lunedì 1 febbraio 2016

La memoria corta


La memoria corta

Il 27 gennaio scorso, Giorno della Memoria, un mio allievo di quarta, Nassim (di origine marocchina) mi ha chiesto che cosa ne pensavo del minuto di silenzio che la scuola aveva osservato durante la prima ora in occasione della commemorazione dell'Olocausto. Poi ha aggiunto:
- Vede, prof, abbiamo interrotto la lezione, osservato il minuto di silenzio, poi ripreso come niente fosse: senza un dibattito, una discussione, nulla. Così, secondo me, non serve a niente.
Ho risposto che aveva perfettamente ragione. Beninteso, il minuto di silenzio è sacrosanto e va osservato: il 27 gennaio, come tutti sanno, è l'anniversario della liberazione del lager di Auschwitz da parte dei Russi, nel 1945. La Shoah, un orrore che ha provocato 6 milioni di morti circa (di cui almeno 2, lo si ricordi, fuori dai lager, durante l'avanzata della Wehrmacht verso Est) deve essere ricordata e rimanere oggetto di memoria incancellabile. Tuttavia, e credo che ciò sia sotto gli occhi di tutti, la memoria spesso non viene perpetuata nella maniera giusta.


Tutti gli anni, durante l'ultima settimana di gennaio, sull'argomento veniamo subissati, per non dire bombardati di iniziative, programmi, film e simili, non sempre di qualità, anzi, talora frutto di operazioni affrettate: alcuni raschiano il fondo del barile delle testimonianze o degli avvenimenti in merito, anche marginali, con un gusto quasi morboso. L'effetto finale che ne risulta, al di là delle buone intenzioni e della qualità di una parte di questa produzione, è il martellamento, senza molta possibilità di riflessione, proprio come sosteneva il mio Nassim. Persino un mio collega di orientamento ideologico del tutto opposto al mio (viene dall'estrema sinistra) concordava con me che la Giornata della Memoria è ormai divenuta una routine, imposta dall'alto e a tratti stanca, col rischio enorme che si svuoti del proprio significato.
A questo aggiungerei un'altra osservazione. Qualche anno fa, nel novembre 2011, ho partecipato a un seminario organizzato sui genocidi dall'Assemblea Legislativa dell'Emilia Romagna, cui presenziavano vari studiosi del Museo della Shoah di Parigi. Alcuni di loro rilevavano come è invalsa l'abitudine di usare paragoni per lo meno sconcertanti, che equiparano l'Olocausto ai fenomeni più diversi (per esempio, alle violenze contro le donne: è una strana abitudine che ho notato più volte in articoli sull'argomento di tendenza femminista), come se tutti si volessero appropriare dell'aura delle vittime del genocidio ebraico per ammantarsene. Ciò è iniquo e finisce per svilirne il ricordo.
Tutto questo mentre l'antisemitismo in Europa è in crescita allarmante. Secondo Le Figaro (http://www.lefigaro.fr/actualite-france/2014/03/31/01016-20140331ARTFIG00169-les-juifs-de-france-emigrent-en-masse-vers-israel.php) l'emigrazione degli Ebrei verso Israele dalla Francia, che possiede la più grande comunità giudaica d'Europa, forte di quasi un mezzo milione di abitanti, è aumentata negli ultimi anni in modo esponenziale (1917 nel 2012, 3280 nel 2013, con tendenze in crescita per il 2014 e forse 8.000 partenze circa nel 2015), soprattutto per una diffusa percezione d'insicurezza. Un mio ex-studente, che ha anche passaporto francese, mi confidava che, intorno a Parigi, esistono quartieri dove gli Ebrei non osano mettere piede per paura di violenze antisemite. Lo scorso 7 maggio 2015 è stato proiettato su Raidue il film choc 24 jours. La vérité sur l'affaire Ilan Halimi sulla terrificante vicenda di Ilan Halimi, un giovane Ebreo rapito e letteralmente massacrato da un gruppo di criminali mossi da intenti antisemiti tra il 20 gennaio e il 13 febbraio 2006 (cfr.http://www.ilgiornale.it/news/cronache/je-suis-ilan-film-choc-sul-giovane-ebreo-trucidato-nella-ban-1124708.html). La pellicola, diretta da Alexandre Arcady, ha incontrato notevoli resistenze in Francia ed è stata praticamente boicottata a Parigi: essa mette bene a fuoco il clima d'incredulità tra le forze dell'ordine che, nonostante gli appelli disperati di Ruth, la madre di Ilan, non presero in considerazione la matrice antisemita del sequestro. E, difatti, come è stato ribadito dalle autorità delle comunità ebraiche francesi dopo i fatti del 7-9 gennaio scorsi, gli Ebrei francesi non si sentono protetti. Proprio il 27 gennaio, il quotidiano Il Foglio è uscito in edicola con la kippah, il tipico copricapo ebraico, perché ormai gli Ebrei, in Francia e altrove, rischiano la vita al solo indossarla, come se fosse la stella gialla nazista (vedi http://www.ilfoglio.it/esteri/2016/01/27/perch-noi-ebrei-rischiamo-la-vita-indossando-la-kippah___1-v-137519-rubriche_c937.htm).
Indubbiamente, la diffusione dell'antisemitismo in Francia è dovuta in  gran parte all'allargarsi a macchia d'olio dell'islamismo estremista: negli ultimi decenni, le moschee francesi sono state sovvenzionate sempre di più dai proventi del petrolio saudita e l'Arabia Saudita diffonde nel mondo un modello di Islam salafita, radicale, matrice della maggior parte dei gruppi terroristici sunniti in circolazione (si veda il bel libro di Thomas Grimaux, Il libro nero delle nuove persecuzioni anticristiane, 2009). Inoltre, oserei affermare che la Francia laicista, col suo proposito di cancellare dalla vita pubblica il fatto religioso, non può che ignorarlo anche in circostanze tragiche: i funzionari dell'Esagono, troppo spesso, non riescono più a capire tutto ciò che riguarda la religione, fossero anche le derive fondamentaliste o la persecuzione anti-ebraica.


Tuttavia, c'è anche dell'altro. Per motivi personali e di lavoro mi sono occupata dei manipolatori relazionali, che sono la tipologia più ostica repertoriata in psicologia: si tratta di personalità che usano gli altri per i loro fini egoistici, mettendo in atto tutta una serie di comportamenti disfunzionali (si vedano in merito i bei libri della specialista francese Isabelle Nazare-Aga). Tralascio ora la problematica psicologica, ma basti qui una mia osservazione: interi sistemi politico-sociali e non solo possono comportarsi così, come individui manipolatori. A livello di comunicazione i manipolatori hanno un atteggiamento ben preciso: non ascoltano, non dialogano, passano dall'espressione vaga e confusa delle loro idee all'arroganza, se non alla violenza, agli urli e agl'insulti; pensano senza sfumature, "con l'accetta" e mancano di rispetto per gli altri; adulano, mentono, oppure fomentano liti e disprezzo (si veda il mio blog sull'argomento, http://annaritamagri.blogspot.it/2015/11/chi-sono-i-manipolatori.html).
E' sotto gli occhi di tutti come nella nostra comunicazione sociale tenda sempre di più a prevalere la mancanza di ascolto, la violenza, l'insulto, la comunicazione confusa e priva di contenuti, l'arroganza, l'urlo; e, dato che la verità non è mai "bianca o nera", assieme alla violenza si diffonde troppo spesso la menzogna. Non è certo questo l'humus culturale in cui si possano alimentare il dibattito, il dialogo, la riflessione, indispensabili a prevenire una nuova ondata di violenze, in particolare anti-semite (e non solo). Battere e ribattere sul ricordo della Shoah in modo meccanico, senza dare spazio alla discussione, finisce così per essere un'ennesima forma di indottrinamento imposta dall'alto, che lascia del tutto abbandonati al loro destino i nostri fratelli ebrei. Siamo in una società a forte tendenza manipolatoria, in cui si sacrifica sempre più il confronto delle idee, a vantaggio della volgarità e dell'insulto. Senza un recupero cospicuo e generalizzato dei valori del dialogo e del rispetto, fare memoria diventerà sempre più inutile e, dato che la memoria è innanzitutto una facoltà intellettuale, senza l'aiuto di una solida razionalità, la memoria diventerà tristemente una  memoria corta.

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