mercoledì 27 febbraio 2019

Quando un dio ama una donna - Canto di Apollion di Salvatore Quasimodo



Quando un dio ama una donna - Canto di Apollion di Salvatore Quasimodo

Una brezza di canto antico pervade questa struggente poesia, la seconda compresa nella terza raccolta di Salvatore Quasimodo, Erato e Apollion, pubblicata nel 1936. A parte l'eterna nostalgia della sua Sicilia, intrisa di cultura greca, l'interesse per la letteratura classica si stava rinnovando nel poeta proprio in quegli anni, in cui aveva iniziato a tradurre i Lirici greci, poi pubblicati nel 1940. Affascinato dai frammenti dei lirici del VII - VI sec. a.C. (Saffo, Alceo, Anacreonte e così via) sopravvissuti in brevi lacerti dal passato, Quasimodo ne modernizzò i versi, trasformandoli in poesie attuali, dotate, però, al tempo stesso, di un respiro lirico senza tempo. Motivi mitici e classici rifluirono così anche nella coeva poesia dell'autore di Modica, segnata dall'ermetismo, quindi da un'atmosfera di arduo mistero.
La lirica Canto di Apollion, che qui propongo, reinventa il motivo mitico dell'amore tra un dio e una fanciulla mortale, per trarne un'eterna riflessione sulla condizione umana.


Canto di Apollion


Terrena notte, al tuo esiguo fuoco
Mi piacqui talvolta,
e scesi fra i mortali.

E vidi l’uomo
Chino sul grembo dell’amata
Ascoltarsi nascere,
e mutarsi consegnato alla terra,
le mani congiunte,
gli occhi arsi e la mente.

Amavo. Fredde erano le mani
Della creatura notturna:
altri terrori accoglieva nel vasto letto
ove nell’alba udii destarmi
da battito di colombe.

Poi il cielo portò foglie
Sul suo corpo immoto:
salirono cupe le acque nei mari.

Mio amore, io qui mi dolgo
Senza morte, solo.


L'io lirico è il dio, chiamato, come lascia intendere il titolo, "Apollion", ma lasciato volutamente nel vago, come la sua amata: egli è sceso dal cielo per raggiungerla la notte. Anche se alcuni critici individuano in questo nome quello di un improbabile dio medievale (?), che proteggeva la fecondità della campagna, in realtà Apollion è un nome che unisce da un lato il dio della poesia e del sole Apollo, dall’altro quello biblico Apollion, cioè “il distruttore” (dal verbo greco apollumi, "distruggo"), che compare in Apocalisse 9,11 come l’angelo dell’abisso: Quasimodo, difatti, amava fondere reminiscenze classiche ad altre bibliche. Il nome risulta così ambivalente, evocatore di luce e distruzione al tempo stesso: il dio scende dal cielo a portare luce accecante, ma sale anche dal profondo a portare distruzione. Da sempre, nelle culture antiche, l'incontro tra il divino e l'umano può annientare quest'ultimo: così Mosè deve nascondersi davanti a Dio per non essere annientato; di Lui può vedere solo le spalle, non il volto (cfr. Esodo 33,21-23). Bisogna tenerlo presente per capire il seguito. 


Eppure proprio questo dio scende la notte dalla sua amata (un po’ come faceva Amore con Psiche), tanto che alla notte si rivolge nell’esordio della lirica: durante la notte scendeva al tuo esiguo fuoco….tra i mortali. Il richiamo al dio del sole appare qui anche più pregnante: egli, solare, accetta per amore di scendere verso il buio e il nascondimento. Si immagina un accostarsi furtivo del dio alla dimora dell’amata, al suo focolare dove il fuoco sta ormai per spegnersi. Mi piacqui talvolta, / e scesi tra i mortali. L'uso riflessivo, del tutto irregolare, del verbo "piacere" - la poesia italiana sforzava spesso i verbi fin dall'esperienza espressionista dei poeti della Voce - lascia intendere la condiscendenza del dio che si compiace di trovare diletto tra i mortali. Sopravvive qui una sfumatura dell'arcaica nonchalance con cui Giove accumulava trofei amatori nella mitologia classica. Ma questo dio viene profondamente e inesorabilmente coinvolto dalla realtà umana dell'amore, tanto da perdere definitivamente la sua beata superficialità.


Difatti, nella seconda strofa, in modo misterioso, il dio assume la natura mortale, tanto che si vede quasi dall’esterno come uomo: e vidi l'uomo / chino sul grembo dell'amata. Lui, divino, unendosi per amore con una donna, ha sostanzialmente assunto la natura umana: è possibile qui un riflesso cristiano? Lascio la domanda in sospeso. Comunque lui in grembo all’amata, si vede ascoltarsi nascere, efficacissima sinestesia che esprime la rigenerazione dell’uomo attraverso l’amore. Viene evocato qui l'udito perché esso implica una percezione più profonda, che tocca la sfera esistenziale. Attraverso l'amore, il dio rinasce uomo. Egli si vede inoltre mutarsi consegnato alla terra: si affida così alla fragilità rappresentata dalla terra, dalla "polvere" di cui siamo fatti. Del resto, l'amore rende fragili, vulnerabili, nudi, poveri. E' una sublime vulnerabilità, perché ci consegna al cuore dell'altro. Seguono alcuni accusativi alla greca che evocano la situazione del dio innamorato: le mani congiunte (in preghiera), gli occhi arsi e la mente, altra potente metafora che esprime l’accecamento della mente e dell’animo davanti alla troppa luce dell’amore (e si ricordi ancora che il protagonista è quasi omonimo del dio del sole). E poi il dio si perde nell'amore, come bene esprime il verbo isolato all'inizio della strofa successiva, amavo, un  imperfetto di valore durativo. 


Eppure, proprio l’assoluto di questo amore, se da un lato lascia penetrare il dio nella dimensione umana, dall’altro, quale ieros gamos, matrimonio sacro cui la natura umana non può resistere, provoca la morte di lei; tanto che nella notte egli ne sente le mani fredde; non ben definiti terrori notturni invadono il letto del loro amore (accolti da lei, che si suppone soggetto del verbo accoglieva) e lui si desta all’alba al battito d’ala delle colombe. Le colombe, da sempre simbolo d’amore (uccelli di Venere e ricordati nel Cantico dei cantici, oppure nel Velo delle Grazie di Foscolo come simbolo del matrimonio), evocano per analogia l’anima dell’amata che vola via, lei che ha dato la vita per il dio che amava. Come una colomba l'anima di lei si libera della terra e vola verso il cielo. 


Il corpo rimane invece, freddo, immoto, a terra, coperto dalle foglie secche, simbolo di autunno e di morte. Il salire delle acque…cupe nei mari, evoca invece il caos originario, cui, con la morte, tutto ritorna: la mente torna al diluvio; ma Apollion non era anche l'angelo dell'abisso? La morte, si noti, non viene descritta: il dio se la ritrova davanti all'improvviso, inattesa, nel corpo immoto dell'amata, altro potente segno della condizione umana con cui il dio è entrato in contatto; la morte è solo evocata suggestivamente da immagini densamente simboliche. Negli ultimi versi, il dio si rivolge infine alla sua amata: con sconvolgente modernità, questa volta il dio, dopo la morte di lei, rimane solo a piangerla, incurante della propria beatitudine e immortalità, ormai inutile. L’amore è stato per lui tramite di conoscenza e amore, ma ha annientato lei e lo ha lasciato solo. 


Splendido canto d'amore, questa lirica ricorda certi quadri di De Chirico, come quelli in cui anonimi manichini riuscivano comunque a convogliare la struggente tenerezza di Ettore e Andromaca e del loro ultimo saluto; oppure, soprattutto, pare di leggere nella poesia versi che traducono l'atmosfera onirica del Canto d'amore del 1914, in cui a un muro di mattoni, in mezzo a un'anonima piazza italiana immersa nella luce del sole che cala, sono affissi un guanto e un calco in gesso della testa dell'Apollo del Belvedere. Qui il vestigio classico sopravvive in un mondo ormai surreale, lontanissimo da quello antico e in cui si percepisce lo sbuffo di una ciminiera sullo sfondo. Tutto è immobile ed evoca solitudine, angoscia esistenziale, proprio come la poesia. Né più né meno del dio della lirica, la testa di Apollo è sbalzata in una realtà altra, umana, contesta di morte e solitudine. Le parole fuori del tempo di Quasimodo, che cercano la purezza assoluta della parola poetica, appaiono del resto molto vicine alle atmosfere sospese e geometricamente irreali della pittura metafisica di De Chirico, anch'egli, d'altronde, amante della cultura classica. 


Tuttavia, il significato più profondo di questa poesia è la fragilità, la vulnerabilità connessa alla condizione umana e all'amore. Gli dei dell'antico Olimpo non amavano: erano capricciosi, incoerenti, crudeli, perché nella loro immortalità egoista non conoscevano il soffrire. Invece, il dio di questa lirica, non appena tocca, lui forse già indifferente, l'amore entro la sfera umana, scopre la passione, la sua luce accecante, eppure anche e soprattutto la sofferenza, la perdita, il dolore. Non si può amare senza soffrire: e non certo per masochismo, ma semplicemente perché l'amore induce ad affrontare i lati difficili dell'esistenza per l'altro e rende vulnerabili, dona "un cuore di carne". Così nel film Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, alcuni angeli decidono di perdere l'immortalità e diventare umani, ma scoprono subito i colori, l'amore e il dolore. Un Dio vero che abbraccia l'amore per gli esseri umani non può che finire sulla croce; altrimenti, rimarrebbe solo, come Apollion, a rimpiangere la sua immortalità.


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