venerdì 26 maggio 2017

Arte e poesia - Ungaretti e i Crocefissi di William Congdon


Cristo, pensoso palpito di Giuseppe Ungaretti e i Crocefissi di William Congdon

Possono poesia e arte essere messe a confronto? Certo, purché ognuna venga considerata secondo la propria cifra specifica. Vediamo ora un confronto insolito: una poesia di Ungaretti e i famosi Crocefissi dell'artista americano William Congdon. 




Fa piaga nel Tuo cuore

La somma del dolore
Che va spargendo sulla terra l'uomo;
Il Tuo cuore è la sede appassionata
Dell'amore non vano.

Cristo, pensoso palpito,

Astro incarnato nell'umane tenebre,
Fratello che t'immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l'uomo,
Santo, santo che soffri, 
Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo, Santo che soffri
Per liberare dalla morte i morti
E sorreggere noi infelici vivi,
D'un pianto solo mio non piango più,
Ecco, Ti chiamo, Santo, Santo che soffri. 



Questa poesia celeberrima fa parte della raccolta Il dolore, del 1947: in essa Ungaretti rievocava la morte del figlio Antonietto, quella del fratello Costantino e tutta l'immane sofferenza cui lui aveva assistito durante la Seconda Guerra Mondiale e l'occupazione di Roma. Tuttavia, anche qui la sofferenza trova un suo approdo nella speranza evocata dalla fede: e la forma diventa ancora più lineare e semplice, quasi intima, che in Sentimento del tempo, dove vigeva ancora un certo preziosismo simbolista. A dire il vero, questa è la terza parte della poesia Mio fiume anche Tu, dedicata all'occupazione di Roma e in cui il poeta invoca il Cristo. La poesia è suddivisa, come un poemetto, in tre sezioni e questa è la terza e conclusiva. 

La  poesia si apre con un'invocazione al Cristo (chiaramente il Crocefisso, anche se ciò rimane implicito) e con la metafora secondo cui il dolore umano, provocato dall'essere umano stesso, fa piaga nel cuore del Figlio di Dio (ricordate che il cuore di Gesù fu spaccato dalla lancia). Perché? Perché quel  cuore è sede di amore, un amore non vano (la litote contrappone l'amore cristico ad altri "vani", inutili e profani: sicuramente Petrarca avrebbe inserito nella lista la sua Laura, lui che usava questo aggettivo per indicare il suo vano errore). Cristo partecipa in tutto alla nostra sofferenza ed è indicato con una metafora come pensoso palpito: viene in mente l'ultimo battito del cuore prima della morte in croce, un po' come l'ultimo battito de La madre. Cristo è un cuore che palpita di amore. 




L'aggettivo pensoso dona alla compassione del Cristo un tono meditativo, per cui il Figlio di Dio prende su di sé la sofferenza umana. Quasi in  una specie di litania, Gesù viene descritto anche come astro incarnato nelle umane tenebre; i riferimenti biblici qui sono molteplici: si pensi al passo di Numeri 24,17, che annuncia "Una stella sorgerà da Giacobbe" e che tante volte è stato ripreso per la nascita di Gesù; pensiamo alla stella cometa e a canti come "Astro del ciel"; ma anche al Prologo del Vangelo di Giovanni: "la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta" (Gv. 1,5). Le tenebre evocano quelle del male in cui l'uomo è precipitato. 

Fratello indica che il Cristo partecipa della nostra sofferenza; e, successivamente, i versi liberi insistono su varie figure etimologiche: per riedificare / umanamente l'uomo gioca sulla radice di uomo, come a sottolineare il fatto che solo il Cristo, Uomo perfetto, può veramente ricostruire un'umanità sfigurata dal male; per liberare dalla morte i morti insiste sulla radice di morte, una morte dal molteplice significato (peccato, male, crudeltà, dolore, morte fisica e spirituale), e da cui solo Cristo libera, come fu di Lazzaro resuscitato; d'un pianto solo mio non piango più, riprende invece la radice di pianto, per ribadire il dolore in cui è immerso il poeta, costruendo un chiasmo per cui in Cristo il pianto non è più solitario. 


Ma è soprattutto l'anafora santo, santo che soffri, che ricompare più volte come un ritornello, ad attirare l'attenzione. "Santo" corrisponde all'ebraico qadosh che indica qualcosa che è stato messo da parte per Dio, "separato"; eppure, Cristo non è separato dalla nostra sofferenza, anzi, vi partecipa fino in fondo. La sua santità consiste proprio in questo: nell'essere stato "tenuto da parte" per offrire la Sua innocenza per amore. In questo è l'unico vero puro, innocente. Diceva un grande teologo svizzero, Maurice Zundel, che la risposta di Dio alla sofferenza umana è quella di scendere tra i sofferenti, in mezzo a loro, di condividere il nostro dolore: i versi di Ungaretti esprimono questa verità in pieno.




                                                               Morgentod Belsen C Camp

Sul lato artistico, la migliore traduzione di questa verità è adombrata dagli stupendi Crocefissi di uno dei più grandi artisti contemporanei, l'americano William Congdon. Nato a Providence, in Rhode Island, nel 1912, Congdon studiò a Yale, quindi pittura, viaggiò in Europa (amava molto i viaggi) e assorbì il meglio della tradizione nostrana. Durante la Seconda Guerra Mondiale fu autista di ambulanze per la Croce Rossa e, sicuramente, ne vide di tutti i colori; il disegno Morgentod Belsen C Camp (alla lettera, "la morte al mattino"), del 1945, traduce nelle sue forme spigolose e stilizzate l'incontro terrificante con la barbarie nazista e con le sue tracce nel lager di Bergen Belsen. Dopo la guerra fu a New York, dove entrò a far parte del gruppo dell'Espressionismo astratto: fra questi pittori, anche i celebri Pollock e Rothko. In quella corrente apprese anche nuove tecniche pittoriche, come il dripping portato alla fama da Pollock, o la colatura: il colore viene fatto sgocciolare, colare sulla tela e diventa non segno di qualcos'altro, ma espressione che ha valore di per se stessa. Negli anni '50, Congdon si trasferì a Venezia (dove conobbe Peggy Guggenheim), viaggiò moltissimo (fu anche nel Sahara) e continuò la sua linea espressiva astratta. 




Nel 1959, la svolta: ad Assisi (non a caso) si converte al cattolicesimo. Da quel momento comincia ossessivamente a dipingere una cosa sola: i suoi celeberrimi, intensi Crocefissi, il fulcro della raccolta della fondazione a lui intitolata a Milano (dove il pittore è morto nel 1998). Ma lui stesso ha affermato: 


Dipingo sempre il Crocefisso perché in questo sta tutto ciò che ho visto e vissuto sino al momento di dipingerlo, e tutto ciò che mai vedrò in futuro....Il soggetto del Crocefisso come il soggetto che contiene tutti gli altri. 


Il Crocefisso, per Congdon, riassume quindi in sé tutto: ricordiamo che la Croce è un simbolo ben più antico dell'uso cristiano, un simbolo che assomma in sé tutte le dimensioni (verticale, collegamento tra cielo e terra, orizzontale, per la realtà umana), tanto che S.Giustino le conferiva valenza cosmica e diceva che intorno alla Croce si organizza l'universo (l'asse terrestre e l'eclittica formano una croce: cfr. 1 Apologia 60, del II sec.); il simbolo della croce compare in Asia Minore addirittura nel 4.000 a.C.! Ma la Croce riassume in sé anche tutto il dolore del mondo: e nei quadri di Congdon Cristo e Croce finiscono per diventare un tutt'uno. Infine, per Congdon, il Crocefisso riassume la sua esperienza: i prigionieri e le vittime che aveva già rappresentato alla fine della guerra, come in Morgentod (avrete notato che questo ritratto sembra la testa riversa di un Crocefisso); tutta la sua vita quello cui ha sempre aspirato, il suo futuro. E' come se, arrivato a dipingere i suoi Crocefissi, egli avesse finalmente capito il senso della sua esistenza e i suoi dipinti illuminassero tutto il suo passato e il suo futuro. 



Ungaretti e Congdon hanno in comune l'esperienza della guerra, della Seconda Guerra Mondiale: entrambi vedono nel Crocefisso la sintesi di tutto il dolore dell'umanità, di cui il Cristo si carica, un dolore provocato dalla malvagità dell'essere umano; entrambi approdano a un'arte essenziale. In Congdon la figura del Cristo diventa sempre più ridotta, rappresentata da alcuni colpi di colore, dati a spatola, per raffigurare un'immagine umana sul  legno della croce; e se i Crocefissi iniziali conservano ancora tracce dell'iconografia tradizionale, man mano che va avanti, l'artista riduce sempre di più la figura del Cristo, sul nero dello sfondo (le tenebre! E le tenebre discesero davvero su Gerusalemme al momento della Crocefissione, simbolo delle tenebre del male); finché essa non si riduce a un'unica spatolata grigia, a stento distinguibile nel buio, come se l'immagine di Cristo affondasse sempre più nel buio. 



Non si vedono più mani, piedi, gambe, volto: si percepisce solo il capo reclinato di vittima, di agnello sacrificale, con i capelli riversi: l'essenza dell'immolazione. Santo, santo che soffri: pochi segni, poche parole, per una purificazione somma del dolore umano divenuto sacro. Ungaretti ha imparato a preservare la sacralità della parola poetica, riducendola all'essenziale, come quando scriveva le sue poesie telegrafiche sugl'incarti delle cartucce al fronte; Congdon per la sua arte sacra, riduce il segno al massimo, con l'essenzialità potente e intensissima dell'astrattismo; il dolore, per essere rappresentato davvero, non deve essere sbandierato, come avviene oggi in TV, ma vissuto con pudore, con ritrosia somma: perché è davvero troppo importante, è sacro, come le vittime che lo patiscono. 



Bibliografia

M.Cappellini - E.Sada, I sogni e la ragione 6. Dal Novecento ad oggi, Signorelli, p.139.
M.Recalcati, Il mistero delle cose. Nove ritratti d'artisti, Bologna, Feltrinelli, 2016, pp.106-25.

giovedì 25 maggio 2017

Notte in un giardino 3 - Night in a garden III


Notte in un giardino 3

Giardino antico,
custode dei mie segreti,
dimmi di quali passi
udirò il fruscio
prima dell'alba,
quando i sogni
diventan veri....


Dimmi chi ritornerà
nel silenzio dell'attesa,
tra il profumo delle fresie
e lo stillare quieto
di rugiada sopra l'erba.
Dimmi quando il cuore
sussulterà, riconoscendo
quel che mai è svanito
tra le nebbie della notte,
chi ritorna tra i rami
dei salici ondeggianti,
al vento leggero
che viene dal mare.


Night in a garden III

Ancient Garden,
Guardian of my secrets,
Tell me whose steps
I'll hear the rustle
before dawn,
When dreams
Become true ....


Tell me who will come back
In the waiting silence,
Amid the scent of fresias
And the dew quietly
Dropping over the grass.
Tell me when the heart
Will give a start,
Acknowledging
What never vanished
In the mists of the night,
Who is returning
between the branches
Of swaying willows,
In the light wind
Coming from the sea (ADF).


mercoledì 24 maggio 2017

"La madre" di Giuseppe Ungaretti



Lettura de "La madre" Di G.Ungaretti

E il cuore quando d'un ultimo battito
avrà fatto cadere il muro d'ombra
per condurmi, Madre, sino al Signore,
come  una volta mi darai la mano.

In ginocchio, decisa,
sarai una statua davanti all'eterno,
come già ti vedeva
quando eri ancora in vita.

Alzerai tremante le vecchie braccia,
come quando spirasti
dicendo: Mio Dio, eccomi.

E solo quando m'avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.

Ricorderai d'avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi  un rapido sospiro. 



Mia mamma mi raccontava che la maggior parte delle persone, poco prima di spirare, pronuncia come ultime parole "Dio, mamma!". Sono gli amori più grandi: Dio, la mamma. Forse questo incipit è il commento migliore per la poesia che Giuseppe Ungaretti compose nel 1930, dopo che la madre era morta, nel 1926. Se non ci fosse stata la signora Maria Lunardini, non avremmo neanche Ungaretti, non solo il poeta in carne ed ossa, ma anche le sue poesie: difatti, quando lei rimase vedova e il bambino aveva solo 2 anni, nel 1890 (il marito Antonio era  morto di una malattia professionale, contratta mentre lavorava a Suez), la signora Maria continuò strenuamente a lavorare al forno di famiglia, per garantire al figlio degli ottimi studi. E, difatti, Giuseppe poté frequentare ad Alessandria la scuola svizzera Jacot: da lì poi il salto per Parigi e la sua cultura cosmopolita.


La poesia riecheggia anche la recente conversione di Ungaretti al cattolicesimo: come tanti intellettuali del Primo Dopoguerra, anche lui visse il cosiddetto "ritorno all'ordine", l'abbandono delle provocazioni d'avanguardia, dell'estremismo politico, per posizioni più conservatrici e rispettose della tradizione, anche a livello di stile. Non pochi (come Marinetti) riscoprirono pure la fede. Di quella fede ritrovata è permeata la raccolta Sentimento del tempo, del 1933, che indugia spesso sul senso dello scorrere del tempo, la dimensione interiore dell'esistenza: il tempo misura l'interiorità, come diceva S.Agostino, il tempo è durata in quanto dimensione dell'inarrestabile vicenda interiore, come sosteneva Henri Bergson, le cui lezioni Ungaretti seguì alla Sorbona; e il tempo, il suo fluire inarrestabile, dal passato al futuro e viceversa, è protagonista anche in questa poesia.

La conversione di Ungaretti affonda le sue radici nel passato di trincea, quando, sperduto di fronte all'immenso dolore cui assisteva, il poeta si chiedeva (cfr. Dannazione, 1916, poesia dell'Allegria):

Chiuso tra cose mortali
(anche il cielo stellato finirà)
perché bramo Dio?



Pare di avvertire un'eco di Kant, che amava  pensare al cielo stellato sopra di lui e alla morale dentro di sé. Durante la Belle Epoque, Ungaretti conobbe l'anarchia e il socialismo, il fascino del (falso) messianismo dei movimenti politici, convinti di spazzare via le ingiustizie con mezzi umani; ma si accorse che non bastava. E poi venne la guerra, la guerra da lui, come da tanti altri, voluta, convinti com'erano che sarebbe stata l'ultima: e, invece, fu l'orrore. Dalle ceneri della disillusione e dell'orrore, nacque un nuovo anelito; dai travagli e peccati di gioventù, una nuova consapevolezza. E ora, nel 1930, ecco che quella consapevolezza affiora nel ricordo commosso della madre ormai morta.

La poesia comincia con la congiunzione "e", come se proseguisse un discorso già avviato: è la vita, che non finisce al momento in cui si spira: viene in mente che le persone sopravvissute a un arresto cardiaco, affermano di non avere avuto coscienza di alcun "trapasso", di essere morte. L'ultimo battito del cuore pare abbattere, come per una metafora insolita, il "muro d'ombra" (analogia) che separa la vita dall'aldilà: davanti agli occhi del lettore si spalanca uno spazio immenso e misterioso, soffuso di luce (per antifrasi con il muro d'ombra) dove il poeta è atteso dalla madre e dall'Eterno (come sarà di ognuno di noi).


La mamma di Ungaretti allora lo prende per mano: il gesto più bello, più dolce che tutti ricordano di una madre, il gesto di colei che sostiene, che avvia verso la vita. Questa volta, la mamma di Ungaretti lo sostiene per avviarlo verso la vita che non finisce. Una sottile similitudine introduce al lettore il ricordo di quando la signora Maria prendeva, una volta, la mano del piccolo Giuseppe per sorreggerlo nei suoi primi passi. La poesia, difatti, è costruita su di una serie di similitudini temporali, per cui l'atteggiamento che, in futuro, avrebbe avuto sicuramente la mamma di Ungaretti al momento del trapasso del poeta, rievoca momenti della sua vita, con un effetto solenne: un giorno gli darà la mano, come faceva quando lui era bambino (che tenerezza!); lei rimarrà in ginocchio davanti a Dio, a intercedere per il figlio, come faceva da viva; alzerà le braccia in gesto di supplica, come quando è morta. La coscienza del poeta pare "danzare" liberamente, soavemente, attraverso il tempo, avanti e indietro, secondo i meandri della memoria e della coscienza, esaltando la dimensione temporale e interiore che è propria giusto della raccolta Sentimento del tempo. 



Il tutto per esaltare la figura della madre. In epoca fascista la madre veniva molto celebrata, spesso in maniera retorica e artificiosa, oppure melensa, secondo i programmi delle autorità, volti a incoraggiare la ripresa demografica: ma qui ci troviamo di fronte a qualcosa di molto diverso, di più intimo e sostanziale. La mamma di Ungaretti intercederà per il figlio immobile davanti a Dio come una statua: la similitudine sottolinea l'inamovibilità della donna, che non smetterà mai di intercedere per il figlio, finché non otterrà da Dio misericordia. Viene in mente Mosé, che rimaneva sulla breccia a intercedere per il popolo ebraico (spesso fedifrago: vedi Sal. 106,23); viene in mente soprattutto, la Madonna. Anche nel seguito, la vecchia madre di Ungaretti viene descritta mentre innalza le braccia verso Dio, nell'atto che l'arte cristiana antica conosceva come la figura dell'"orante". E' la posa dell'intercessione: in un passo della Bibbia, Mosé la mantiene per garantire la vittoria degli Ebrei contro il re Amalek e, quando abbassa le braccia, Israele rischia la sconfitta (cfr.Es. 17,8-13). Allora Giosuè e Nun si appostano vicino a lui e gli sostengono le braccia. Ma è soprattutto Maria che viene ritratta spesso nella tipica posa dell'orante. Del resto è sempre Maria a essere richiamata con quell'eccomi, come all'Annunciazione (cfr.Lc.1,37); anche Samuele aveva risposto alla chiamata notturna di Dio "eccomi" (cfr. 1Sam. 3,3-10): ma la Madonna è sicuramente un parallelo ancora più persuasivo per la madre del poeta .


Le madri attendono, attendono tanto. L'attesa è sinonimo di amore che non si arrende, amore senza limiti. Mi viene in mente un racconto di mia mamma. Al suo paese una signora aveva perduto il figlio, disperso, nella campagna di Russia. Non si sapeva che fine avesse fatto il ragazzo. Eppure sua madre ne udiva i passi tutte le notti: e, nel buio, ad ogni passo pareva accendersi un lumicino. La madre, annientata dal dolore, lo attendeva sempre, tutte le sere. Anche qui Ungaretti è stato tanto atteso dalla madre: c'è l'eco dell'innocenza perduta qui, tanto frequente in Ungaretti, della nostalgia per l'innocenza perduta; il poeta è un umile peccatore che arriva, appesantito dal male commesso, alle soglie dell'eterno. Spera di purificarsi a contatto con la fede intrepida della madre. Quando lei lo vede, infine, le passa negli occhi un rapido sospiro: la sinestesia finale evoca il dolore dell'attesa, del sapere che il figlio si stava traviando, ma anche la percezione che ormai è salvo, finalmente. La madre tanto ha sospirato, ma ora è finita e di quel dolore è rimasto solo un evanescente barlume.

E solo quando m'avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.
Commentando in classe questa poesia mi sono chiesta se non vi fosse qui un'eco della vicenda di Orfeo. Secondo i miei ragazzi forse. In Virgilio e Ovidio il poeta mitico ritorna nell'Ade per ritrovare la sposa e ricondurla alla vita: ma, dopo aver ottenuto con le sue melodie il permesso degli dei inferi, alla condizione di non voltarsi a guardarla prima di essere giunto nel mondo terreno, egli non sa resistere e la perde per sempre. L'atto caratteristico è quello di voltarsi a guardare la persona amata: e qui è praticamente quel che fa la madre del poeta dopo aver vista esaudita la  propria preghiera. Ma la vicenda è rovesciata rispetto ad quella di Orfeo: è lei, nell'aldilà, che si volta a guardare il figlio che l'ha raggiunta: e la vita vera è là, al cospetto dell'Eterno. Inoltre, la preghiera di lei è stata esaudita. Non siamo più al cospetto dei crudeli dei inferi pagani: qui domina un Dio di misericordia, evocato dalla tenerezza materna. Una tenerezza che non passa, neanche con la morte.

Cfr. M.Cappellini - E.Sada, I sogni e la ragione 6, pp.137-38.
Quando Ungaretti credette, Aleteia, https://it.aleteia.org/2015/03/06/quando-ungaretti-credette/


lunedì 1 maggio 2017

Come vincere i pensieri negativi e la paura



Come vincere i pensieri negativi

"Non ne sarai mai capace, sei un buono a nulla, non andrà mai bene, sei sempre il solito, va sempre tutto alla rovescia....". Mi fermo perché tutti conosciamo questa sfilza di litanie negative, che ognuno di noi si è sentito dire almeno  una volta. Il problema è quando queste frasi, come un mantra imbottito di esplosivo, ci aleggiano in testa senza la possibilità che se ne vadano, eco di discorsi che abbiamo udito da altri. Sono i famosi pensieri automatici negativi: ci perseguitano come il conte Dracula e ci segano le gambe proprio quando avremmo bisogno di autostima e fiducia in noi stessi per affrontare delle sfide. Come vincerli? 
Qui offro alcune strategie che ho scoperto.



Cacciarli? Di solito ritornano, più insistenti di una zanzara. Combatterli? Idem con patatine: reagiscono alla lotta con maggiore resistenza. La psicologa americana Rory Raye, però, nel quadro della sua attività di terapeuta di coppia, offre questa alternativa: vi viene un pensiero negativo? Abbracciatelo e accoglietelo con amore. Però poi, con calma, ribattete: "Capisco che lo dici per il mio bene, ti voglio bene, ma non posso seguire quello che dici. Ho deciso altrimenti". Immaginiamo, per esempio, che uno studente si senta un incapace. Dovrà allora dire a quella parte di se stesso che lo definisce un incapace: "Ti voglio bene, ma non posso seguire quello che dici".



Si tratta di parlare con se stessi proprio come a un'altra persona. Perché? Perché queste frasi derivano, SEMPRE, da altre che ci sono state dette (decine di volte...) da persone che avrebbero dovuto volerci bene: genitori, parenti, educatori...Sono quelle frasi distruttive che la gente dice in buona fede (anche se non sempre), ma a vanvera, perché è schiava di un disfattismo abbastanza diffuso e della mania di non vedere il lato positivo. Ma il lato positivo c'è. Lottare contro queste frasi con la forza potrebbe implicare anche pensieri di astio nei confronti di chi le ha usate per la prima volta con noi. E l'astio rovina. Senza contare poi che noi stessi abbiamo accolto queste frasi dentro di noi e una parte di noi, quella oscura, ce le ripete. Come possiamo allora provare astio contro noi stessi? L'accoglienza e l'amore sono molto più benefici e guariscono. 



Del resto, poco per volta, con questo esercizio può affermarsi in noi la sana abitudine di non dar retta a questi pensieri, con calma. Perché? Se ci riflettiamo, ci renderemo conto che la maggior parte di questi pensieri automatici negativi viene anche da un altro fattore potentissimo: la paura. E non di rado, educatori, genitori ecc. ci inculcano la paura perché pensano così di proteggerci o di aiutarci. Non funziona, ma, quando impiegano questi messaggi negativi, spesso lo fanno così in buona fede. 
Però...la paura non dice mai la verità. E questi pensieri negativi sono sempre falsi. 



                                              "Siamo tutti come stelle..." diceva una canzone...

Infatti, sono generalizzazioni, prive di fondamento. Ad esempio, nessuno è un incapace. Possiamo essere poco allenati, aver lavorato poco, esserci esercitati poco: ma tutti hanno delle capacità. I "sempre" o i "mai", le visioni in bianco e nero, con l'accetta, sono SEMPRE (qui vale la pena di usare questo avverbio) FALSE. La realtà è molto più sfumata e piena di possibilità. La paura serve in caso di pericolo immediato, come succedeva ai nostri progenitori nelle caverne (se c'era la tigre in fondo...). Ma vivere di paure è distruttivo. Inutile e distruttivo. Come dice una frase che ho trovato qualche giorno fa, a furia di paure, non seguiamo i  nostri sogni; e mentre seguiamo la paura, finiamo per non vivere. Ogni insuccesso è parziale: continuando a tentare, possiamo sempre farcela. Ogni giorno è un nuovo giorno.

Bibliografia

R.Raye, Have the Relationship you want, Amare Inc. 2014. 
I.Nazare-Aga, Les manipulateurs sont parmi nous, Parigi, Ed.  del'Homme, 2004 (sulle generalizzazioni, che rientrano  nella manipolazione affettiva).


Notte in un giardino 2 - Night in a garden II


Notte in un giardino 2

Segreti
sussurrano in mezzo al bosco,
fiori di fragola
parlano alla luna,
che mostra sottile
un cammino sul sentiero...
Mormora l'acqua della fonte
e ne scivola l'argento
sull'edera che ondeggia,
mi aspetta qualcosa
d'indefinito in fondo:
seguirò il sospiro del mio cuore,
troverò la strada
nella magia del buio.


Night in a garden II

Secrets
Whisper amid the woods,
Strawberry flowers
Talk to the moon,
Showing
A thin path on the trail ...
The source water murmurs
And its silver slides
On the waving ivy,
Something indefinite
awaits me at the end:
I will follow the sigh of my heart,
I will find the way
In the magic of darkness.