consolida, che certe cose inutili non lo tormentano più, non lo preoccupano più e che ha sviluppato una maggiore indipendenza di giudizio e una visione più lucida della realtà, rimanendone stupito. Ma facciamo qualche altro esempio. Ogni piccola mortificazione della vita quotidiana, anche più ridotta di una lite al semaforo, può aiutare in questo processo di progressiva guarigione: una parola di incomprensione in famiglia, il ricordo di una brutta figura, che a volte ci tormenta come una specie di letto di spine, una parola sgarbata, una diversità di opinioni, un brutto ricordo di un’umiliazione subita, una delusione o anche una ferita interiore; tutto, ma veramente tutto può diventare occasione di esercizio in questo campo. Dapprincipio può sembrare spiacevole, ma in realtà tutti noi possediamo un orgoglio e un egoismo ben radicati, per cui abbiamo a disposizione molto spazio per questo tipo di esercizi; non a caso, La Rochefoucauld sosteneva:
Qualsiasi scoperta si sia fatta nel paese dell’amor proprio, vi restano ancora molte terre sconosciute. Se gli esseri umani fossero un po’ meno attaccati a loro stessi, ci sarebbe più pace nelle nostre vite.

Del resto, non si tratta assolutamente di fare gli zerbini o di subire ingiustizie in maniera masochistica, tutt'altro (e questo va sottolineato): noi possiamo e dobbiamo difendere i nostri diritti in maniera ferma e composta, assertiva; quello che rifiutiamo è la violenza, la prepotenza, l'arroganza, il puntiglio, il rancore, la mancanza di rispetto, la rabbia fine a se stessa. Piuttosto che indulgere a questi atteggiamenti negativi noi abbiamo di fronte un'altra strada: accettare la frustrazione che ci si presenta davanti e offrirla al Capo a fin di bene per migliorare noi stessi e per aiutare gli altri. 


I risultati di questi esercizi sono veramente notevoli: lo ribadisco, ho notato che la mia autostima si è rafforzata e che non avevo più paura di situazioni incresciose, che certi ricordi spiacevoli non mi ferivano più e, soprattutto, che alcuni traumi il cui ricordo era rimasto latente nel mio subconscio avevano smesso di tormentarmi. Infatti, l'accettazione li aveva rielaborati: quello che vi sto suggerendo (se eseguito in maniera proporzionata e con calma) funziona ottimamente anche dal punto di vista psicologico per la rielaborazione graduale dei traumi. Perché? La maggior parte di noi soffre a vari livelli di qualche problema postraumatico: un trauma irrisolto non è stato rielaborato dalla parte del cervello che è deputata a ciò, l'amigdala; in tal caso, il soggetto continua a soffrirne tutte le volte che incrocia qualcosa che gli ricorda quel trauma e lo fa riemergere. Semplicemente, la povera amigdala è andata in tilt perché il trauma era troppo grosso da digerire: e l'effetto è un po’ quello del disco rotto. Tuttavia, per rielaborare un trauma è fondamentale l'accettazione: eppure, la maggior parte di noi non riesce ad accettare i propri traumi e le loro conseguenze negative, quindi rimaniamo bloccati. Allora il trucco consiste proprio nel trovare un senso positivo ai nostri traumi e una maniera per usarli a fin di bene. Solo così il male diventa accettabile: a quel punto l' amigdala è in grado di metabolizzare il trauma, lo stocca ed esso smette di tormentare il nostro intimo.

 


Capisco che ciò sia più facile in una prospettiva di fede, ma non è un cammino precluso a nessuno; del resto, il buon uso delle mortificazioni aiuta molto anche e soprattutto perché l'emozione post-traumatica più nociva è la vergogna. La vergogna nasce automaticamente tutte le volte che subiamo un rifiuto, un abbandono o un tradimento, perché la nostra prima reazione automatica è di credere che quel rifiuto o abbandono sia avvenuto per colpa nostra, per qualcosa di sbagliato in noi, anche se non è vero; anzi, si può affermare che ogni privazione d'amore equivalga a vergogna. Purtroppo, la vergogna è l'emozione più pericolosa, perché minaccia di disintegrare il soggetto e di escluderlo dalla comunione con gli altri esseri umani: la vergogna è infatti un'emozione sociale, nasce dall’interazione con gli altri e ci colpisce tutte le volte che i nostri rapporti con gli altri non funzionano. Esistono persone in cui la vergogna ha scavato a tal punto che soffrono di vergogna cronica, cioè essa si è ingigantita a tal punto da schiacciarli e da provocare in loro problemi notevoli, come vari sintomi post-traumatici cronici e dissociativi. Al nocciolo dei traumi e della vergogna c’è sempre l'abbandono: perciò, trovare una maniera di metabolizzare tutto questo gradualmente equivale al lavoro che fanno certi terapeuti, i quali sminuzzano in mini-porzioni i ricordi traumatici per aiutare i pazienti a rielaborarli poco per volta. Si intende, i casi seri hanno sempre bisogno della consulenza di un terapeuta; ma questo esercizio dell’accettazione delle piccole mortificazioni a piccole dosi aiuta sicuramente a metabolizzare i traumi poco per volta usando le semplici possibilità che ci vengono dalla vita quotidiana.

Faccio un altro esempio più impegnativo dei precedenti perché il processo sia più chiaro. 

Molte ragazze faticano a trovare l'anima gemella (anche gli uomini a dire il vero), e di solito cadono tutte nel tranello di pensare che gli altri non le vogliono per colpa loro. Di solito, dietro questa idea cova qualche esperienza negativa fatta in famiglia e in passato: per come è strutturata la nostra famiglia occidentale è facile che le figlie femmine si sentano trascurate dal padre, anche senza colpa di quest’ultimo, per cui finiscono per trasferire questa loro impressione nel rapporto con gli altri uomini, continuando a soffrire di quel senso di abbandono primordiale. In questa maniera, possono gestire male il rapporto con gli uomini, rischiare di diventarne dipendenti, sentirsi abbandonate anche quando ciò non avviene, oppure subire un trattamento poco gentile anche quando dovrebbero staccare la spina, perdendo così la propria autostima. Purtroppo, gl’insuccessi nella vita sentimentale sono tra quelli che nella nostra società provocano in noi maggior dolore e maggiore vergogna, per cui tutto ciò risulta veramente difficile da metabolizzare.

Ma immaginiamo ora che una ragazza con questo problema accetti la frustrazione di essere in solitudine o di non aver trovato ancora l'uomo giusto, o altre frustrazioni del genere, con l'idea di prepararsi a una corretta vita di coppia, in cui le esigenze di entrambi si possano manifestare con armonia; immaginiamo che questa ragazza offra la sua delusione per chiedere al Capo di trovare la persona giusta e per aiutare altri a trovare la felicità; ebbene, dapprincipio potrà sembrare difficile accettare tutto questo, ma ben presto lei si renderà conto che la sua anima sta guarendo: sta guarendo dalle carenze di autostima, sta guarendo dalle ferite del passato, sta guarendo dal senso di abbandono che prova da così tanto tempo e sta guarendo dall’insicurezza, dal senso di dipendenza che prova nei confronti degli altri, dalla paura di stare da sola e da tutto ciò che la sminuisce davanti agli altri, dalla vergogna patologica, dal trauma, dal dolore. Parallelamente, guariscono anche i suoi rapporti con gli altri, rapporti che diventano così più sani e corretti, senza il masochismo di chi accetta l'inaccettabile pur di non rimanere da solo, senza arroganze inutili e controproducenti, senza disarmonie. Soprattutto si renderà conto come mai prima, che la sua sofferenza passata ha diritto di essere rispettata e riconosciuta: noi spesso e volentieri lottiamo con gli altri perché sentiamo che le nostre sofferenze non vengono riconosciute abbastanza; ma quando cominciamo ad adottare questo tipo di accettazione a fin di bene, siamo in grado di parlare delle nostre sofferenze a testa alta, con franchezza, con sicurezza di noi stessi. perché non abbiamo più bisogno del riconoscimento degli altri. Sappiamo nel profondo di noi stessi che è vero e ci basta. Quella ragazza si accorgerà infine che non è più sola: magari troverà la persona giusta, oppure il giovane che ama tornerà per sanare il rapporto con lei.

Tutti noi, chi più chi meno, soffriamo di dipendenza dal giudizio degli altri e le piccole mortificazioni usate a fin di bene ci aiutano ad assumere una maturità profonda e l'indipendenza dal rispetto umano che ci paralizza con lo sguardo altrui. Riceviamo allora quella che gli antichi cristiani consideravano una delle qualità basilari dei convertiti: la parresia, la franchezza. Riceviamo una rettitudine rinnovata; riscopriamo il coraggio; soprattutto, il coraggio di essere noi stessi. 

Capisco allora infine perché, nonostante le mortificazioni, i santi sono così equilibrati, sereni e privi di quella frenesia per il giudizio altrui di cui siamo pieni noi. Loro sono diventati veramente meno vulnerabili alle frustrazioni: di solito hanno veramente guarito le loro ferite a furia di lottare con l'egoismo. 

Lottare contro il nostro egoismo rafforza la nostra autostima perché non è altro che vivere l'amore in atto per imparare a uscire da noi stessi e a fare del bene con quello che abbiamo. Del resto, dal concime nascono i fiori: e non c'è meraviglia che non possa avvenire quando riusciamo a usare a fin di bene qualcosa che ci ha fatto soffrire. Viktor Frankl, il grande fondatore della logoterapia, curava i suoi pazienti proprio così, facendo loro scoprire il senso e l'utilità delle loro sofferenze: e diceva che l'uomo non è terrorizzato tanto dal dolore, quanto dal dolore senza senso. Lui uscì da Auschwitz dopo tre anni di prigionia e dopo aver perso nel lager tutta la sua famiglia; ma nel lager aveva imparato a curare in questa maniera i suoi compagni di prigionia, prezioso insegnamento che poi mise a frutto. Era pieno di vita, faceva del bene ai suoi pazienti in maniera meravigliosa e aveva una tale sete di vivere da imparare a gettarsi col paracadute a 80 anni!

Del resto, questa è la logica della Croce: è un atteggiamento molto diverso dal masochismo, è la volontà di usare al meglio quello che la vita ci pone davanti, così che la croce si trasforma con la resurrezione in albero fiorito. E dove non arriviamo noi, agisce il Cristo con la sua potenza di vita.

domenica 16 maggio 2021

"Le acque alte" di Eugenio Montale

 

"Le acque alte" di Eugenio Montale

Mi sono inginocchiato con delirante amore
Sulla fonte Castalia
Ma non un filo d’acqua rifletteva
La mia immagine.
 
Non ho veduto mai
Le acque dei piranha. Chi vi s’immerge
Torna alla riva scheletro scarnificato.
 
Eppure
Altre acque lavorano con noi,
per noi, su noi con un’indifferente
e mostruosa opera di recupero.
Le acque si riprendono
Ciò che hanno dato: le asseconda il loro
Invisibile doppio, il tempo; e un flaccido,
gonfio risciacquamento ci deruba
da quando lasciammo le pinne per mettere fuori gli arti,
una malformazione, una beffa che ci ha lasciato gravidi
di cattiva coscienza e responsabilità.

                                                       Le Cinque Terre, patria di E.Montale

Parve che la ribollente zavorra su cui mi affaccio,
rottami, casse, macchine ammassate
giù nel cortile,
la fumosa colata che se ne va
per conto suo e ignora la nostra esistenza,
parve che tutto questo fosse la prova del nove
che siamo qui per qualcosa un trabocchetto o uno scopo.
 
Parve, non pare…In altri tempi scoppiavano
Castagne sulla brace, brillava qualche lucignolo
Sui doni natalizi. Ora non piace più
Al demone delle acque darci atto che noi
Suoi spettatori e correi siamo pur sempre noi.
                                    (da Diario del ’72)

                                                         Tempesta di notte, Aivasovksij

Questa poesia di Eugenio Montale appartiene all’ultimo periodo del poeta, quello che inizia con la raccolta Satura (1971), un mélange di argomenti e stili vari, come allude il titolo; Satura, infatti, era il nome del genere letterario latino per eccellenza, la satira, caratterizzata fin dall’età arcaica dall’estrema varietà (non a caso, il termine deriva da satura lanx, il “piatto pieno” offerto nelle cerimonie agli dei). Varietà tematica, varietà stilistica, ma, soprattutto, un tono basso, dimesso, prosastico, in linea con la satira antica, sembra contrassegnare questo nuovo periodo montaliano, da quando il poeta appare sempre più disilluso di fronte alla marea di volgarità che incombe sulla cultura europea a causa del consumismo. Questo stile, sostanzialmente, non cambia nelle raccolte successive, fra cui, appunto, Diario del ’72.

Nel dattiloscritto originale del 1°/1/1972, questa poesia aveva ricevuto come titolo primitivo (e molto espressivo) Diluviale, allusione a una catastrofe incombente e all'antico diluvio. Difatti, essa insiste per tutta la sua lunghezza, che consta di versi liberi molto irregolari (un caso?), sull’immagine dell’acqua. Spesso lo dimentichiamo, ma  l’acqua è un elemento non solo salutare, legato alla freschezza, in grado di dissetare e purificare, ma anche minaccioso: già negli Ossi di seppia, Montale aveva dedicato un intero poemetto, suddiviso in 9 parti, a Mediterraneo, allegoria della durezza dell’esistenza. Qui il poeta gioca sul motivo dell’acqua per presentare delle immagini affini a quelle più terribili dell’elemento acquatico: l’acqua come diluvio, come massa inarrestabile e vorticosa, l’acqua metafora di una difficile condizione dell’esistenza, sempre più difficile dacché gli esseri umani si lasciano irretire dal miraggio dell’accumulo, del materialismo e del consumismo. Così non stupisce che, verso la fine, l’acqua diventi tristemente anche l'onda inquinata che si trascina dietro cumuli di spazzatura, come avviene del resto di vedere sempre più spesso. Ma andiamo per ordine.


Caos. Genesi di I.Aivasovskij
Nei primi 4 versi il poeta afferma di avere provato a rispecchiarsi, novello Narciso, nella fonte Castalia: preso da un delirante amore, probabilmente per la poesia, egli ha cercato così la propria immagine in quella che gli antichi consideravano la fonte di Apollo, datrice del dono della poesia, la sorgente che scaturiva tra le rocce Fedriadi nei pressi del tempio di Delfi e che, pare, era stata in origine una fanciulla amata dal dio. Eppure, in quell’acqua l’io lirico non si ritrova: il parallelo con Narciso lascia intendere che la sua pretesa era eccessiva, forse inutilmente vanitosa; il poeta, che ama di solito ironizzare sulle proprie velleità poetiche, si ritrova così, come al solito, alla casella d’inizio, privo di un’identità (quell’identità che non ha mai trovato e che lui ricavava, come afferma spesso negli Xenia, i componimenti dedicati alla moglie Drusilla, da un dono di lei). Tutto sommato, però, non gli è andata così male: lui non è stato neanche vittima dell’estremo opposto descritto nella seconda strofa, le acque dove i temibili piranha scarnificano ogni preda che incrociano. Modestamente, l’io lirico si ferma in mezzo, in una condizione forse di mediocrità.

Al centro della poesia, però, egli evoca altre acque che lavorano con noi, / per noi, su noi: sembrano le acque dell’Oceano, quello che, nell’antica mitologia greca circondava la terra e che altro non era se non l’estremo margine dell’abisso e del caos primordiale; sono le acque che evocano l’opera inesorabile della natura e del tempo, indifferenti agli esseri umani (qui si avverte forse un alito di Leopardi), quelle che si riprendono / ciò che hanno dato, cioè le onde che trasformano instancabilmente l’ambiente e gli esseri, erodendo, lisciando, ingoiando, assorbendo e riassorbendo, espressione dell’opera indifferente e mostruosa dell’universo. Questo lento, ma inesorabile flusso e riflusso, che tutto divora, è sia con noi, cioè ci accompagna nella vita, sia per noi, dato che, a volte, ce ne possiamo persino avvantaggiare, ma anche su noi: cioè ci sommerge. E sempre siamo in procinto di essere risucchiati anche noi, fin da quando abbiamo assunto la  condizione umana e ci siamo ritrovati corredati di arti invece che di pinne, lasciando la situazione animale e, soprattutto, acquatica. Forse, pare dire Montale nel suo cupo scetticismo, sarebbe stato meglio se fossimo rimasti con le pinne: la condizione umana gli appare una malformazione, una beffa, per cui siamo gravidi di responsabilità, perché siamo esseri dotati di consapevolezza, ma, purtroppo, anche di cattiva coscienza. Tanto ci pare promesso, tanto poco, anche per colpa nostra, riusciamo a raggiungere. 

                                                                    L'onda di I.Aivasovkij

La strofa successiva, anch’essa volutamente irregolare, ci presenta invece un flusso continuo di immondizia, che coinvolge il cortile della casa del poeta: è una delle tante immagini della spazzatura  che diventano, nei versi di Montale, simbolo della disfatta esistenziale del II Dopoguerra, quando comincia a prevalere un miope materialismo; un bel parallelo può essere Xenia II,14, L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili, ispirata all’alluvione di Firenze del 1966. Questo flusso che scorre del tutto incurante degli esseri umani (rottami, casse, macchine ammassate) dapprincipio doveva essere un segno positivo: di cosa? La prova del nove / che siamo qui per qualcosa. 

La poesia di Montale cerca sempre o la verità o il senso dell’esistenza: se pensiamo che la sua poetica era basata, negli anni ’30, sul correlativo oggettivo, cioè presentava in poesia oggetti che, alla maniera di T.Eliot, dovevano evocare pensieri ed emozioni, appare particolarmente triste il fatto che la poesia del Montale più tardo si trasformi in una ribollente zavorra di oggetti, un caos dell’assurdo, privo di un qualsiasi senso. E’ il naufragio della vita e della lirica: un poeta recente, Giorgio Linguaglossa, ha persino accusato Montale di avere aperto la via, con il suo stile tardo, aperto alla banalità del quotidiano e scettico, all’attuale crisi della poesia. Gli oggetti erano, una volta, “segno”: ai tempi delle Occasioni (1939), potevano essere la scintilla che porta scritto “più in là”, come sosteneva proprio lui in passato; ma ora tutto appare un possibile trabocchetto. E’ triste che, in fondo al verso, un trabocchetto o uno scopo siano messi sullo stesso piano, come se lo scetticismo, infine, prevalesse.

                                                                  L'onda di I.Aivasovkij

La forte anafora
parve rievoca il verbo che, una volta, nello Stilnovo, aveva il significato di manifestazione pressoché divina: Tanto gentil e tanto onesta pare, diceva Dante di Beatrice; ma Beatrice portava a Dio e Ne rappresentava la grazia. Montale ha amato lo Stilnovo e la promessa insita in esso di un “oltre” più luminoso. Ma ora parve, non pare…Il tempo delle rivelazioni sembra finito. In passato c’era una qualche luce, c’era la possibilità di un dono: il secondo verso di quest’ultima strofa evoca l’atmosfera semplice degl’inverni di campagna, quando si mettevano le castagne ad abbrustolire sulla brace e si accendevano i lumini di Natale (si noti la costruzione a chiasmo, che pone le luci delle braci e del verbo brillare al centro). Ora il demone delle acque, quel che forse Leopardi avrebbe chiamato “Arimane”, cioè l’entità impersonale e indifferente che sembra presiedere all’universo in cui vaghiamo, risucchiati senza una meta, il demone delle acque non ci vuole più riconoscere per quel che siamo. 

L’ultimo verso sigla la difficile ricerca di un’identità sicura, uno dei tormentoni di Montale: e anche se noi siamo spettatori e correi del caos mondano, non possiamo ritrovare un rispecchiamento, né un riconoscimento in quel demone delle acque, così come, all’inizio, l’io lirico non si riconosceva nella sorgente Castalia. L’anello si chiude e l’essere umano si ritrova in un’inesorabile condizione di alterità rispetto al mondo: né le acque della preziosa fonte Castalia, né il flusso caotico che tutto divora possono rispecchiarlo. Nonostante lo scetticismo, nonostante l’agnosticismo che proibisce a Montale di sperare – tanto che diventa, al termine della sua esistenza, sempre più dubbioso e pessimista – egli implicitamente sottolinea questa dignità irriducibile degli esseri umani, che, da quando hanno gli arti e non le pinne, hanno compiuto un salto gigantesco, specie in termini di responsabilità, rispetto al resto del cosmo inconsapevole. Mistero stupendo e tremendo a un tempo. Forse la speranza in Montale si ritrova non tanto nell’esterno dell’essere umano, trascinato dall’inesorabile rapina del tempo e dell’esistenza, quanto nel suo intimo, che pur sempre trascende il flusso caotico che tutto trascina.