lunedì 26 giugno 2017

Haiku - Poesie giapponesi


Haiku -Poesie giapponesi

Propongo qui alcune poesie giapponesi, scritte secondo il genere densissimo degli haiku: poesie di 3 versi e 17 sillabe (5-7-5), di soggetto prevalentemente naturale, ma di significato esistenziale. Sono fiorite in Giappone per secoli e sono ancora molto  popolari. Non offro qui il nome degli autori: le poesie sono tratte dall'antologia Haiku: il fiore della poesia giapponese da Basho all'Ottocento, pubblicato negli Oscar Mondadori.


Sera:
tra i fiori si spengono
rintocchi di campana

Malattia nel viaggio:
i miei sogni si librano
sui campi desolati.


C'è una meta
per il vento dell'inverno:
il rumore del mare.

Stanchezza:
entrando in una locanda,
i glicini.


Cade
nel buio del vecchio pozzo
una camelia.

In questo mondo
contempliamo i fiori:
sotto, l'inferno.


 Sera:
la bianca orchidea si nasconde
nel suo profumo

lunedì 19 giugno 2017

Montale, la spazzatura e la "Venere degli stracci" di M.Pistoletto



Montale, la spazzatura e la Venere degli stracci di M.Pistoletto

L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili, 
delle carte, dei quadri che stipavano 
un sotterraneo chiuso a doppio lucchetto. 
Forse hanno ciecamente lottato i marocchini
5 rossi, le sterminate dediche di Du Bos, 
il timbro a ceralacca con la barba di Ezra, 
il Valéry di Alain, l’originale 
dei Canti Orfici – e poi qualche pennello 
da barba, mille cianfrusaglie e tutte
10 le musiche di tuo fratello Silvio. 
Dieci, dodici giorni sotto un’atroce morsura 
di nafta e sterco. Certo hanno sofferto 
tanto prima di perdere la loro identità. 
Anch’io sono incrostato fino al collo se il mio
15 stato civile fu dubbio fin dall’inizio. 
Non torba m’ha assediato, ma gli eventi 
di una realtà incredibile e mai creduta. 
Di fronte ad essi il mio coraggio fu il primo 
dei tuoi prestiti e forse non l’hai mai saputo.


Questa poesia fu scritta il 27 novembre 1966, qualche settimana dopo la terribile alluvione di Firenze: lo scantinato di casa Montale, a Oltrarno, fu invaso dall'acqua sporca dell'Arno, insozzata da sporcizia e carburante sversato nell'acqua. Proprio dalla massa di oggetti (il pack, metafora che coglie la massa informe dei ricordi lasciati, si noti, chiusi in cantina e che vengono assimilati alla banchisa artica, al ghiaccio), da quella massa ormai sporca e irrecuperabile, Montale trae un simbolo potentissimo. Gli oggetti, nella sua poesia, parlano. Ed ecco qui una lunga serie di preziosi souvenirs, da intenditore: i "marocchini", cioè stampe con preziose rilegature rosse; i libri con dedica originale del critico francese Charles Du Bos, morto nel 1939 e amico del poeta; scritti del celebre poeta statunitense Ezra Pound, altro amico di Montale, morto nel 1972, e contrassegnati dal suo tipico sigillo; una pregiata edizione delle liriche di Paul Valéry, commentata dal critico Alain (Emile-Auguste Chartier, morto nel 1951); l'edizione originale dei Canti Orfici di Dino Campana. A proposito di quest'opera bisogna ricordarne la curiosa vicenda: gli editori della rivista Lacerba, Papini e Soffici, avevano perso la prima versione dell'opera di Campana, che dovette ricostruirla a memoria e pubblicarla così nel 1914; l'originale, una rarità, fu ritrovato nel 1971 e pubblicato nel 1973. 


Assieme ai cimeli d'autore, con un'iperbole degna di una cantina dove è ammassata molta roba, Montale parla di mille cianfrusaglie e poi di ricordi di famiglia come le musiche di Silvio Tanzi, il fratello morto giovane di Drusilla, la moglie del poeta. In quella cantina, chiusa gelosamente a doppio lucchetto, era chiusa una vita intera, in cui affetti e cultura si mescolavano in modo affascinante.  
Anche l'alluvione è un simbolo. Montale parla spesso di spazzatura e fango nella sua poesia del Dopoguerra: la civiltà del consumismo, che ha travolto tutto come un'alluvione, ha creato miseria morale e tanta sporcizia, tanta spazzatura, in cui bellezza e valori affondano e si perdono. Volgarità e sprezzo dell'essere umano diventano allora l'ordine del giorno. La successiva frase ellittica ricorda come tutto quel cumulo di ricordi sia rimasto immerso per giorni nell'acqua sporca: morsura rievoca finemente l'effetto corrosivo del liquido su quei preziosi oggetti. Questi ultimi, quasi umanizzati, hanno sofferto tanto prima di perdere la loro umanità (e si noti il forte enjambement che sottolinea sofferto). Memoria di un mondo vivo, di poesia, di raffinatezza fin de siècle o dell'era gloriosa della vita culturale d'ante-guerra, dell'epoca d'oro della poesia simbolista ed ermetica: nella lista degli oggetti perduti pare di riconoscere gl'interni preziosi in cui Montale si attardava con Clizia, fra marmi, mogani e stampe preziose, in poesie come La bufera o Nuove stanze. Tutto ora è affogato nella melma. 


Gli oggetti perduti, simbolo di un'identità culturale (la grande cultura europea amatissima da Montale), divengono così un potente correlativo oggettivo che esprime semplicemente anche la situazione dello stesso Montale: a livello esistenziale anche lui si interroga sul senso della propria esistenza e si descrive, con una metafora, come incrostato fino al collo. Perché lui ritrovava con tanta difficoltà se stesso? A causa degli eventi/ di una realtà incredibile e mai creduta (si noti la doppia litote creata dall'aggettivo negativo e dal mai): guerre, totalitarismi, orrori e poi il consumismo; dov'è il senso della vita? Le litoti esprimono spesso una visione negativa della realtà: come è noto, la filosofia montaliana è scettica sulla possibilità di risposte valide, sia a livello di conoscenza che di felicità, ma spera sempre in un varco. Per affrontare la vita, Montale ha attinto coraggio dalla moglie "Mosca": e forse lei non l'ha mai saputo. Pare di rileggere la Casa dei doganieri, in cui l'io lirico non poteva dialogare veramente con Annetta, la donna cui si rivolgeva, perché lei era morta e non aveva mai visto la casa dei doganieri; ora Mosca è morta, separata per sempre dal poeta e non si rende neanche conto (o forse non se ne è mai resa conto) di quanto sia stata importante per lui. L'incomunicabilità rimane il rischio onnipresente di ogni rapporto umano. La prosa semplice, dimessa, rende bene il posto umile toccato ormai in sorte alla  poesia in un mondo immerso nella spazzatura.


Questa poesia fu pubblicata per la prima volta nella rivista Strumenti critici del 1967 e, infine, al termine di Xenia II, le poesie dedicate alla moglie in Satura (raccolta del 1971). Nello stesso anno, Michelangelo Pistoletto porta a termine una celebre istallazione anch'essa dedicata alla riflessione sul consumismo e sulla spazzatura: la Venere degli stracci, oggi esposta al Castello di Rivoli. Si tratta di una delle prime manifestazioni di Arte povera (come la definì nello stesso anno il critico Germano Celant): il calco di una Venere, eseguita dallo scultore neoclassico Bertel Thorvaldsen su modello di tante Veneri antiche, viene posto di spalle, come se stesse per entrare dentro una massa di stracci. L'opera insiste sul contrasto tra la bellezza ideale della Venere e gli stracci, rimasuglio della spazzatura della civiltà consumistica. Ma anche la Venere arriva alla nostra civiltà "degradata": se per Platone le copie si allontanano progressivamente dall'originale e dall'essere, questa Venere è un calco che riproduce una scultura neoclassica, che, a sua volta, riproduce una statua classica: come dire, lontanissima dal'ideale greco (per di più, è la Venere che regge il pomo accordatole in premio da Paride). L'esposizione degli stracci richiama l'attenzione sulla"civiltà dello scarto" del nostro consumismo e a una sorta di recupero di quegli scarti: gli stracci diventano opera d'arte e portano dentro di sé i resti di esseri umani: l'arte  è povera in quanto attinge alla vita vera, alle cose di tutti i giorni (proprio come Montale, che attingeva agli oggetti per costruire i suoi simboli e che usava un discorso prosastico, quotidiano). Come in Montale la poesia parla della profondità della vita immiserita dalla volgarità dell'oggi, così in Pistoletto troviamo spazzatura, che riduce a scarto la vita, confrontata con la bellezza. La vita si contrappone all'ideale, oppure la bellezza classica al rifiuto e alla volgarità di oggi. 

venerdì 9 giugno 2017

L'infanzia, il trauma, Saba e la pittura di G.Celiberti


L'infanzia, il trauma, Saba e G.Celiberti


Umberto Saba stava regolarmente male. Durante la I Guerra Mondiale, da cittadino italiano (perché, per quanto triestino e straniero, discendeva dal padre, Ugo Edoardo Poli, di cittadinanza italiana) fu arruolato, ma non fu mai mandato al fronte perché crollò a causa di una crisi depressiva; e crisi depressive, nonché tentazioni suicide, si ripeterono nel corso della sua vita, così come i ricoveri, tanto che morì  in clinica a Gorizia nel 1957. Nel 1929, Saba entrò in terapia psicanalitica presso il dott.Edoardo Weiss (lo stesso medico che spedì Bruno Veneziani, il cognato di Svevo, a Vienna da Freud), una terapia che durò fino al 1931.


Saba si appassionò alla psicanalisi che per lui divenne un metodo per leggere la propria vita (non che migliorò molto, come al solito), la "verità che giace al fondo". E dalle sedute psicanalitiche emerse l'origine del suo disagio: l'assenza della figura paterna, che aveva abbandonato la famiglia prima della sua nascita; la drastica separazione dall'affettuosa Peppa Sabaz, la sua balia, vera figura materna, laddove la madre, Rachele Cohen, era severa ed anafettiva. Il dott.Weiss costituì una vera e propria figura paterna per il poeta, che gli dedicò la sezione Il piccolo Berto (dal soprannome datogli dalla sua balia) nel Canzoniere. Si tratta di poesie in cui il tema dell'infanzia si mescola a quello del passato dell'autore. Poesia e psicanalisi devono quindi riportare alla luce la "verità che giace al fondo" e che si cela in quel momento  fondamentale che è l'infanzia.


L'infanzia è una medaglia a due facce per Saba. E' il momento della gioia, della felicità ingenua, dell'affetto materno di Peppa; ma è anche il momento della costrizione, del dolore, della repressione operata dalla madre. Gioia e sofferenza sono il binomio, la contraddizione maggiore che si affaccia continuamente all'animo del poeta e che contraddistingue anche la sua infanzia. E vediamo ora una sua poesia caratteristica, Eroica, tratta da Il piccolo Berto:


                               Ecco el vapor che fuma,
                               che vien dalla montagna,
                               Addio papà e mama,
                               me toca de andar soldà.

Nella mia prima infanzia militare
schioppi e tamburi erano i miei giocattoli;
come gli altri una fiaba, io  la canzone
amavo udire dei coscritti.
                                               Quando
con sé mia madre poi mi volle, accanto
mi pose, a guardia, il timore. Vestito
più non mi vide da soldato, in visita
a noi venendo, la mia balia. Assidui
moniti udivo da mia madre; i casi
della sua vita, dolorosi e mesti.

E fu il bambino dalle calze celesti,
dagli occhi pieni di un muto rimprovero,
buono a sua madre e affettuoso. Schioppi
più non ebbi e tamburi. Ma nel cuore
io li celai; ma nel profondo cuore
furono un giorno i versi militari;
oggi sono altra cosa: il bel pensiero,
forse, onde resto in tanto strazio vivo.


Carlo Emilio Gadda, in Psicanalisi e letteratura, sosteneva simpaticamente che la Peppa fu il primo, vero, grande amore di Saba; tanto che la madre, gelosa, avrebbe deciso di allontanare il bambino presso una zia, in modo da fargli dimenticare "l'eterna Peppa".

L'incipit della poesia riporta una canzone militare che rinvia alla prima raccolta di Saba compresa nel Canzoniere, i Versi militari. Il piccolo Berto si esaltava alle immagini di guerra, agli "schioppi e tamburi", in rilievo nel v.2, paragonati dalla similitudine del v.3 a una "fiaba"; si esaltava alla "canzone...dei coscritti" dei vv.3-4. Come si noterà, la poesia di Saba scorre in modo semplice, lineare, quasi prosastico, senza pretese. Il poeta rifuggiva dagli artifici letterari. Se i primi 4 versi descrivono la passione infantile di Berto per la guerra, la seconda strofa rinvia invece al drastico mutamento indotto dal ritorno a casa dalla madre: la personificazione del timore diventa la nuova guardia del corpo del poeta bambino al v.7; allora, la balia in visita non vede più il piccolo Berto vestito da soldatino (si noti l'allitterazione in v), mentre tutto viene ricoperto dai lamenti della madre, lamenti che i due enjambements paiono prolungare.


Nella terza strofa è documentato il cambiamento di Berto: ora indossa "calze celesti", è "buono a sua madre e affettuoso", cioè represso e obbligato a una bontà di facciata, ma con gli occhi "pieni di un muto rimprovero". La frase negativa seguente segnala che il poeta non ebbe più i famosi "schioppi e tamburi": essi rimasero nel "cuore", una parola chiave per Saba, che indica il profondo dell'animo umano, la genuinità dei sentimenti. Nel cuore permane la fascinazione per le immagini e i versi militari: immagini e pensieri, di eroismo, gloria, vitalità, che rappresentano la parte più viva e autentica del poeta, quella che lo  mantiene "in tanto strazio vivo".
La poesia rileva così quella duplicità, tra eroismo e lamenti materni, vitalità e repressione, così tipica del poeta triestino. L'infanzia è allora un fondo autentico e genuino, cui ritornare per ritrovare la parte più vera di sé.

Ho trovato delle analogie tra Saba e l'opera di una grande artista contemporaneo, Giorgio Celiberti. Nato a Udine nel 1929, partecipa alla celebre Biennale di Venezia del 1948. Allievo di Emilio Vedova, si trasferisce poi a Parigi nei primi anni '50; quindi viaggia a Londra, negli USA, in Messico, a Cuba e in Venezuela e si interessa alle culture ed etnie più varie; quando ritorna, si stabilisce a Roma. E' animato da una costante sperimentazione, con materiali e generi differentissimi: pittura, affresco, ceramica, graffiti, scultura. 


Celiberti è perseguitato dall'insonnia: come racconta allo psichiatra Massimo Recalcati, all'alba si mormora: "Anche questa notte è vinta...". L'insonnia, sempre secondo Recalcati, così caratteristica di questo artista, è la lotta contro il buio delle tenebre, contro il male. Rimane nella veglia come forma di resistenza. Quando è cominciata questa insonnia? Forse, azzarda Recalcati, fin dal momento decisivo per l'arte di Celiberti, la visita, nel 1965, del campo di transito di Terezin: organizzato dai nazisti a 60 km da Praga, era nato per accogliere i bambini deportati e abbandonati lì in condizioni spaventose, nonostante la facciata impeccabile di "centro di accoglienza". Da lì i piccoli viaggiavano poi verso la morte: Auschwitz e altri campi di sterminio. Sui muri del lager, Celiberti vide i disegni dei bambini, le crocette che rappresentavano i giorni di prigionia, cuori, numeri, graffiti, farfalle e altri disegni (ma anche lettere come A, oppure T, Z, N del nome Terezin). 


Da quel momento in poi, Celiberti abbandonò la pittura precedente (Dopo non potevo più esercitarmi in temi tradizionali:  i paesaggi, le nature morte...) e, come se rivivesse un trauma, prese a ripetere ossessivamente nelle sue opere quei segni e quei graffiti: e se Saba, attraverso la psicanalisi, risaliva ai suoi traumi originari, li approfondiva tramite la poesia e li riproduceva in continuazione, così Celiberti prese a ripetere all'infinito attraverso l'arte i segni di quel trauma assoluto, di quel buio assoluto che è stato l'Olocausto, specie il massacro dei bambini. Difatti, il nero è immancabile nelle opere dell'artista. Il buio è l'assenza di Dio nel prevalere immenso del male.

Quello fu il momento più drammatico della mia storia di pittore … Ciò che producevo dopo la visita a Terezin sembrava non esprimere abbastanza il dolore profondo che provavo. Come se in quel momento fossi passato a vedere la vita dall’altra parte: dalla parte della verità, della tragedia, del dolore, dell’orrore, della vergogna di essere uomo e come tale responsabile di quello che era accaduto. Desideravo dare una risposta che non si servisse delle parole, perché le parole erano tutte inutili. Bisognava scavare dentro per trovare segni che rispondessero all’invocazione di quei bambini, che con i loro graffiti avevano lasciato una disperata domanda d’amore e anche di perdono. Hanno scritto delle poesie e fatto dei piccoli disegni rappresentanti farfalle, cuori, numeri. Ho cominciato così a dipingere le farfalle e i cuori in omaggio a quelle vittime innocenti”.


Entrambi gli artisti scavano nel profondo alla ricerca del male originario, entrambi recuperano la dimensione originaria dell'infanzia, come luogo di luce, di farfalle, di cuori; ma è anche un'infanzia tormentata dall'incomprensione, dalla mancanza d'amore (per Saba) o dalla violenza (per Celiberti e i bimbi di Terezin) degli adulti. Singolarmente, Saba, di origine ebraica (almeno per parte di madre) è stato perseguitato un po' come quei bambini ebrei tormentati a Terezin: ma ogni bambino sofferente è, in certo senso, in quei bambini annientati.  Laddove Saba vede insanabili contraddizioni, Celiberti riesce però a estrarre dal buio "un'alba": e così nei suoi quadri emergono il rosso dei cuori dei bambini e il bianco della luce ritrovata. 

domenica 4 giugno 2017

La storia d'amore tra Montale e "Mosca"


La storia d'amore tra Montale e Mosca

Montale compone e pubblica “Satura” negli anni ’70, in memoria della moglie, Drusilla Tanzi, detta “Mosca”, morta nel 1963. Il soprannome di lei era dovuto al fatto che era tremendamente miope, per cui indossava degli occhiali molto spessi, che la facevano parere una “mosca”. Mosca è stata una delle grandi figure - guida del poeta:e in Satura Montale insiste molto sul fatto che, paradossalmente, Mosca, per quanto fosse quasi cieca, "vedeva più in là", grazie alla sua perspicacia e intelligenza. Per questo, nel corso della raccolta, Montale insiste molto su un altro ambito sensoriale di Mosca: l'ascolto. Mosca sapeva ascoltare: e l'ascolto è una realtà più intima e profonda, che permette una conoscenza molto meno superficiale della realtà. In questo, Mosca era una guida. 

                                


Ovviamente, la poesia di Montale è profondamente filosofica ed esistenziale. Egli si pone continuamente la domanda, nei suoi versi, sul senso della vita e della realtà: non è raro anzi che parli di Dio e della Bibbia (come nella prima poesia qui citata), dell'esistenza dopo la morte, delle grandi questioni della vita.

Caro piccolo insetto
Che chiamavano mosca non so perché,
Stasera quasi al buio
Mentre leggevo il Deutero-isaia
sei ricomparsa accanto a me,
ma non avevi occhiali,
non potevi vedermi
né potevo io senza quel luccichio
riconoscere te nella foschia.



"Insetto": così era definita "Mosca": ma la sua piccolezza, paradossalmente, esalta la sua penetrazione, umana, psicologica, critica. Il poeta qui è rappresentato (è l'inizio di Xenia 1) mentre legge la Bibbia (il Deutero-isaia è la seconda parte, capitoli 40-55, del profeta Isaia): Montale amava leggere la Bibbia e porsi, così, quesiti esistenziali. A questo punto, egli immagina di vedersela accanto, come un fantasma, l'apparizione di una morta:  ma a causa della mancanza di occhiali (un oggetto indispensabile per vedere), che, a loro volta, permettevano al poeta di riconoscere la moglie dal loro luccichio, egli non può entrare in comunicazione con lei. L'atmosfera tra i due sposi rimane quindi quella (dolorosamente) dell'incomunicabilità; parrebbe che ciò sia dovuto al fatto che lei è ormai morta; ma questo riguarda, in Montale, un po' tutti gli esseri umani. 


Avevamo studiato per l'aldilà
un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
che siamo tutti già morti senza saperlo

Uno dei temi portanti della poesia di Montale è l'inconsistenza dell'esistere, un senso dell'esistenza che pare svanire nel nulla, la realtà della nostra stessa vita che sembra mera apparenza (si pensi qui a Schopenauer e alla grande filosofia critica del dubbio). Nel tentativo estremo di collegarsi con la moglie morta. Montale conclude che forse, paradossalmente, lo siamo tutti. 


Di qui alla critica delle vane apparenze, il passo è breve.

L'abbiamo rimpianto a lungo l'infilascarpe,
il cornetto di latta arrugginito ch'era
sempre con noi. Pareva un'indecenza portare
tra i similori e gli stucchi un tale orrore. 
Dev'essere al Danieli che ho scordato
di riporlo in valigia o nel sacchetto.
Hedia la cameriera lo buttò certo 
nel Canalazzo. E come avrei potuto
scrivere che cercassero quel pezzaccio di latta?
C'era un prestigio (il nostro) da salvare
e Hedia, la fedele, l'aveva fatto. 



L'infilascarpe di latta diventa un umile simbolo della concretezza della coppia Montale: paradossalmente, i coniugi lo hanno forse perso al Danieli, il più esclusivo e lussuoso albergo di Venezia (quasi un ossimoro). Con ironia, Montale suppone che la cameriera lo abbia buttato nel canale: e, per mantenere le apparenze (il mondo applaudiva il poeta insigne), lui non ha potuto recuperare quell'umile pezzo della sua vita con la moglie. Forse, lo rimpiange ancora, perché possedeva un valore incomparabile a quello materiale, un valore affettivo.

Non hai pensato mai di lasciar traccia
di te scrivendo prosa o versi. E fu
il tuo incanto - e dopo la mia nausea di me.
Fu pure il mio terrore: di esser poi
ricacciato da te nel gracidante
limo dei neoteroi. 



Nel rifiuto della realtà altisonante. Mosca comprendeva anche la poesia. La poesia del Novecento è in crisi: non pare più corrispondere alle tragedie del mondo, ma, soprattutto, sembra lontana, astratta, roboante, artificiale. Ecco perché Montale, in questa ultima fase della sua poesia, preferisce uno stile prosastico, da satura. E, difatti, qui la moglie pare aliena ai versi; questo fu il "suo incanto", il suo pregio; e poi (si noti il chiasmo, molto attento) ciò ha provocato nel poeta medesimo la nausea per se stesso. Ha percepito quindi tutto il lato artefatto de suoi versi, del suo ruolo di poeta. Il "dopo" in cui lui ancora vive si oppone, del resto, al "prima", quando viveva ancora lei. Il sicuro giudizio di Mosca potrebbe allora svelare l'inconsistenza del poeta: a appaiarlo alle rane che gracidano nel fango (metafora dei poeti pretenziosi attuali, tanti neoteroi, presuntuosi e pieni di boria, con il loro atteggiamento erudito, un po' come certi compagni di Catullo così definiti da Cicerone nel I sec.a.C.).
In Montale risiede questa ansia di vita semplice, per quanto acuita dal senso critico.

Al Saint James di Parigi dovrò chiedere
una camera "singola". (Non amano
i clienti spaiati). E così pure
nella falsa Bisanzio del tuo albergo
veneziano; per poi cercare subito
lo sgabuzzino delle telefoniste,
le tue amiche di sempre; e riportare,
esaurita la carica meccanica,
il desiderio di riaverti, fosse
pure in un solo gesto o un'abitudine. 



All'altisonante nome dell'albergo parigino si lega, nel v.2 la definizione, quasi burocratica, della prenotazione; e quella parentesi (Non amano i clienti spaiati) è tremenda: come se gli anonimi impiegati della reception fossero perfettamente indifferenti alla solitudine del poeta. Segue la metonimia (falsa Bisanzio, immagine di sfarzo decadente), che indica il celebre hotel Danieli di Venezia, altro luogo di sosta della coppia; e qui emerge l'altra grande caratteristica di Mosca, assieme alla semplicità e all'autoironia: la sua capacità di ascolto. Non per nulla, era diventata amica delle umili telefoniste. Per riavere un poco di lei, il poeta deve andarle a trovare e così, reso ormai un automa dal dolore, "si ricarica" per un po'. Come una volta Petrarca rivedeva il volto di Laura in quello di altre donne, così ora Montale, più prosaicamente, ma intensamente, cerca Mosca "in un solo gesto o un'abitudine". Questo verso rinvia alla dimensione quotidiana del rapporto, pluri-decennale, con la moglie, ormai perduta: lei che non credeva allo sfarzo, alle realtà altisonanti, ma rimaneva coi piedi per terra.

Il riferimento alle telefoniste ci rinvia alla dimensione fondamentale di Mosca, l'ascolto:

Ascoltare era il tuo solo modo di vedere.
Il conto del telefono si è ridotto a ben poco. 



Quante discussioni sulla bolletta del telefono paiono riemergere da questi umili due versi! Eppure, ne traspare anche tanto dolore. Molto volentieri, Montale pagherebbe ancora.

Riemersa da un'infinità di tempo
Celia la filippina ha telefonato
per aver tue notizie. Credo stia bene, dico,
forse meglio di prima. "Come, crede?
Non c'è più?". Forse più di prima, ma....
Celia, cerchi di intendere...
                                      Di là dal filo,
da Manila o da altra 
parola dell'atlante una balbuzie
impediva anche lei. E riagganciò di scatto. 




Attraverso il telefono, Mosca si era creata un largo giro di amicizie: esercitava comprensione ed empatia, anche nei confronti di persone lontanissime. Un giorno, dagli antipodi, chiama Celia, un'amica filippina. Il poliptoto dei verbi ("Credo"..."Come, crede?"; "Non c'è più?"..."Forse più di prima....") allude alla drammatica differenza di prospettive tra Celia ignara e il poeta immerso nel suo dolore. E lui accenna lievemente alla morte della moglie, come se non osasse affermarla. "Celia, cerchi d'intendere...". A quel punto, smettono di parlare entrambi e la comunicazione viene interrotta. Bruscamente.
La commozione che s'indovina da questi umili versi mi ricorda quella di cui la grande attrice Virna Lisi diede prova poco prima di morire: durante un'intervista per la Pasqua 2014, le fu chiesto come stesse dopo la morte recente del marito, cui lei era legatissima: e lei, soffocando a stento le lacrime e ingoiandole, rispose: "Non me lo dire!". Non si può dire il dolore provato quando si perde la vita della propria vita.


Non ho mai capito se io fossi
il tuo cane fedele e incimurrito
o tu lo fossi per me. 
Per gli altri no, eri un insetto miope
smarrito nel blabla
dell'alta società. Erano ingenui
quei furbi e non sapevano
di essere il tuo zimbello:
di essere visti anche al buio e smascherati
da un tuo senso infallibile, dal tuo
radar di pipistrello. 

Le metafore animali si moltiplicano qui (come in A mia moglie di Umberto Saba): non è ancora chiaro chi guidasse chi, nella coppia: il poeta la moglie (quasi cieca, per cui gli fungeva da cane) o lei lui? Gli altri, superficiali, la consideravano una realtà da nulla, un "insetto", miope, per di più (ritorna il motivo del senhal Mosca). Ma questi personaggi erano caratterizzati (onomatopea) da un inutile blabla: vuoti e tronfi, vengono invece reperiti subito da Mosca, che qui viene paragonata a un altro animale, infallibile: il pipistrello.


Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede. 
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr'occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, 
erano le tue. 

L'iperbole iniziale ci rivela tutta la lunghezza e l'intensità del rapporto tra Montale e la moglie: lui le ha fatto da guida per decenni: e ora, si trova il vuoto davanti a sé. Con un ossimoro egli osserva che il loro viaggio, metafora della vita, anche se lungo, è stato breve: e seguono delle metafore desunte dal linguaggio ferroviario, per indicare che il percorso di Montale prosegue ancora: ma lui non crede più alle apparenze. Sembrava che lui la guidasse: invece era il contrario: lei, benché miope, guidava lui.