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venerdì 4 novembre 2016
Perché Dante andò all'Inferno
Perché Dante andò all'Inferno
Pare che a Ravenna, negli ultimi anni di vita del poeta, alcune donne del popolo si indicassero Dante l'un l'altra, bisbigliando: "Quello è il poeta che è andato all'Inferno...Pensate, che ha ancora i capelli rossi!".
Ovviamente, non era vero: e bisogna sempre ricordare, quando si un'opera letteraria, che essa ha un altro livello di realtà rispetto a quella in ci viviamo. Non è vero che i serpenti parlino, ma è vero, a livello teologico e letterario, il racconto biblico dell'Eden perché è una parabola, simbolica e mitica, sulle origini del male; ed è una parabola talmente potente che essa fa versare ancora fiumi e fiumi di inchiostro ogni anno (se vi andate a controllare la bibliografia annuale pubblicata sui primi capitoli della Genesi, per esempio dalla Revue Biblique, rimarrete esterrefatti). Così non è vero che Dante sia disceso alla lettera nell'Inferno, ma, in qualche modo, ci è stato. Con lo spirito. Il che è forse anche più significativo.
Diceva Nietzsche in Al di là del bene e del male: Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal diventare lui stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guarderà dentro di te. Cioè, essere a contatto troppo con il male è pericoloso; in maniera più umile, si potrebbe ricordare che "Chi va col lupo, impara a urlare". E allora, perché Dante è sceso all'Inferno? Se doveva compiere un percorso di purificazione, non bastava il Purgatorio? Per arrivare poi in Paradiso?
Rivolgo spesso questa domanda ai miei studenti di terza, quelli che iniziano a studiare Dante; e, di solito, arrivano molto vicino alla risposta e dicono cose piuttosto interessanti. E' vero che, oggi, le produzioni televisive, letterarie e cinematografiche sono fin tropo zeppe di male; c'è quasi una specie di frenesia in giro al riguardo. Non che siano rappresentazioni autentiche: non di rado, sono artificiose e superficiali, dedite solo alla ricerca del sensazionale. A proposito, proprio mentre scrivo, al TG 2 stanno annunciando la presentazione di un documentario sui disegni di Botticelli del 1481 riguardanti l'Inferno dantesco.
Per rispondere rinvio a una mia memoria personale. Alcuni anni fa, a Firenze, ho frequentato, per un breve periodo, una scuola di recitazione cinematografica (che poi ha chiuso il corso per mancanza di frequentanti). Il direttore, un anziano attore molto esperto, stava montando uno spettacolo, in cui confrontava testi dell'Inferno dantesco con altri sulla Shoah. Quindi, per capire il male assoluto rappresentato dalla voragine nazista, c'era ancora bisogno di Dante.
Dante aveva un mondo straordinario dentro di sé: sapeva discendere al fondo dell'abisso, vedere il diavolo, e poi purificarsi, risalire fino all'estrema estasi, la visione di Dio. Qualcuno, in modo poco serio, alle volte si è chiesto se non facesse uso di stupefacenti (!?!); in realtà, la sua fantasia universale si spiega con la grandezza del suo genio, della sua intelligenza, della sua empatia (la capacità di soffrire con gli altri) e del suo spirito. Forse vale la pena ricordare che già nello Stilnovo viene adombrata una verità non indifferente: già in amore l'amante passa dall'Inferno al Paradiso.
Non c'è bisogno per un autore di talento di vivere le realtà direttamente: egli sa viverle nella sua mente, nel suo cuore, nella sua anima. Dostoevskij non ha mai ammazzato nessuno, eppure seppe dare un ritratto impressionante dell'omicidio in Delitto e castigo. E Dante ha saputo vivere di tutto. Alle volte, spaventa osservare come egli abbia saputo condensare nei suoi versi le realtà più spaventose, orride che esistano: la foresta dei suicidi (canto XIII), la morte per fame nella tragedia del conte Ugolino (canto XXXIII), la desolazione del ghiaccio di Cocito, la sabbia infuocata dove vagano bestemmiatori e sodomiti, i serpenti-ladri, i seminatori di discordia mutilati ecc. Dante ha saputo guardare fino in fondo alla realtà del male: e questo è necessario per un'autentica vita morale.
Bisogna saper guardare il male in faccia: altrimenti i buoni diventano ingenui, se non molli, o vili: degl'inetti. Il buono che non si è mai confrontato con il male rischia di diventare debole. Dante ritiene necessario scendere fino in fondo all'Inferno perché realizza quanto necessario sia essere consapevoli, senza se e senza ma, senza sconti. Non andare all'Inferno sarebbe stato equivalente a chiudere gli occhi. E la mancanza di consapevolezza indebolisce; e, al tempo stesso, toglie l'energia necessaria per combattere il male. Non ci si vaccina contro il male se non lo si conosce (a livello intellettuale, non praticandolo però).
Non è pericoloso però? E se ci si corrompe? In realtà no: dipende da come si vive questa esperienza. Serve innanzitutto umiltà, cioè porsi spesso degl'interrogativi sui propri limiti; e poi molto senso della responsabilità. Ma dato che siamo fragili, questo può non bastare. E allora? Dante mantiene un "cordone ombelicale" con Beatrice, cioè, attraverso di lei, con il Paradiso, ovvero con Dio. E' questo, una vera e propria immersione nel Bene assoluto, che può garantire di non precipitare nell'abisso. Anni fa, quando cominciai a occuparmi di criminalistica, lessi di cose autenticamente orripilanti; e, dapprincipio, lo ammetto, certe realtà mi facevano davvero paura. Poi, poco per volta, ho capito che questa paura se n'era andata. Mi portavo dentro una Luce che superava per grandezza e bellezza quell'abisso. E quella Luce mi ha permesso di non avere più paura. E' per questo motivo che è importantissimo percorrere un viaggio completo, dall'Inferno al Paradiso: per concludere poi col Bene assoluto.
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