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lunedì 11 aprile 2016
Una passeggiata sotto la Luna. Parte 2
Una passeggiata sotto la Luna
Il mito di Endimione: poesia, bellezza e immortalità
Da noi, il mito di Endimione è rimasto un po' più defilato; vi è un'allusione alla cedevolezza della Luna in un sonetto di Bembo:
Però, s'a l'apparir del bel pianeta,
che tal non torna mai, qual si diparte,
ebbi conforto a l'alma (...)
fu, perch'io 'l miro invece et in sembianza
de la mia donna, che men fredda o ria
o fugace di lui non mi si mostra.
Cioè: la donna del poeta non è migliore della Luna (che, sottinteso, si è lasciata prendere da Endimione, pur essendo un'entità celeste) e il Bembo si consola a vedere l'astro.
Il poeta italiano che però, meglio di ogni altro, ha celebrato la Luna è sicuramente Giacomo Leopardi.
Nei Canti, essa ritorna spesso: ed è di solito contrapposta alla condizione misera del poeta e dell'essere umano in genere, segno d'immortalità rispetto alla caducità terrena.
Alla luna
O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l'anno, sovra questo colle
Io venia pien d'angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ne Alla luna, l'astro veniva contemplato in passato dal poeta, come ora; e allora come oggi egli lo vede in modo offuscato, a causa delle lacrime provocate dalla sua vita dolorosa. Eppure, quel ricordo ingenera giù una vaga dolcezza e conforta. Solo la giovinezza rende questa "rimembranza" piacevole.
Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l'affanno duri!
Splendida testimone delle sofferenze del poeta in un notturno memorabile è la Luna anche nell'incipit della Sera del dì di festa:
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna.
Così, nel Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, Leopardi riversa le sue angosce esistenziali nella lirica posta sulle labbra di un pastore delle steppe asiatiche che, a quanto il poeta aveva appreso, intonava, secondo l'uso, un canto notturno all'astro lontano.
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
(...) Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?
Per la prima volta la Luna pare non solo testimone lontana della sofferenza umana, ma partecipe del non senso che riempie l'universo, tanto che sia il vagare del pastore, sia l'errare in cielo dell'astro sembra non avere scopo (questi sono gli esiti estremi del pessimismo cosmico leopardiano, che abbraccia tutta la natura). Genialmente, quindi, il poeta di Recanati rovescia il tradizionale rapporto di opposizione tra umanità mortale e immortalità celeste fissato nel mito di Endimione e ricorrente nelle poesie sulla luna e sul mito del bel pastore. Eppure, poco per volta, si fa strada anche una contrapposizione tra la Luna e la condizione umana: perché l'astro, da lassù, sa forse cose che il pastore ignora ed è comunque estraneo al dolore e alla finitezza di quaggiù:
Intatta luna, tale
E' lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.
(...) Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
E' come se Leopardi avesse portato alla luce il nucleo filosofico ed esistenziale del mito di Endimione. E non stupisce allora che ritroviamo la Luna nell'ultima poesia dei Canti, quella che, secondo la leggenda, il poeta limava ancora poche ore prima di morire a Napoli: il Tramonto della luna. Come il tramonto della Luna lascia nell'ombra boschi e valli, così, passata la giovinezza, non resta più alla vita niente di bello.
(...) Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno
Nell'infinito seno
Scende la luna; e si scolora il mondo;
Spariscon l'ombre, ed una
Oscurità la valle e il monte imbruna;
Orba la notte resta,
E cantando, con mesta melodia,
L'estremo albor della fuggente luce,
Che dianzi gli fu duce,
Saluta il carrettier dalla sua via;
Tal si dilegua, e tale
Lascia l'età mortale
La giovinezza. (...)
Voi, collinette e piagge,
Caduto lo splendor che all'occidente
Inargentava della notte il velo,
Orfane ancor gran tempo
Non resterete; che dall'altra parte
Tosto vedrete il cielo
Imbiancar novamente, e sorger l'alba:
(...) Ma la vita mortal, poi che la bella
Giovinezza sparì, non si colora
D'altra luce giammai, nè d'altra aurora.
E' troppo vedere in questi splendidi versi un'estrema allusione a Endimione? Vi ricordo che Endimione significa in greco "colui che tramonta", etimologia che Leopardi doveva per forza conoscere. L'essere umano è colui che tramonta, colui che non possiede l'immortalità; colui il cui dolore e assurdo esistenziale è testimoniato dalla Luna, che bella, intatta, virginea, fredda e lontana, come una dea impassibile, non partecipa assolutamente della sua condizione. All'essere umano non capiterà mai la fortuna mitica di Endimione, che conseguì per amore l'eterna giovinezza; e se la Luna, una volta tramontata, ritorna, l'uomo invece, una volta tramontato, non torna più. Leopardi, che sapeva di non essere bello, non ha mai goduto dell'amore; era un "anti-Endimione". Il sogno dell'immortalità, dell'eterna giovinezza, dell'amore, per il poeta, in antitesi a Endimione, è scomparso. Eppure, questi versi sono talmente belli che, alla loro maniera, hanno raggiunto l'immortalità della bellezza comunicata dalla Luna e dall'incanto dell'eterno mito dell'amore, che supera ogni forma di morte e raggiunge, col suo slancio, le sponde dell'immortalità.
Bibliografia
Ovidio, Heroides.
J.Lily, Endimione o l'uomo della luna, in http://www.tiraccontoiclassici.it/opera.php?id=83.
J.Keats, Endymion.
R.M.Rilke, Poesie.
G.Leopardi, Canti.
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