venerdì 26 febbraio 2016

Padiglione cancro - Cancer Ward (Alexandr Soljenitsin, 1967)


Padiglione cancro

"Il padiglione cancro era il numero tredici. Pàvel Nikolàeviĉ Rusànov non era mai stato superstizioso, né avrebbe potuto esserlo, ma ebbe un tuffo al cuore quando vide scritto «padiglione N. 13» sul suo foglio di ricovero".  Così inizia uno dei più bei romanzi che siano mai stati scritti, Padiglione cancro, opera del dissidente, scrittore e filosofo Alexandr Soljenitsin, premio Nobel nel 1970 e morto nel 2008. Si tratta di un romanzo corale: l'autore, con maestria, segue i fili delle vicende relative a pazienti e medici di un reparto di oncologia di una città dell'Asia sovietica (è Tashkent, in Uzbekistan), nel 1955, a due anni dalla morte di Stalin.
La storia si ispira a fatti veramente accaduti: dopo essere stato relegato nel gulag per avere espresso dubbi sulla politica staliniana in una lettera, l'autore venne deportato in una remota regione della Siberia, quindi si ammalò di tumore allo stomaco, fu ricoverato a Tashkent e, sorprendentemente, riuscì a guarire e poi a essere liberato (leggendo la biografia di Soljenitsin si nutre l'impressione che fosse indistruttibile o che avesse un protettore molto forte nelle alte sfere).


L'alter ego dello scrittore è Oleg Kostoglotov, colto, sopravvissuto al gulag, ricoverato nella corsia oncologica, che nasconde sotto una scorza burbera e indurita dalle sofferenze una notevole umanità. Attorno a lui si avvicendano numerosi pazienti, ciascuno ritratto minutamente e con estremo realismo insieme alla sua vicenda personalissima: c'è Rusanov, un burocrate mediocre, chiara espressione della nomenclatura comunista, per cui la malattia potrebbe rappresentare un'occasione di revisione della propria vita, ma ingabbiato nella propria ristrettezza mentale e nel proprio egoismo; c'è Efrem Podduev, un omone sanguigno che ha percorso tutta la Russia col suo camion e che in passato si è dato alla bella vita, ora schiantato da un cancro alla gola e la cui esistenza si rovescia nello scoramento e pessimismo più totale; c'è Demka, un bravo ragazzo, cresciuto in una famiglia disfatta, ma serio e studioso, cui devono amputare una gamba e che si innamora di Asja, un'altra paziente adolescente; c'è Ackmadžàn, un uzbeko trentenne, che parte allegramente dopo essere stato dimesso, ma ignora che nel suo referto è stato giudicato inoperabile; c'è Vadim, un giovane geologo, efficiente e studiosissimo, deciso a sfruttare al meglio il suo tempo e a riuscire anche contro la malattia, ma condannato da un neuroblastoma. E poi, attorno a loro, i medici e gl'infermieri: dall'attraente studentessa di medicina Zoja, per cui Oleg prova un'effimera attrazione e che è alla ricerca di un rapporto solido, al primario chirurgo, Lèv Leonìdovič, intelligente e donnaiolo, a Ljudmìla Afanàs'evna Doncòva, la direttrice del reparto radioterapia, ben presto affetta ella stessa da quel male incurabile, che combatte tutti i giorni con i suoi raggi, e di cui l'autore ritrae la paradossale tragedia con profondità; fino a Vera Gangart, la gentile dottoressa di cui Oleg infine si innamora, ma con cui egli ritiene impossibile costruire un rapporto autentico. Tante storie, ognuna con una propria verità profonda, che l'autore coglie con rara empatia.


Quello che colpisce di più di Padiglione cancro è lo straordinario realismo; non è un libro crudo, eppure affonda la penna nella realtà in una maniera che, a mio avviso, è rimasta insuperata: tanto che pare di vedere i personaggi e le scene davanti agli occhi, con un senso della vita vissuta eccezionale, tangibile. Per questo motivo, il libro, pure se abbastanza ponderoso, scivola via (come succede per molti capolavori russi) in modo ineguagliabile e si legge tutto d'un fiato. Ma i pregi di Padiglione cancro sono innumerevoli. Il romanzo è un ritratto tridimensionale della vita quotidiana nella Russia sovietica post-staliniana e delle questioni morali ed esistenziali poste dal quadro politico, sociale, ma anche semplicemente interiore di ognuno. Ognuno, infatti, vive il proprio dramma, in solitudine, ponendosi domande che non trovano facilmente risposta. Uno dei personaggi più umani è Solubin, l'anziano docente tormentato da un umiliante cancro rettale e umiliato dal suo passato di acquiescenza al potere, che si sofferma a discutere con Oleg delle purghe staliniane: e l'ex-deportato comprende che, se a lui è toccato il gulag, a quelli fuori è toccato il terrore, la certezza che qualcosa di orrendo stava accadendo, senza che nessuno avesse il coraggio di ribellarsi (splendida questa riflessione sulla colpa individuale e collettiva al tempo stesso a fronte del totalitarismo più disumano).

Il cancro, come la Morte dei Trionfi della morte trecenteschi, dell'epoca della peste nera, insidia tutti e pare chiedere a ciascuno l'amaro conto dell'esistenza, in una sorta di giudizio, laico e trasversale. Forse ha ragione chi vi ha visto una metafora del comunismo, ma esso esprime molto di  più: la malattia, subdola e insidiosa, svela, di volta in volta, la fragilità, il limite, il punto debole di ognuno e colpisce a tradimento, costringendo a una profonda revisione della propria esistenza. Per questo appare tanto più tragica e grottesca l'ottusità di Rusanov che, al termine del romanzo, esce apparentemente guarito e sprezzante nei confronti degli altri malati, ignorando che la sua guarigione rappresenta solo una tregua temporanea. Il male è quindi l'occasione per porsi le domande fondamentali sul senso dell'esistenza, quelle domande ineludibili su cui ci si gioca la vita e che rimangono spesso, nella quotidianità di tutti i giorni, prive di attenzione o risposta, per negligenza o superficialità.

 
Non stupisce allora che, tra gl'interrogativi più ricorrenti di queste pagine emerga quello sull'amore e i rapporti di coppia. Attraverso quest'angolatura Soljenitsyin analizza la devastazione operata dal materialismo, allora già operante in URSS e oggi a pieno regime da noi. Tramite Zoja, giovane e avvenente studentessa di Medicina, stanca di rapporti occasionali, ma incapace di trovare un compagno stabile, Vera, la bella e dolce dottoressa che ha perduto in guerra il suo grande amore ed è rimasta tristemente sola, Efrem, che rimpiange le molte donne di cui ha approfittato, o Oleg, condannato all'impotenza dalla terapia ormonale e incapace di sperare in una relazione sentimentale duratura se privato della propria funzionalità fisiologica, l'autore esprime la tragedia della vita di coppia odierna, in cui conta sempre di più solo l'aspetto materialistico e trivialmente sessuale, mentre si perde il senso della persona e delle autentiche relazioni profonde che l'amore vero può donare. In questo deserto affettivo, i nostri protagonisti si trovano inesorabilmente soli, non molto diversamente da quelli di Moravia, per cui ormai l'unica possibilità di contatto umano è il sesso nudo e crudo. Eppure, la fine del romanzo, per quanto sconsolata, non suggerisce desolazione: la profondità della meditazione di Soljenitsyn è tale, che continua ad accompagnare il lettore per giorni, mesi, anni, con una ricchezza inesauribile e tale da indurre, dopotutto, speranza.

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