domenica 31 gennaio 2016

L'oste dell'ultima ora (V.M.Manfredi, 2015)


L'oste dell'ultima ora

Questo racconto lungo è l'ultima fatica, a mia conoscenza, del famoso archeologo scrittore, attivo anche nel cinema e in TV. La vicenda prende lo spunto dal celebre episodio delle "Nozze di Cana" (cfr. Giovanni 2) e si inventa, con la consueta competenza storica, un intreccio sullo sfondo dell'episodio evangelico e un personaggio che potrebbe avervi preso parte. In realtà, questo è il primo libro dedicato alla cultura del vino nei grandi autori e pubblicato da un marchio che lega enogastronomia e attività editoriale, la Wingsbert House, appartenente alla compagnia editoriale Aliberti, per cui il tema è scontato.
Siamo nella Palestina governata dai Romani nei primi decenni dell'era volgare e l'io narrante, di cui ignoriamo il nome fino alla fine, si sposta tra Galilea e Samaria, poi Giudea (le tre zone principali della terra d'Israele), tra varie difficoltà economiche e sociali, in cerca di lavoro e di un'opportunità per costruirsi una vita decente e sbarcare il lunario. Dopo aver tentato vanamente il mestiere di pescatore, approda alla fattoria di un Samaritano, Eleazar, e qui comincia a lavorare nella sua vigna (immagine di grande densità evangelica e biblica). Il protagonista è un Giudeo, quindi egli ha occasione di notare come i Samaritani non siano quei "cani" che tutti descrivono: ne apprezza l'umanità e il buon cuore.


Poi, nello sforzo di consolidare la propria posizione, il protagonista decide di mettersi in proprio e di diventare oste, vendendo il vino acquistato all'ingrosso da Eleazar (si osservi l'incoraggiamento benevolo da parte di quest'ultimo, quasi un padre). E' proprio durante il suo lavoro di oste, che l'io narrante entra in contatto con un gruppo di dodici persone, capeggiate da un singolare profeta dalla voce "chiara e sonora": una voce che gli lascerà in cuore un solco di nostalgia, così come il miracolo cui l'uomo assiste e su cui continuerà a interrogarsi. L'incontro con il "profeta" non gli cambia la vita, ma gli lascia tanti interrogativi....
Il bel racconto è accuratamente costruito: chi, come me, non è digiuno di conoscenze sulla storia antica, specie di età neo-testamentaria, rimane ammirato dalla competenza indiscussa dell'autore, che emerge sottilmente a ogni pagina; viene ricordato persino il massacro del monte Garizim, ordinato da Ponzio Pilato nel 36 d.C. durante una rivolta locale e che gli costò il posto, proprio mentre a Roma moriva l'imperatore Tiberio. Inoltre, è godibilissima l'eleganza della scrittura. La rievocazione del miracolo segue fedelmente il racconto evangelico e non sfocia nell'enfasi: eppure, chi legge forse avrebbe gradito che essa lasciasse nella vicenda una traccia più profonda, che fosse più percepibile la novità di quell'evento fuori del comune, specie nel cuore di chi vi aveva assistito. Qui esso, a dire il vero, pare un poco..."annacquato".
Tuttavia, L'oste dell'ultima ora è un gran bel racconto, raffinato, ben ordito, e forse molto più profondo di quanto appaia di primo acchito: quel titolo, così affascinante, pare alludere a un'altra pagina evangelica che ha a che fare con le vigne, la parabola dei servitori chiamati a lavorare appunto nella vigna (cfr. Matteo 20, 1-6):
Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Accordatosi con loro per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano sulla piazza disoccupati e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna; quello che è giusto ve lo darò. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano là e disse loro: Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi? Gli risposero: Perché nessuno ci ha presi a giornata. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna.
Forse anche l'oste di questo racconto è stato chiamato all'ultimo momento e, fino alla fine, rimugina quella chiamata rimasta ancora in sospeso; viene da chiedersi infine: risponderà?


                                                        P.Veronese, Le nozze di Cana

Manipolatori e incoerenza. 3 parte (il ritorno....)


Manipolatori e incoerenza 3 parte

Ecco qui finalmente (e dopo lunga e penosa malattia) il post dedicato a Gruppio!
Introduzione
C'era una volta una distinta signora che si vantava di essere così ecologista, che, quando i suoi bambini avevano una cartaccia  in mano, lei li costringeva a tenerla tra le dita finché la famigliola non avesse trovato un cestino...Peccato però che lei fosse la prima a insistere, quando erano in auto tutti insieme, affinché i bambini buttassero le carte dal finestrino!

Secondo aneddoto. Una casalinga aveva un'ospite, un'anziana signora molto pedissequa, che risciacquava le pentole prima di usarle anche se, ovviamente, erano pulite, per paura che ci fosse rimasto dentro qualche granello di polvere. La casalinga, che si vantava pure lei di essere molto attenta, al racconto dell'ospite esclamò subito che anche lei lo faceva sempre! E da quel giorno si mise a risciacquare le pentole prima di metterle sul fuoco. Ma, i suoi familiari lo sapevano, a differenza di quanto sosteneva, non lo aveva mai fatto prima....

Eccoci qui per una terza parte sul tema "Manipolatori e incoerenza", su invito espresso di alcuni miei allievi: infatti, io credevo di aver concluso il soggetto con la puntata numero 2, ma il mio Gruppio, di 4O, ha gradito a tal punto che mi ha esplicitamente richiesto una puntata numero 3. E, dato che il materiale sul soggetto abbonda (!) eccomi cui a ottemperare alla sua richiesta: con vero piacere. Quindi, questa terza parte (sta diventando una telenovela!) è dedicata (con affetto) al nostro Gruppio.  

La mia introduzione riporta due esempi a caso che possono chiarire che cosa s'intende per incoerenza: qui abbiamo una forma d'incoerenza tra azione e valori professati e una "cronologica" (si veda il post 2). Una persona sana non agisce così: e l'incoerenza è uno dei segnali d'allarme più notevoli che c'è qualcosa che non va nel comportamento. Nei manipolatori e nelle personalità patologiche, a mio vedere, non manca mai. Ma questa volta, vorrei riflettere, per così dire, più in profondità sull'argomento, andando oltre gli esempi.

Quando abbiamo bisogno di capire gli altri...

Quando ho cominciato la mia attività di volontariato nel braccio della morte e in carcere, mi sono resa conto subito che bisognava disporre di strumenti validi per valutare le persone di quell'ambiente in maniera oggettiva. In carcere, bisogna imparare a guardarsi le spalle e non solo da certi detenuti (esistono brave persone anche là dentro, ve lo assicuro): alle volte è necessario stare attenti anche a chi circola intorno al carcere. Ho imparato che è bene non lasciarsi andare troppo alle chiacchiere, per esempio, nelle sale d'attesa oppure nel cortile d'accesso a un penitenziario: talora i visitatori sono meno affidabili (molto meno) dei carcerati. Del resto, mi è bastato a volte dover confidare che svolgevo questo tipo di attività, per assistere, anche in persone "per bene" di "fuori", a bruschi voltafaccia: neanche fossi un'appestata.
Insomma, la descrizione dei manipolatori per me si è rivelata una manna: nessuno ha intenzione di giudicare gli altri, ma, semplicemente, abbiamo bisogno di criteri solidi per capire se possiamo fidarci di un'altra persona oppure no. Giudicare significa tentare di addentrarsi abusivamente nell'interiorità di una persona e decidere a priori se è buona o malvagia; invece, con la descrizione dei manipolatori sotto mano, non ci chiediamo se sono buoni o cattivi (a volte sono malvagi, ma lasciamo andare), tanto più che, non di rado, non sembrano tanto consapevoli di quanto combinano: si valutano semplicemente le loro azioni e, su quella base, si stabilisce, con prudenza, se le persone sono meritevoli di fiducia oppure no, senza fare il processo alle intenzioni e con risultati più oggettivi.

L'incoerenza, da questo punto di vista, è uno degl'indicatori più forti. Un mio penpal del braccio della morte, condannato innocente, nutriva difatti stima nei confronti dei compagni di prigionia che rimanevano "uguali a se stessi": lui stesso era coerente, il che ha reso la nostra amicizia straordinariamente lunga. Come dice il Vangelo (Matteo 15,20): Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? 17 Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; 18 un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. 19 Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. 20 Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere. Una persona buona persiste nel produrre frutti buoni; e chi non è tanto buono....dà frutti incoerenti. Non di rado marci.

Gentilezza di facciata

Un altro concetto su cui mi piace insistere è che la gentilezza di facciata non basta, dato che può nascondere di tutto. Pensate alle tipiche famiglie "Mulino bianco", inattaccabili all'esterno, coi bambini che, in fila indiana e tutti obbedienti, camminano davanti ai genitori e tutto sembra sorridente, perfetto, inappuntabile: ebbene, dietro questa facciata si nascondono spesso i disastri peggiori. Nelle famiglie normali si litiga, si discute, poi si fa la pace: qui mai. Calma piatta. Salvo scoprire che, magari, sotto la superficie piatta, si celano abusi e insulti.


Il popolino ha spesso una percezione superficiale di queste facciate. Almeno la gente ammettesse che aveva una conoscenza poco approfondita della situazione! NO! Anche alcuni giorni fa, quando è stato arrestato il presunto assassino della studentessa Lidia Macchi, violentata e uccisa nel 1987, qualcuno tra i vicini di lui ha risposto con l'immancabile: "Ma era così gentile!". E, in effetti, sapeva essere gentile: era pure colto e religioso. Ora, servirà un processo per stabilire se è colpevole davvero: tuttavia, le prove raccolte fin qui appaiono inquietanti e puntano a una personalità disturbata: uno che viveva la religione in maniera morbosa (quante volte la religione viene usata a scopo manipolatorio!...Ci vorrebbe un altro post sull'argomento. Io stessa, conoscendo la vicenda, avevo ipotizzato che l'assassino fosse un tipo così, affetto da manie religiose, e sono rimasta stupita quando ho capito che ci avevo azzeccato in pieno).

Del resto, sono proprio gli ambienti più "insospettabili" quelli in cui i manipolatori, stile vampiri, operano di più: ospedali, chiese, scuole, istituti d'istruzione, caserme, luoghi di culto, servizi sanitari e di aiuto. Non è colpa degli ambienti in questione: è che i manipolatori amano le belle facciate e pavoneggiarsi con valori elevati, quelli che, al tempo stesso, possono conferire una forma di "autorità morale", "potere" sugli altri: e loro ci vanno a nozze. E' il potere che sognano: e quale migliore maniera per ottenerlo che indossare un abito o rivestire un ruolo che permetta di farsi belli agli occhi altrui? Poi, se la sostanza non corrisponde, tanto peggio...

Ricordo il caso di una ragazza, vittima di violenze da parte del convivente, che lavorava....sulle ambulanze. Sembrava così dedito al prossimo....Qualcuno di voi si ricorderà che, di recente, è stato condannato per l'omicidio di Elena Ceste il marito, un pompiere, che si vantava di essere tale. Non sono in grado di affermare con sicurezza che sia colpevole, ma (per quanto conosca qualcuno del suo team difensivo), propenderei per questa tesi. Anzi: temo che fosse un manipolatore tendente al controllo, il tipo peggiore. La povera Elena non poteva vivere: prigioniera in casa, in una villetta di campagna, segregata per fungere solo da madre e casalinga modello, senza la benché minima possibilità di attività esterne, alla ricerca disperata di contatti e amici che la "salvassero": alla fine, l'hanno fatta passare pure per una "poco di buono" in cerca di avventure extra-coniugali. No: temo che fosse semplicemente disperata e in un grave stato depressivo, alla ricerca, magari imprudente, di qualcuno che l'aiutasse, come spesso succede a chi è sposato con un M e non sa più cosa fare o come salvarsi. Per me, il marito può rimanere tranquillamente in prigione, è il suo posto.

Ma è amore?

A proposito di coppie e manipolazione: vorrei tornare su un altro concetto che mi preme molto. Spesso le persone hanno un'idea ingenua dell'amore: totalizzante, talmente totalizzante da divenire soffocante, per cui non operano più la distinzione tra una grande passione e una situazione patologica. La colpa, a mio avviso, è anche di certe correnti culturali, come il Romanticismo, che ha fatto dei danni inenarrabili.
L'idea romantica dell'amore è devastante: innanzitutto, è falso che l'amore sia solo un "sentimento": l'amore è anche azione, intelligenza, volontà. E inoltre, dal Romanticismo in poi (ricordate il suicidio del Giovane Werther!) si è diffusa l'immagine di un amore fatto di eccessi, esagerazioni, dichiarazioni melodrammatiche e altisonanti: quando l'amore vero, invece, è tutt'altra cosa. Molti sognano un legame "totalizzante" e vi includono anche frasi a effetto ("Nessuno ti amerà mai tanto quanto me" o "Non posso vivere senza di te"), ma, soprattutto, urli, gelosia patologica, e vere e proprie violenze o ricatti morali ("Se mi lasci, ti uccido" o simili). Questo non è amore: questa è isteria. L'amore non è un fenomeno ossessivo, bensì si vede dai fatti: qui le grandi dichiarazioni non sono coerenti con le azioni e con il rispetto indispensabile in amore. Se amate, dimostratelo facendo il bene della persona amata.


Vi ricordo S.Paolo (letto proprio oggi in chiesa!):

L'amore è paziente,
è benigno l'amore;

l'amore non invidia, non si vanta,
non si gonfia, non manca di rispetto,
non cerca il proprio interesse, non si adira,
non tiene conto del male ricevuto,
ma si compiace della verità (Cfr.
ICorinzi 13).


Due maniere di manipolare

Lo stesso può valere per i legami tra genitori e figli: quante volte ho udito delle madri (manipolatrici!) vantare il loro amore nei confronti della prole! Che, intanto, veniva letteralmente soffocata. Diffidate di chi vanta troppo il suo amore: potrebbe essere una ciofeca.
Per quel che riguarda l'incoerenza e la manipolazione in campo educativo, vorrei attirare l'attenzione dei miei lettori su un ultimo concetto. Ci sono due forme basilari di manipolazione a questo livello, forme che si possono replicare anche nei grandi sistemi politici, statali, ideologici ecc. e che evidenziano una forte incoerenza: una è l'autoritarismo, l'altra è il lassismo, di solito a scopo adulatorio. I genitori manipolatori agiscono così coi figli: uno viene tartassato, l'altro blandito in maniera irragionevole. Pensate alla strega di Hansel e Gretel (un'immagine di madre malvagia: e non è un caso se, al ritorno a casa, i due bambini scoprono che la madre è morta!): Gretel viene maltrattata, nutrita con tozzi di pane, obbligata a lavorare da schiava; Hansel, invece, viene rimpinzato con dolci e manicaretti, ma chiuso in  una stia. Ma il tratto comune è che, in un caso come nell'altro, la strega non pensa ai bambini, bensì solo al proprio interesse egoistico. Può sembrare che Hansel sia trattato bene, ma viene solo ingrassato per il macello.
Così avviene coi genitori manipolatori: in genere se ne fregano dei figli; sia che li educhino in maniera troppo rigida, sia che siano permissivi e iper-indulgenti, non mettono al primo posto il bene del ragazzo, bensì il loro interesse. E pensate a certi genitori odierni che, pur non essendo manipolatori, sono troppo lassisti: perché lo fanno? Spesso sono talmente insicuri che la loro indulgenza è volta non tanto al bene del figlio, quanto al desiderio di ingraziarselo, anche se così lo si rovina. Questi genitori intendono solo costruire un'immagine gradevole e posticcia di loro stessi; ma è una tentazione comune tra tanti di noi adulti.
Autoritarismo e lassismo si alternano anche nei sistemi di governo e nelle società nel corso della storia. Pensate ai totalitarismi per il primo caso; in questo momento, ci troviamo nel bel mezzo di una società apparentemente lassista, ma in cui pochi manovrano per assicurarsi potere e influenza a scapito degli altri, con forte rischio per la democrazia; il laissez faire! è solo apparente. Ma su questo, ci vedremo su altri post  (magari con Mario!). Di una cosa però sono certa: i ragazzi sono di solito onesti e capaci di individuare questi comportamenti negli adulti che li circondano; c'è ancora molto spazio per la speranza.



lunedì 25 gennaio 2016

Terrina dei tre cioccolati


Terrina dei tre cioccolati
 
Questo dolce, vi giuro, è dietetico....Dentro c'è solo lo zucchero del cioccolato! Si tratta di una mousse a strati. Il punto fondamentale è come destreggiarsi con la gelatina, cosa che ho imparato a mie spese. Però il risultato vale la pena...
 
 
Ingredienti
100 gr. di cioccolato al latte
100 gr. di cioccolato bianco
100 gr. di cioccolato nero
65 gr. di burro
Latte qb
9 gr. di colla di pesce
4 uova intere e 2 albumi

Per chi non lo sapesse: la gelatina per dolci (o colla di pesce) si compra in buste contenenti dei foglietti trasparenti: ciascuno pesa 3 gr. Giusto per curiosità, si chiama "colla di pesce" perché una volta in Russia si fabbricava con il collagene proveniente da cartilagine di pesce (ittiocolla); oggi, qui da noi, si usano cartilagini di bovini o la cotenna di suini. In cucina serve come addensante.
La gelatina va bagnata in acqua fredda; quindi, un foglio alla volta, va sciolta in un contenitore riscaldato quando ne avete bisogno. Cioè: quando dovete preparare la mousse del cioccolato al latte, ad esempio, prendete dalla ciotola d'acqua solo un foglio di gelatina, lo strizzate e lo lasciate sciogliere in un pentolino che avrete riscaldato a bagnomaria (ma non sul fuoco! Se mettete la gelatina sul fuoco, si secca e brucia, ho fatto la prova). In questa maniera, la gelatina sarà pronta al momento in cui preparate la mousse. Lo stesso dovrà essere fatto per la mousse di cioccolato bianco e poi per quella di cioccolato fondente.
 
 
Quindi, ogni tipo di cioccolato deve essere sciolto, uno per volta, con un poco di latte, sempre a bagnomaria (non fate entrare l'acqua nel tegamino, sennò fate un pasticcio!); la preparazione cambia a seconda del cioccolato:
1) Il cioccolato al latte va mescolato con i tuorli d'uovo, la gelatina e 15 gr. di burro, infine con gli albumi montati a neve;
2) Il cioccolato fondente va mescolato con i tuorli d'uovo, la gelatina e 25 gr. di burro, infine con gli albumi montati a neve;
3) Il cioccolato bianco va mescolato con 25 gr. di burro, la gelatina e i soli albumi  montati a neve (niente tuorli).
Versate una mousse per volta in uno stampo spennellato di acqua, formando gli strati, e mettete in frigo per almeno 3 ore, quindi potete ribaltare su di un piatto e servire. Il risultato è super.
Se volete, potete tentare di preparare anche altri strati di gusto diverso: in tal caso, si impiega il  cioccolato bianco, con un cucchiaio di sciroppo del gusto che preferite e si prepara la mousse come indicato sopra.
 
 
 

sabato 23 gennaio 2016

The lady (L'amore per la libertà, L.Besson, 2011).


The lady

"C'era una volta un paese bellissimo, la Birmania....": così, con ritmo fiabesco ed alcune immagini di grande fascino poetico che rivelano un amore incondizionato per una terra bellissima, inizia il film biografico The lady, tradotto in italiano L'amore per la libertà, sulla vita della leader birmana Aung San Suu Kyi. Il regista è, insolitamente, Luc Besson, che ci ha abituato a ben altri film, quelli tipici d'azione o giù di lì (cito a caso: Nikita, Giovanna d'Arco, Il quinto elemento) e che, invece, con questa pellicola biografica ci offre un'opera di sensibilità ben diversa.
Infatti, la vicenda tende a sacrificare un po' i dati storici e politici, che, per questo, non sempre risultano ben chiari: per esempio, qualcuno dei miei allievi, come Tommaso, si è accorto che non è spiegata bene la successione dei doppi arresti domiciliari della protagonista, comminati nel 1989 e di nuovo nel 2005, dopo un periodo di semi-libertà. Infatti, la storia s'incentra più che altro sulla vita personale di Suu e su quello che la sua lotta politica per la libertà e la democrazia in Birmania ha comportato per lei e per la sua famiglia: separazione forzata dai suoi cari, soprattutto dall'amatissimo marito Micheal, che dovrà imparare a gestire la vita di famiglia da solo (dal ferro da stiro ai figli, al porridge), impossibilità di vedere i figli, neanche in visita (ai familiari veniva negato sistematicamente il visto) e, infine, la straziante morte di Micheal a causa di un tumore, senza che lei lo possa riabbracciare.


Ma forse, questa visione più intimistica e interiorizzata della protagonista, insolita per un regista come Besson, è più azzeccata e costituisce una sorpresa positiva. The lady, infatti, è dopotutto una magnifica storia d'amore, tra Suu e Micheal, interpretati magistralmente da Michelle Yeoh e da David Thewlis: due persone colte, unite da una grande sensibilità e dalla fede in ideali comuni e profondi, tali da spingerli su di una strada moto ardua, che costa loro la possibilità di vivere insieme, ma che, al tempo stesso, permette la redenzione di un popolo e un magistrale insegnamento per il mondo intero. The lady dimostra come l'individuo possa molto se ha dietro di sé rima di tutto la sua famiglia.
Michelle Yeoh, attrice malese di origine cinese, ma vissuta a lungo in Inghilterra, di grande professionalità, nota di solito per i film d'azione, dove interpreta lei stessa gli stunts (007 Il domani non muore mai, La tigre e il dragone, ma ha anche un ruolo ne Memorie di una geisha) sembra davvero Aung San Suu Kyi: anche se deve probabilmente il ruolo al fatto di essere legata al produttore del film, Jean Todt (sì! Quello della Ferrari!) è però la Suu ideale, non solo per la notevolissima somiglianza fisica, ma anche per una grazia dignitosa di eccezionale intensità: sul suo volto le emozioni vibrano con delicatezza eppure con veridicità rara, specie nei momenti più dolorosi del film. Quanto a David Thewlis (che compare spesso nei film di Harry Potter) dona grande spessore a Micheal Aris, un uomo, dopotutto, normale, profondo, scavato dalla separazione dalla donna della sua vita e che, con semplicità, affronta le corvées quotidiane che non può più adempiere lei, ma che agisce pure dietro le quinte per assicurare alla moglie il Nobel. Di solito si dice che dietro un grande uomo c'è una grande donna: ma, in questo caso, è anche vero il contrario, ovvero che dietro una grande donna c'è pure un grande uomo. Non a caso, nella pellicola prevalgono i mezzi busti e i primi piani, quasi a sottolineare come il punto di partenza dell'azione sia sempre l'umanità dei protagonisti.
Sull'altra sponda, i generali appaiono non caricaturali, ma meccanici come manichini, meschini, stupidi e, forse per questo, particolarmente veritieri.


Il film, una coproduzione franco-britannica, è stato girato in Thailandia, ma la ricostruzione appare molto attenta e, a tratti, documentaristica; la scelta d'intonazione della vicenda rende il ritmo della sceneggiatura talora un poco più lento, ma non è un male: splendida è la fotografia, che carezza il paesaggio birmano spesso immerso in una luce dorata e rivela l'amore straordinario per una terra meravigliosa. La colonna sonora possiede momenti di grande intensità, grazie anche all'utilizzo di strumenti locali; tutte queste qualità mi rendono scettica sulle riserve che il film ha suscitato in Occidente (ma non in Oriente). Mi sono convinta però di una cosa: siamo talmente bombardati da pellicole, immagini e prodotti mediatici, che forse, non siamo più tanto in grado di apprezzarne il valore con la dovuta serenità. Mi viene in mente uno dei protagonisti del racconto di Cechov, Il monaco nero, che leggeva freneticamente libri in francese, inglese e russo, uno dietro l'altro, ma senza apprezzarli davvero in profondità e, forse, senza capirli. E' il pericolo in cui è incorsa l'immagine di Aung San Suu Kyi stessa: in Occidente, parecchi ne avevano fatto oggetto di interesse intellettuale salottiero, ma effimero. Qualcosa di lontanissimo dalla protagonista di questo film davvero bello, una donna che ha pagato letteralmente con la vita le sue scelte e i suoi ideali di pace, democrazia, uguaglianza.


The lady
 
"There was once a beautiful country, Burma ....": so, with a magic rhythm and some fabulous images of great, poetic charm, revealing an unconditional love for a beautiful land, begins the biopic The Lady, translated into Italian The love of freedom, about the life of Burmese leader Aung San Suu Kyi. The director is, unusually, Luc Besson, who has accustomed us to films of a different kind, the typical action movies or so (I quote at random: Nikita, Joan of Arc, The Fifth Element) and that, instead, with this
biopic, offers us a quite different work.
In fact, the story tends to sacrifice some historical and political data, which are not always very clear: for example, some of my students, like Tommaso, have noticed that the movie does not explain well the sequence of double arrests of the protagonist, sentenced in 1989 and again in 2005, after a period of semi-freedom. Actually the story focuses mostly on the personal life of Suu and on what her political struggle for freedom and democracy in Burma has led her and her family too: a forced separation from her loved ones, especially from her beloved husband Michael, who had to learn how to manage family life alone (from the ironing board to the children, to porridge), her inability to see her children, even on visit (family members were systematically denied the visa) and, finally, the heartbreaking death of Michael because of a tumor, without her being able to embrace him again.
 

But perhaps this intimate perspective on the protagonist, unusual for a director like Besson, is more fitting and represents a positive surprise. The lady, in fact, is after all a wonderful love story, between Suu and Michael, played masterfully by Michelle Yeoh and David Thewlis: two well-educated people, united by great sensitivity and deep faith in ideals, which motivate them to a hard way, costing them the chance to live together, but, at the same time, allowing the redemption of a people and giving a masterful lesson for the whole world. The lady shows how much the individual can do with a strong family behind.
Michelle Yeoh, a Malaysian actress of Chinese origin, but who lived long in England, highly professional, usually known for action films, where she plays the stunts herself (007 Tomorrow Never Dies, Crouching Tiger, Hidden Dragon, but she has also a role in Memoirs of a Geisha) looks really like Aung San Suu Kyi: although she probably owes her role to her connection to the producer of the film, Jean Todt (yes! The one of the Ferrari!), however, she is the ideal Suu, not only because of her remarkable physical resemblance, but also thanks to her dignified grace and exceptional intensity: on her face emotions vibrate gently, yet with rare authenticity, especially in the most painful moments of the film. As for David Thewlis (who often appears in Harry Potter's movies), he gives great depth to Michael Aris, after all, a normal, deep man, exhausted by the separation from the love of his life and who simply performs the daily cores his wife can no longer perform, but who also acts behind the scenes to ensure her the Nobel. Usually it is said that behind every great man there is a great woman, but, in this case, the opposite is also true: namely that there is a great man behind a great woman. Not surprisingly, in the film there are many close-ups, as to emphasize that the starting point of the action is always the human side of characters. On the other side, the generals appear not caricatured, but like mechanical dummies, petty, stupid and, perhaps for this reason, particularly truthful.


The film, a Franco-British co-production, was shot in Thailand, but the reconstruction looks very careful and, at times, almost fitting a documentary; the intonation of the story sometimes makes the pace of the script a little slow, but that's not a bad thing: the photography is splendid, caressing the Burmese landscape often bathed in golden light, and revealing the extraordinary love for a beautiful land. The soundtrack has moments of great intensity, also thanks to the use of local instruments; all of these qualities make me skeptical about the reserve that the film has aroused in the West (but not in the East). I am convinced, however, of one thing: we are so bombarded with films, pictures and media, that perhaps we are not so able to appreciate them with the necessary serenity. I am reminded of one of the protagonists of a story by Chekhov, The black monk, reading frantically books in French, English and Russian, one behind the other, but not really appreciating them deeply and perhaps not even understanding them. And that's the danger for the image of Aung San Suu Kyi herself: in the West, many have made her the object of intellectual, but ephemeral interest. Something far from the protagonist of this beautiful movie, a woman who has literally paid with her life her choices and ideals of peace, democracy, equality.

venerdì 22 gennaio 2016

Il mondo di Belle, di K.Grissom (The Kitchen House, 2010)


Il mondo di Belle

Il titolo (in Inglese è The Kitchen House, dato che la cucina è il fulcro della vicenda) farebbe pensare a una ricostruzione approfondita del mondo schiavista negli Stati Uniti degl'inizi, ma non è così. Il romanzo si apre con una scena convulsa, ambientata nel 1810: Lavinia, una giovane madre, sta correndo in preda al panico in direzione di un casa in fiamme, mentre la sua bambina, Elly, cerca a stento di tenerle dietro. Quando la giovane arriva sulla collina, si trova di fronte lo spettacolo orrendo di una donna di colore  impiccata. Salto temporale all'indietro: Lavinia è una bambina irlandese orfana scampata a un naufragio e comprata da un ricco possidente della Virginia perché diventi una cameriera. La bambina, ancora traumatizzata, viene accolta con affetto dalla famiglia di colore che assolve ai compiti principali della servitù e, poco per volta, recupera la salute, fino a sentirsi parte della famiglia stessa. Ma, crescendo, Lavinia viene sempre più assorbita nel mondo dei bianchi, prima perché viene educata come una ragazza libera presso dei parenti dei padroni, poi perché viene chiesta in moglie dal rampollo dei proprietari, il quale nasconde però segreti indicibili: il lato oscuro del giovane è noto però a una delle cameriere più apprezzate e belle della casa, la Belle del titolo, che è in realtà figlia del padrone, Mr.James Pyke. Le voci delle due donne, Lavinia e Bell, si alternano nella narrazione in prima persona: e, poco per volta, segreti, abusi e crudeltà vengono a galla in una miscela esplosiva; la scena iniziale, difatti, si replica poco prima del finale, quando la situazione è ormai fuori controllo.


La vicenda è complicata e ne succedono di tutti i colori: stupri, omicidi, incesti, mutilazioni, linciaggi ecc.ecc.ecc. L'autrice, alla sua prima opera, è una Canadese di Saskatchewan trasferitasi in Virginia e appassionatasi alla storia locale; mentre restaurava una casa padronale della zona col marito, ha iniziato a concepire il romanzo e ha svolto anche delle ricerche sull'argomento della società schiavile. Il libro è serio e dignitoso, e aspira a fornire al lettore uno spaccato di un fenomeno, quello dello schiavismo, che ha lasciato profonde tracce, non ancora svanite del tutto, nella società americana: basti pensare che l'opera riporta continuamente la spaccatura, insita tra gli stessi Neri, tra braccianti, abbandonati a una vita pressoché animalesca, e schiavi a servizio nella casa padronale, meglio educati, abituati alla vita dei Bianchi e che fornirono poi quella créme de la crème della società di colore da cui provengono le attuali élites Afro-americane (mentre buona parte dei Neri vive ancor oggi in veri e propri ghetti). Il Sud degli Stati Uniti è del resto pervaso da una violenza che si rispecchia nelle pagine del libro e ha radici lontane.
Detto questo, però, e apprezzata la buona volontà dell'autrice, il testo presenta anche limiti non indifferenti. Non ci si improvvisa scrittori e avere una buona storia (la vicenda, per quanto complicata, invita alla lettura) non basta a costruire un buon romanzo. C'è troppa roba: il lettore perde facilmente l'orientamento, in mezzo a una pletora di figli illegittimi (di cui mi sia permesso di dubitare almeno parzialmente, dato che i coloni bianchi tenevano a distanza i Neri ed erano ben poco inclini al meticciato, a differenza degli Spagnoli), di abusi e di crudeltà che sembrano accumulate per denunciare il più possibile. Alla fine, questa ridda di disgrazie finisce per apparire poco realistica, quasi voluta per colpire il lettore più possibile (un difetto comune nelle produzioni letterarie e cinematografiche odierne).
Ma il difetto maggiore del libro è la sua, ancorché involontaria, superficialità. I dialoghi si susseguono in maniera frenetica e sono troppi, spesso banali e inutili, così come troppe sono le vicissitudini concentrate in queste 400 pagine: i caratteri, anche se verosimili, appaiono schematici, con i cattivi che più cattivi di così non si può (si pensi al malvagio fattore Rankin) e i neri compressi in un frequente atteggiamento di pia rassegnazione, talora innaturale; le descrizioni sono scarse e povere, la scrittura corretta, ma piatta, senz'alcuna profondità culturale o letteraria, lo spaccato della vita quotidiana alla fattoria insufficiente, per cui il romanzo non sembra proprio una descrizione del "mondo di Belle", che, tra l'altro, è ben lungi dall'essere la protagonista (ruolo che spetta invece a Lavinia). Ma, soprattutto, quello che colpisce è la velocità di metabolizzazione di tutta questa ridda di disgrazie. Come ho detto, ne succedono di tutti i colori: eppure pare che i personaggi, anche dopo i colpi peggiori, vadano avanti come niente fosse (è una sensazione molto evidente specie nel finale). Manca il tempo per approfondire, per dare un senso al dolore e per realizzare il male. A dire il vero, ci ritrovo molto di un certo atteggiamento americano, che passa indifferentemente da un evento all'altro quasi senza rendersene conto: il romanzo, pertanto, che sarebbe potuto riuscire come una sorta di seconda "Via col vento" se solo affrontato con i mezzi giusti, appare meccanico e privo di spessore. Alla fine della lettura, mi è parso di rimanere a bocca vuota.
Eppure, era un libro da scrivere e conserva un suo alone dignitoso (anche se si poteva fare di più). Soprattutto una cosa ho apprezzato: si percepisce nelle pagine una forte tenerezza per i bambini, qualsiasi sia la loro condizione e nascita, frutti di amore o di uno stupro o, addirittura, di un incesto. Quindi, anche se questa, in teoria, avrebbe potuto essere una riedizione ottocentesca delle antiche tragedie greche piene di orrori familiari (ma ne manca la profondità), in realtà credo che sia più un inno alla maternità e ai bambini. Le donne della storia allevano tanti figli, spesso non loro, con una dedizione esemplare, anche se non sono (per una volta) emancipate come impone ormai un certo stereotipo letterario. Neonati e piccolini suscitano una profonda tenerezza, quasi fisica: in certi passi, pare di sentire il profumo delle loro tepide membra infantili durante un abbraccio. Forse è questa la dimensione più vera del romanzo che mancherà di doti letterarie, descrittive e di approfondimento sociale, ma che è nato comunque da una forte sincerità e da sentimenti genuini.

mercoledì 20 gennaio 2016

Il ponte delle spie - Bridge of Spies, S.Spielberg (2015)


Il ponte delle spie

Il ponte del titolo è quello di Glienicke, presso Berlino, dove, nel corso del film, deve avvenire uno scambio di prigionieri tra Americani e Sovietici.
Siamo nel 1960 e, sotto l’impulso della nuova politica della “distensione” fra Est e Ovest favorita dall’avvento al potere in URSS di Nikita Kruschev e dall’era Kennedy negli USA, si abbozzano tentativi di riassetto della Guerra Fredda, fra continue, brusche impennate di bellicismo e ostilità reciproca. Si combatte in conflitti eccentrici rispetto all’Europa, oppure tramite le spie. Così, a New York viene arrestato dall’FBI (in una movimentatissima scena iniziale da grande thriller) il colonnello Abel (interpretato magnificamente da Mark Rylance), ben presto imputato di attività spionistica.

 
La sua difesa viene affidata a Jim Donovan (interpretato da Tom Hanks), un avvocato di origine irlandese, socio di un prestigioso studio legale e specializzato nel diritto assicurativo; ha però prestato servizio anche nel team del procuratore statunitense al processo di Norinberga. Dopo alcune esitazioni, Donovan accetta, ma si rende ben presto conto che la volontà di assicurare un equo processo all’accusato è tutta facciata: il verdetto è già scritto, l’ostilità contro Abel è onnipresente, sia nei media, che tra il popolino, che tra le alte cariche dello Stato, e Donovan si ritrova ripetutamente confrontato col muro della mala fede, vedendosi ad esempio respingere dal giudice una dopo l’altra le sue mozioni che puntano il dito su gravi infrazioni alla procedura (ad esempio, la perquisizione della stanza d’albergo di Abel è stata compiuta senza mandato).
Per salvare il suo cliente dalla sedia elettrica, Donovan sfrutta però l’idea cardine che avrebbe dovuto sorreggere il dibattimento: cioè, che il processo Abel rappresenta anche e soprattutto una formidabile messa alla prova del sistema democratico statunitense, dei suoi valori, della sua fede nella giustizia, nell’eguaglianza, nella possibilità di ricevere un equo processo senza pregiudizi di parte; e questi valori fondamentali dovranno risplendere non solo agli occhi dei cittadini americani, ma anche del mondo intero, in particolare degli avversari sovietici, i cui metodi verranno così a loro volta messi in questione. Quindi, alla presenza del giudice, l’avvocato si pone la domanda: e se i Sovietici arrestassero uno dei nostri con le stesse imputazioni di Abel, che cosa vorremmo che gli facessero? E se ci trovassimo nella condizione di dovere scambiare Abel con uno dei nostri? La cattura del pilota Gary Powers, sorpreso dai Sovietici mentre, con un aereo spia, scattava fotografie compromettenti ad alta quota, diventa l’occasione perché lo scambio abbia effettivamente luogo: e per predisporlo la CIA chiama proprio Donovan. Questi però si trova ben presto nella spinosa situazione di dover, con un solo Russo, salvare ben due cittadini americani: non solo Powers, ma anche Frederic Pryor, uno studente di Economia arrestato a Berlino Est….

 
Questa all’incirca la trama del Ponte delle spie, uno dei film migliori (se non il migliore) dell’ultima annata, firmato Steven Spielberg e incentrato su fatti reali. Infatti, a parte alcune limitate libertà (la vicenda viene concentrata tra 1960 e 1961, quando invece lo scambio avvenne nel 1962; alcuni fatti, come il furto del cappotto di Donovan a Berlino Est, sono inventati, nel caso specifico per sottolineare le condizioni tremende in cui versava la città dopo la sconfitta della Seconda Guerra Mondiale; Donovan non fu sottoposto a minacce ecc.), la sceneggiatura, firmata addirittura dai fratelli Cohen e da Matt Charman, ricostruisce attentamente la storia di quegli anni, ivi compresa la costruzione del famigerato muro di Berlino.
E’ una sceneggiatura attentamente studiata, in cui i dialoghi assumono un’importanza fondante, di scontro di idee e visioni del mondo, di rivelatori dei valori basilari delle nostre società occidentali: tanto che per tutta la prima parte del film, un calibratissimo legal thriller, appare chiarissimo come Donovan non stia lottando solo per difendere Abel, il “nemico”, ma, soprattutto, “per noi”, come sottolinea: perché, appena i valori democratici venissero messi a repentaglio, anche solo a danno di qualcuno che, apparentemente, non li merita, saremmo tutti in pericolo. Il che viene ampiamente dimostrato poi dal seguito della storia. “Lei è Tedesco, io sono Irlandese”, afferma Donovan a colloquio con l’agente della CIA Hoffmann, che seguirà poi tutta l’operazione di scambio; “Che cosa ci rende Statunitensi? La Costituzione”; e questa difesa, così genuinamente americana, dei valori democratici è costante e intensa, sostenuta senza enfasi, ma con convinzione.


E’ la convinzione di Jim Donovan, un decent man, lo si potrebbe definire in Inglese, una normale, brava persona, con un lavoro, una famiglia, dei figli in età adolescenziale, ben lungi dall’essere un eroe, ma che opera secondo i valori in cui crede profondamente, con discrezione e buona volontà, nella quotidianità e per il meglio delle persone che lo circondano; e che, grazie a quella quotidiana buona volontà giunge a compiere qualcosa di eccezionale. Tom Hanks, con la sua consueta professionalità, che sa adattarsi ai ruoli più eterogenei, conferisce grande spessore a quest’uomo normale, privo di doti eccezionali, ma eccezionale per la dedizione con cui cerca di portare a termine il suo arduo compito (si noti la scena finale in cui i figli scoprono con stupore quanto ha fatto il padre).
Accanto a Tom Hanks, spicca la magnifica interpretazione di Mark Rylance nei panni del colonnello Rudolf Abel: anch’essa discreta, quasi dimessa, low-key, ma intensa e genuina, tanto che l’attore (nominato, non a caso, per l’Oscar come migliore attore non protagonista), inglese, sembra davvero un contadino russo elevato al ruolo d’intelligence da un duro addestramento nel KGB (anche se Abel era nato in Inghilterra: e tanto di cappello a Rylance, perché gli attori britannici appaiono di solito, di primo acchito, così britannici che, al solo vederli sullo schermo vengono in mente le note di God save the Queen; si badi ad esempio a quanto poco “tedesco” appaia l’interprete dell’agente Hoffmann, l'Americano Scott Shepherd). Rylance sembra russo in quel che di apparentemente inerte del mujik, del contadino abituato a tutte le disgrazie, ma che, come afferma lui nel film, impara a rialzarsi dopo ogni colpo; in quell’humour dimesso e intinto di ironia con cui continua a rispondere a Jim, che gli chiede ripetutamente se è preoccupato: “Could it help?” “Potrebbe servire?”. Fin dalle prime battute stupisce la formidabile alchimia che si è creata tra questi due attori, che danno vita sullo schermo a una coppia straordinaria, la cui amicizia e intesa sono percepibili.
Parlavo dei meriti della sceneggiatura. Ben articolata, compatta, in cui nulla avviene a caso, con un sapiente equilibrio tra discussione, azione e sentimenti,  risente però della forte spaccatura in due del film: al legal thriller, infatti, succede, nella seconda parte, la spy story. Anche il quadro ideale sembra subire uno scarto: pure se i valori di riferimento rimangono quelli della democrazia, tuttavia il cuore dell’azione di Donovan, che si sposta ora a Berlino Est, si focalizza ora sulla salvezza della persona singola, particolare. Le trattative fra Donovan e i vari emissari comunisti (i Sovietici da un lato, i Tedeschi della DDR dall’altro) rallentano e, a tratti, complicano la sceneggiatura nella sezione finale, inducendo forse volutamente un certo smarrimento. Tuttavia, l’equilibrio della costruzione è indubbio, cosicché i fattori ideali emergono spontaneamente tra dialoghi, garbate battute di humour e sequenze in cui prevale l’azione.


Tra gli attori secondari, ricordiamo Amy Ryan (che però non ha la possibilità di emergere come potrebbe: si ricordi la sua magnifica interpretazione della madre drogata della bambina rapita di Gone, Baby, Gone, del 2006) e Sebastian Koch, divenuto famoso a livello internazionale con Le vite degli altri, sempre del 2006 (più vado avanti, più nutro l’impressione che i direttori di casting abbiano poca fantasia: a parte la bravura, Sebastian Koch fa parte di quegli attori noti in patria che, conseguita la celebrità con un film di successo internazionale, vengono poi riciclati in continuazione appena una produzione hollywoodiana sbarca nei loro paesi d’origine; è successo pure a Jean Dujardin dopo The artist, francese, o agl’interpreti giapponesi de L’ultimo samurai; e, dato che qui Koch interpreta un ufficiale della Stasi, mentre ne Le vite degli altri, era una vittima sempre della Stasi, verrebbe da dire, come in Russia si dice del KGB, “Stasi una volta, Stasi per tutta la vita).
Un altro aspetto molto importante del film è la sua estetica: oltre alla minuziosa ricostruzione degli ambienti e dell'atmosfera fine anni '50, privi del lato zuccheroso di tanti film sull'epoca, bensì fortemente realistici (sembra di essere veramente negli States), penso soprattutto alla fotografia. Le inquadrature, come sempre in Spielberg, ma in questo film in particolare, sono curatissime: per esempio, quelle di molti dialoghi, che sfruttano intensi chiaroscuri, l’alternarsi delle ombre oppure la geometria degl’interni (si pensi ad alcune magnifiche riprese in cui il contrapporsi di Jim e Abel è sottolineato dalle fughe delle piastrelle del penitenziario, oppure dalle sbarre delle sue finestre; oppure al dialogo tra Donovan e Hoffmann, reso più intenso dalle ombre di un night su sfondi bruni e blu), ma anche varie riprese dal basso, come durante la perquisizione iniziale, che evidenziano la meccanica di potere in atto. Anche altri accorgimenti servono a Spielberg per enfatizzare la dura logica del potere: soprattutto, gli oggetti, inquadrati in dettaglio, come anche in altri suoi film (si pensi solo a Schindler’s List) possiedono una densità simbolica che buca lo schermo (le lampadine dei flash dei fotografi, abbandonate in frantumi sul pavimento del tribunale; le foto dei cari, posizionate su scrivanie e vicino alla cloche degli aerei, emblema parlante di quello che i valori democratici devono difendere; il telefono da cui Donovan attende la chiamata degli emissari DDR ecc.). Non di rado, inoltre, simboli di potere si insinuano nelle inquadrature quasi a organizzarne lo spazio: la bandiera americana tra Jim e la moglie dopo il processo; il busto di Marx nella fuga di porte all’ambasciata russa e così via. Magnifiche risultano poi alcune inquadrature finali del ponte dello scambio, Glienicke: e anche se il film rinuncia agli eccessi dell’action movie, della spettacolarizzazione, del tono sopra le righe, o ai contrasti cromatici violenti (prevale una palette neutra, se non fredda), le immagini sono di grande effetto e meritevoli non di rado di entrare nella storia della cinematografia. 
Il ponte delle spie non è un film enfatico, spettacolare, un blockbuster: è un film serio, ma avvincente, che riesce a rendere in forma drammatica questioni fondamentali per la nostra civiltà proprio in un momento in cui essa è in pericolo. Lo spessore umano dei protagonisti (insisto ancora sui ritratti in bella vista sulle scrivanie) ci ricorda che democrazia, uguaglianza, libertà, non sono orpelli, o parole vuote, bensì che esse si incarnano nella vita concreta di ciascuno di noi: e proprio per questo la pellicola equilibra tanto bene pensiero ed emozioni. Come osservava giustamente uno dei miei allievi, Andrea, Spielberg non ha creato un film "manicheo", di buoni contro cattivi: il bene e il male esistono da entrambe le parti, si manifestano in persone "normali", anche se è indubbio che la democrazia difenda valori più alti. Ed essa è in pericolo anche negli USA: la prima parte evidenzia storture del sistema giudiziario americano cui ho assistito di persona. In un periodo di allerte e allarmi vari, in cui a ogni momento sembra che la nostra civilizzazione possa disfarsi, sia per le spinte esterne che per gli errori commessi dall'interno, ricordare che la Costituzione difende ogni singolo essere umano è estremamente significativo.
 
Bridge of spies
 
The bridge of the title is Glienicke, near Berlin, where, during the film, there should be an exchange of prisoners between Americans and Soviets.

We are in 1960 and, under the impetus of the new policy of "detente" between East and West favored by USSR leader Nikita Khrushchev and the Kennedy era in the US, peace attempts are sketched to end the Cold War, among continuous, sharp rises of warmongering and mutual hostility. Superpowers fight in eccentric conflicts outside of Europe or by spies. Thus, in New York FBI arrests (in a very animated opening scene fitting a great thriller) Colonel Abel (played beautifully by Mark Rylance), soon accused of espionage.
 
 
 
His defense is headed by Jim Donovan (played by Tom Hanks), a lawyer of Irish descent, a member of a prestigious law firm and specialized in insurance law; but he has also served the team of US prosecutor at the Nuremberg trial. After some hesitation, Donovan accepts, but he soon realizes that the will to ensure a fair trial to the accused is just a facade: the verdict is already written, the hostility against Abel is omnipresent, both in the media, than among the populace and the highest offices of State, and Donovan finds himself repeatedly confronted with the wall of bad faith, seeing the judge rejecting one by one his motions pointing to serious breaches of procedure (for example, the search in the hotel room of Abel was done without a warrant).
To save his client from the electric chair, Donovan uses the key idea that should hold the debate: namely, that the Abel trial is above all a formidable challenge for the US democratic system, its values, its faith in justice, in equality, in the possibility to get a fair trial without bias; and these core values ​​will shine not only in the eyes of American citizens, but also of the whole world, particularly of the Soviet adversaries, whose methods are so called into question in turn. So, before the judge, the lawyer asks: what if the Soviets arrested one of ours with the same charges than Abel's? And if we were in the position of having to swap Abel with one of ours? The arrest of pilot Gary Powers, surprised by the Soviets while, with a spy plane, he was taking compromising photographs at high altitude, becomes the opportunity for the exchange taking place: and the CIA calls Donovan to prepare it. However, he is soon in the thorny position of having, one Russian, to save two American citizens: not only Powers, but also Frederic Pryor, a student of Economics arrested in East Berlin ....
 
This is the plot of Bridge of spies, one of the best films (if not the best) of the last year, signed by Steven Spielberg and focused on real facts. In fact, apart from some limited inaccuracies (the story takes place between 1960 and 1961, while the exchange took place in 1962; some facts, such as the theft of the Donovan's coat in East Berlin, are invented, in this case to highlight the terrible conditions besetting the city after the defeat of World War II; Donovan was not subdued to threats etc.), the screenplay, written by brothers Cohen and Matt Charman, carefully reconstructs the history of those years, including the construction of the infamous Berlin Wall.It 's a script carefully studied, where dialogues are an important cornerstone for confrontation of ideas and visions of the world, for expressing the basic values ​​of our Western societies: so much so for the first part of the film, a calibrated legal thriller where it appears clear how Donovan is not struggling just to defend Abel, the "enemy", but, above all, "for us", as he points out: in fact, as soon as democratic values ​​are under threat, even to the detriment of someone who, apparently, does not deserve them, we'd all be in danger. That is amply showed by the rest of the story. "You'are German, I'm Irish," Donovan says with CIA agent Hoffmann, who will follow the whole operation; "What makes us Americans? The Constitution"; and this defense, so genuinely American, of democratic values ​​is constant and intense, sustained without emphasis, but with conviction.
 
 
 
And it's the conviction of Jim Donovan, a decent man, a normal, nice person with a job, a family, children in their teens, far from being a hero, but operating under the values ​​he believes in deeply, with discretion and good will, in everyday life and for the best of people around him; and that, thanks to his daily good will, comes to do something exceptional. Tom Hanks, with his usual professionalism, that can adapt to the most diverse roles, gives great depth to this normal man, with no exceptional gifts, but great for the dedication with which he tries to carry out his difficult task (note the final scene when his children discover with amazement what their father did).Opposite Tom Hanks, there stands the magnificent interpretation by Mark Rylance in the role of Colonel Rudolf Abel: discreet, almost humble, low-key, but intense and genuine, so much so that the actor (named, not surprisingly, for the Oscar for Best Supporting Actor), English, looks like a Russian peasant elevated to the role of spy by a hard training in the KGB (although Abel was born in England; and hats off to Rylance, because British actors usually look, at first glance, so British, that only seeing them on the screen you get in your mind the notes of God Save the Queen; mind, for example, how little "German" the American Scott Shepherd appears interpreting CIA agent Hoffmann). Rylance seems Russian like an inert mujik, a farmer used to all misfortunes, but that, as he says in the film, learns to get up after every shot; and with resigned irony he continues to answer to Jim, who asked repeatedly if he was worried: "Could it help?". Right from the start it is surprising the terrific chemistry that has developed between these two actors, who give life on the screen to an amazing couple, whose friendship and understanding are perceptible.
I spoke of the merits of the script. Well articulated, compact, where nothing happens by chance, with a wise balance between discussion, action and feelings, however, it is affected by the sharp split in two parts of the film: the legal thriller, in fact, and, in the second part, the spy story. The ideal framework seems to undergo a difference: even if the reference values ​​are always those of democracy, the heart of the action of Donovan, who moves to East Berlin, now focuses on saving the single person. Negotiations between Donovan and the various communists (the Soviets on the one hand, the Germans of the DDR on the other) slow and, at times, complicate the script in the final section, perhaps deliberately causing some confusion. However, the balance of the whole is no doubt, so ideals emerge spontaneously among dialogues, graceful strokes of humor and sequences where action prevails.
 
 
Among the supporting players, I recall Amy Ryan (but she does not have the opportunity to emerge as she could: remember his superbe interpretation of the addicted mother of the kidnapped child in Gone, Baby, Gone, 2006) and Sebastian Koch, who became famous with The Lives of Others, 2006 (the more I go on, the more I have the impression that casting directors have little imagination: apart from his talent, Sebastian Koch is one of those well-known actors at home, who achieved stardom with a film of international success, and who are then recycled continuously when a Hollywood production lands in their countries of origin; it happened also to Jean Dujardin after The artist, or to the Japanese interpreters of The Last Samurai; and, given that here Koch plays a Stasi officer, while in The Lives of Others, he was a victim of the Stasi, one might say, as for Russian KGB, "once Stasi, Stasi for life).
Another very important aspect of the film is its aesthetics: in addition to the meticulous reconstruction of the environment and the atmosphere of the late 50s, without the sugary side of so many films on the age, but in a highly realistic way (it seems to be really in the States), I think especially of photography. The shots, as always in Spielberg, but in this film in particular, are very well cared: for example, those about many dialogues, exploiting an intense chiaroscuro, the changing of the shadows or the geometry of interiors (think of some magnificent shots where the opposition of Jim and Abel is underlined by the spaces between the tiles of the penitentiary or by the bars of its windows; or the dialogue between Donovan and Hoffmann is made more intense by the shadows of a night-club with a brown and blue background); on several occasions shots from below, as during the initial search, highlight the frame of power. Other means are used by Spielberg to emphasize the hard logic of power: especially, objects, framed in detail, as well as in his other films (just think of Schindler's List) have a symbolic density that can not be missed (the bulbs of photographers, abandoned on the floor of the court; the photos of loved ones, positioned on desks or near the aircraft control stick, a powerful symbol talking about what democratic values defend; the phone from which Donovan is waiting the call of DDR emissaries etc. ). Not infrequently, also symbols of power creep into the shots almost to organize the space: the American flag between Jim and his wife after the trial; the bust of Marx in the Russian embassy and so on. Some shots of the bridge after the exchange are magnificent, and although the film avoids the excesses of an action movie, a showy attitude or violent colors (a neutral, if not cold palette prevails)
, the images are impressive and often deserving to enter the history of cinematography.
Bridge of the spies is not an emphatic, spectacular movie, nor a blockbuster: it is a serious, but exciting film, it can express in a dramatic form fundamental questions for our civilization at a time when it is in danger. The human dimension of the protagonists (I still insist on portraits in plain sight on desks) reminds us that democracy, equality, freedom, are no frills, nor empty words, but that they are embodied in the concrete life of each one of us; that's why the film balances so well thought and emotions. As it was rightly observed by one of my students, Andrea, Spielberg has not created a  "Manichean" movie, of good people against evil ones: good and evil exist on both sides, they are manifested in "normal" people, although there is no doubt that democracy defends higher values. And it is in danger in the US too: the first part highlights distortions of the American judicial system which I personally witnessed. At a time of various alerts and alarms, when our civilization seems in danger, both for the external pressures than for the mistakes made from the inside, remembering that the Constitution defends every human being is extremely significant.