L'enigma di Griselda in Boccaccio. 4
Boccaccio e le fiabe
L'oggetto magico e la natura
Abbiamo parlato finora di scopi conseguiti, di prove e di intelligenza necessaria a superarle; del resto, spesso e volentieri in Boccaccio, come dimostra l'anonima gentildonna di Decameron III,3, l'oggetto del desiderio è l'uomo (per l'uomo la donna) di cui si è innamorati. Anche per conseguire questo scopo, come sappiamo da Boccaccio del tutto naturale, è necessaria quindi l'intelligenza.
Ora, tra le funzioni di Propp, ne esiste una, la 14, che conferisce all'eroe un oggetto magico (un tappeto volante, un mantello o un anello che rende invisibili o altro), tale da aiutarlo nel conseguimento dei suoi scopi. Alle volte, l'oggetto magico è anzi lo scopo diretto della vicenda (pensate al vello d'oro degli Argonauti). Ora, se ricordiamo la novella di Calandrino e l'elitropia, in cui gli amici di Calandrino, per burlarlo, gli fanno credere di avere trovato la pietra che rende invisibili nel greto dell'Arno, si potrebbe credere che questo motivo è presente solo in forma parodica: già, solo quello stupido di Calandrino poteva credere alle favole (parrebbe di sentir dire a Boccaccio, che, di scherzi, se ne intendeva); più furbo quello che gli fa credere tali fandonie. Il mondo mercantile di Boccaccio sarebbe allora un mondo dei furbi (in senso abbastanza nobile), in cui non v'è più posto per le fole. Eppure, a mio avviso, in Boccaccio un oggetto magico c'è.
Adesso mi lancio in un'interpretazione che, per forza di cose, va a recuperare certe parti osé del Decameron, con la speranza di non finire in Questura (che poi, io sono l'unica a farmi certi problemi di censura: sarà perché facevo la catechista...). Devo ricollegarmi alla novella di Ricciardo Manardi e Lizio da Valbona (V,4, siamo nella giornata degli amori a lieto fine): Lizio Manardi (nobile romagnolo, ricordato anche nel canto XIV del Purgatorio) ha una figlia bellissima, Caterina, che custodisce con grande cura, ma che s'innamora di Ricciardo, un giovane aristocratico praticamente di casa. I due giovani escogitano uno stratagemma per passare la notte insieme: Caterina finge di avere un gran caldo (siamo alla fine di maggio) e chiede di potersi spostare a dormire fuori dalla camera dei genitori, sul balcone che dà sul giardino. Accampa anche la scusa di voler godere del canto dell'usignolo. Tanto insiste che ottiene il permesso e va a dormire sul balcone, dove il giovane la raggiunge; i due giovani fanno l'amore, quindi si addormentano l'uno nelle braccia dell'altra. Ovviamente, messer Lizio li scopre nudi e addormentati insieme, con Caterina che stringe ancora Ricciardo (cito qui Boccaccio) per quella cosa che voi tra gli uomini più vi vergognate di nominare. La novella quindi continua a giocare su questo doppio senso osceno dell'usignuolo (che dovrebbe provenire da analoghe novelle francesi, note anche in Germania), finché messer Lizio non sposa i due giovani come rimedio.
Quanto segue può essere inserito in verifica con molta cautela: non vorrei dover depositare i vostri compiti nel cassetto del preside dedicato alle produzioni a luci rosse degli allievi del Roiti...Tuttavia, inquadrando la novella nel pensiero di Boccaccio, oserei dire che, forse, i genitali maschili sono proprio l'oggetto magico per eccellenza del Decamerone. Non sto sproloquiando: tutti sappiamo che, per il Certaldese, la sessualità è una realtà naturale, irrefrenabile, cui è necessario dare il giusto spazio, pur nel rispetto del decoro. D'altro lato, i genitali maschili, fin dall'antichità, hanno posseduto per vari popoli una tale pienezza di energia (sono, difatti, la fonte della vita), da essere tabù: ricordiamo che il tabù non è tanto una proibizione, quanto un'avvertenza, quella di usare con cautela realtà di grande importanza vitale, ricche di troppa energia (analogo, ad es., è il tabù del sangue, che non va versato). Mentre i Greci inserivano il fallo in raffigurazioni sacre, come le erme del dio Ermes (quelle danneggiate da Alcibiade nel 415; il fallo veniva allora identificato con la bacchetta del dio, guida delle anime e saggio), gli Ebrei ingiungevano invece ai sacerdoti di coprirsi bene con dei pantaloni prima di entrare nel Tempio: era infatti la nudità maschile a scandalizzarli, non quella femminile, perché, per rispetto, l'uomo non doveva esibire davanti a Dio la parte di sé più sacra, quella che conferisce la vita. Ecco allora che, per la giovane Caterina, le parti intime del suo Ricciardo assumono un'importanza non solo ovvia, sessuale, ma anche simbolica, di oggetto del desiderio raggiunto. Ci sarà anche un ammiccamento malizioso nel nostro Boccaccio: ma, in fin dei conti, non sarebbe bene ricordare, sulla scia della sua visione naturale dell'amore, che anche quella parte del corpo è meravigliosa come il resto?
Al contrario, osservate che cosa succede di solito nelle novelle della IV giornata, quelle sugli amori infelici, in cui non di rado gli amanti muoiono uccisi. Ne succedono di tutti i colori e si scivola spesso verso un macabro degno di Stephen King. Vabbè che la storia del Trecento rivela non pochi lati macabri (pensiamo solo alla peste nera); però, pare dirci Boccaccio, certe mostruosità avvengono quando le necessità naturali degli esseri umani non vengono più riconosciute, anzi, vengono conculcate (l'autore è ben consapevole che la società non sempre gestisce la natura umana in modo saggio ed equilibrato, come messer Lizio). Lisabetta da Messina, privata del suo amato ucciso dai suoi fratelli, impazzisce e ne conserva la testa in un vaso di basilico; Guglielmo Rossiglione uccide l'amante della moglie, il trovatore Guglielmo Guardastagno e ne imbandisce il cuore a lei, che poi si suicida (IV,9); analogamente, Tancredi, principe di Salerno, fa uccidere il giovane amante della figlia, ne imbandisce il cuore a lei ed ella lo beve con del veleno, per suicidarsi (IV,1); Simona e Pasquino muoiono entrambi avvelenati da una pianta di salvia sotto cui si trova un rospo mostruoso (creduto velenoso nel Medioevo; IV,7). Insomma, non lamentiamoci poi se la natura umana si pervertisce, pare affermare Boccaccio
Il lato ambiguo delle fiabe
Del resto, il macabro, compare spesso nelle fiabe: pensiamo a Barbablù, storia di un serial killer realmente esistito (l'identificazione più corrente avviene con Gilles de Montmorency-Laval, barone di Rais, uno dei compagni di Giovanna d'Arco, condannato a morte per aver adescato e trucidato decine di bambini), oppure a tutti i casi di maltrattamenti in famiglia (Cenerentola, Biancaneve, Pelle d'asino), di abbandono di minore (Hansel e Gretel), di sequestro di persona (Raperonzolo, La regina delle nevi, La bella e la bestia), omicidio, tentato o avvenuto (ancora Biancaneve, Hansel e Gretel, Cappuccetto rosso) repertoriati nelle apparentemente innocue pagine di Grimm o di Perrault. Anche l'orco di Pollicino ha il sapore del serial-killer....
In effetti, le fiabe hanno spesso recepito e trasfigurato casi di cronaca nera, tra gli argomenti che meglio si conservano nella memoria orale: del resto, le fiabe derivano dalla vita reale, anche se attraverso tanti passaggi, per cui ne conservano l'ambiguità. Abbiamo visto sopra l'ambiguità insita in Griselda: ma essa si trova in tante fiabe. Perché il papà di Cenerentola non la difende mai? Dove ha la testa? (Idem per quello di Biancaneve). Oppure, il padre di Pelle d'Asino: perché è così insensato da volere sposare la figlia? Come mai nel mondo dorato della Bella addormentata c'è spazio anche, tra le fate, per una strega? O ancora: come mai, alla fine di Hansel e Gretel, quando i bambini hanno ucciso la strega e sono tornati a casa, scoprono che è morta anche la matrigna (ma certe versioni parlano della "madre")? Forse che la Pollacchiona era una manifestazione dell'altra? Del resto, Griselda stessa è approdata, come dicevamo sopra, tra le fiabe di Perrault...
Boccaccio ha saputo solo sviluppare con maggiore profondità questo lato ambiguo, aggiungendovi dati realistici, attinti dal quotidiano. Ma la realtà non è mai fiabesca: neanche quella delle fiabe.
Il matrimonio finale
Ma veniamo a qualcosa di più allegro, il matrimonio, che di solito conclude quasi ogni fiaba (funzione 31). In effetti, abbiamo in Boccaccio un'intera giornata (la V) dedicata agli amori a lieto fine (abbiamo già visto Ricciardo e Caterina).
Ora, se riflettiamo bene, le protagoniste di molte fiabe sono le fanciulle, che attendono il matrimonio come forma di realizzazione personale: possono così essere del tutto passive (La bella addormentata, Biancaneve), oppure vittime in cerca di un salvatore, che apprezzi, magari, le loro qualità (Cenerentola), oppure salvatrici elle stesse (La bella e la bestia, Pelle d'asino). Bisogna ammettere che, nel corso dei secoli, il ruolo attivo è di solito stato attribuito nelle fiabe al principe, che è un uomo (siamo ben lungi dalle scatenate eroine di W.Disney): però, l'atteggiamento femminile può variare, anche se il matrimonio finale rimane immutato. Del resto, in Analisi Transazionale queste fiabe indicano dei "copioni psicologici" che, non di rado, influenzano il comportamento dei singoli (esistono le donne che devono sempre salvare qualcuno, come la protagonista della Bella e la bestia; oppure quelle che si adagiano nel ruolo di Cenerentola ecc.).
Orbene, il nostro Boccaccio, che tanto spazio accorda alle donne, che cosa ne pensa? Dando una scorsa alle novelle (non intendo fare statistiche), mi pare che quelle della V giornata lascino prevalere il modello passivo femminile: cioè è l'uomo a lottare per conquistare la donna, più che il contrario. Per esempio, in V,1, Cimone si ingentilisce per amore e fa di tutto pur di rapire l'amata Efigenia; oppure, ancora il povero Ricciardo, si arrampica sui muri (alla lettera) per raggiungere Caterina (il Decamerone è pieno di arrampicate notturne libere su muri, alberi ecc.ecc.); due giovani lottano per la stessa fanciulla in V,5 (come nel Teseida); Nastagio degli Onesti fa quel che sappiamo per conquistare la sua Traversari; il povero Federigo degli Alberighi ci rimette tutto, falcone compreso, per la sua donna; e così via. Però, la novella III,3 dell'anonima gentildonna che si fa beffe del frate rappresenta un altro punto di vista, cosi come quella di monna Filippa: anche le donne possono usare l'intelligenza in amore, per ottenere quello che vogliono. In fin dei conti, l'intelligenza è, in Boccaccio, un dono democratico: e, anche se, alle volte, questi amori a lieto fine ricordano vagamente Cenerentola, lo scatto d'ingegno li porta a tutto un altro livello. Anche Griselda, che è una Cenerentola alla sua maniera, deve dare prova di virtù per vincere.
In conclusione: certo, anche all'epoca di Boccaccio le donne erano spesso relegate a un ruolo passivo: ed è proprio per questo che il Nostro dedica loro il Decamerone. Però...se la donna deve agire, è donna di alto sentire, decisa e attiva. Nella società mercantile, bisogna essere svegli. (continua)
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