sabato 6 ottobre 2018

Fiaba d'amore a S.Pietroburgo


Fiaba d'amore a S.Pietroburgo


Questa fiaba è ambientata in una città splendida, affacciata sul Mar Baltico: S.Pietroburgo, costruita tra i ghiacci dal potente zar Pietro I più di tre secoli fa. Migliaia di prigionieri furono trasferiti in condizioni disumane a lavorare all’estremo Nord per l’edificazione della nuova capitale russa e migliaia vi morirono. Sulle loro ceneri si eresse però la “Venezia del Baltico”, un misto di armonia neoclassica italiana, soavi colori pastello, luccicante sciacquio dei canali e morbida luce del Nord, che si posa leggera e obliqua sugli splendidi edifici fin nelle lunghe, chiare notti estive dell’Artico.



A S.Pietroburgo, tanto tempo fa, su di una panchina affacciata sulla Neva e sul panorama della magnifica città, tutte le sere era possibile scorgere seduta una minuta figura di donna. Era bruna e rimaneva sulla panchina ad aspettare, senza muoversi, lo sguardo perso sull'acqua; in inverno pareva fissare il candido, vaporoso volteggiare dei fiocchi di neve sopra la Neva, la cattedrale dei santi Pietro e Paolo e il ponte della Trinità; in estate rivolgeva lo sguardo al pulviscolo dorato della luce serale che ammantava le cupole delle cattedrali e il Palazzo d'Inverno. Aspettava per un’ora, tra le 10.00 e le 11.00 di sera, poi si alzava sospirando e scivolava via in silenzio. Proprio come i protagonisti delle Notti bianche di Fedor Dostoevskij, che si ritrovavano a parlare su di una panchina nelle lunghe “notti bianche”, chiare, luminose, di S.Pietroburgo, anche lei pareva obbedire a un appuntamento segreto. Ma attendeva sempre sola. Solo i gabbiani che volavano e stridevano al di sopra della Neva potevano conoscere il suo segreto.



Chi aspettava la misteriosa sconosciuta? La giovane donna attendeva il suo amore, ma si trattava di un’attesa molto particolare. Mentre fissava le acque turchine della Neva, assieme agli stridi dei gabbiani, frammenti di un passato radioso parevano riemergere dall’acqua e dai ricordi: risa e scherzi sui gradini dell’Università, sguardi timidi e dolci che s’incrociano tra gli scaffali dei libri e sopra volumi polverosi; la trepidazione che precede un incontro tanto desiderato, quanto istantaneo ed effimero, stretto dalla tirannia delle convenienze; labbra che si schiudono al sorriso, ma non riescono a pronunciare altro delle migliaia e migliaia di parole di cui il cuore trabocca. Lei lo ricordava così, alto, slanciato tra i suoi libri, con l’aria sempre assorta, aureolato dal tepore della cultura; così alto, così energico nel passo, eppure così tenero, quasi fanciullesco nell’incarnato roseo, che s’imporporava lievemente quando la vedeva e chinava il capo, per riservatezza.



Quei ricordi così dolci costituivano una sorta di nicchia tiepida nel gelo dell’inverno nordico; una nicchia ricavata entro la crudele marea della storia che li assediava da ogni parte. Lei infatti lo aveva conosciuto alla Facoltà di Diritto, quella che, all’epoca, sotto Stalin, veniva definita dai poliziotti dell'NKDV la “facoltà delle cose inutili”: le leggi, il diritto, erano cose inutili perché, tanto, sotto uno Stato totalitario in cui il capriccio del dittatore porta allo sterminio milioni di persone, in cui si fissano quote per l’arresto e la fucilazione dei “nemici del popolo”, in cui l’economia si appoggia al lavoro dei gulag e milioni di contadini sono condannati alla morte per fame, a cosa servono i diritti? Visinskij, il procuratore generale dello Stato, quello che ordiva per Stalin i processi farsa del “Grande Terrore”, lo aveva detto chiaramente: a cosa servono le prove in un processo? Basta la confessione, e confessione ottenuta sotto tortura.



Per questo, la facoltà di Diritto sotto Stalin era inutile. Eppure lei l’aveva frequentata, per i suoi libri e la sua biblioteca, anche se studiava altrove. E così lui. Mentre intorno a loro succedeva tutto questo e incombeva la scure dell’apocalisse, l’idillio era germogliato nei loro cuori. Inconfessato, inconfessabile: nutrito di sguardi e di tepidi sorrisi; lieve e vulnerabile come i petali di un anemone assediato dall’inverno. L'anemone: il fiore del vento e dell'attesa. Mentre il sole tramontava placido dietro ai tetti di S.Pietroburgo in un mare di fuoco, lei ricordava quei giorni dei loro primi incontri come i più belli della propria vita: e le si scioglieva ancora il cuore a pensare a lui, a quanto era bello, gentile, intelligente, a quanta bellezza e amore i suoi occhi le avevano comunicato pur nel pudore della loro giovanile timidezza.



E poi era arrivata la marea, la tempesta. Anche per loro. Per una sciocchezza, lei non ricordava neanche cosa, tanto si era trattato di qualcosa di insignificante, anche lui era stato incriminato; e lei si era ritrovata al di fuori di tutta la barbara trafila, a guardare terrorizzata senza capire: false accuse, tortura, processo, condanna e poi la scomparsa. Da un giorno all’altro, lui era scomparso. Chissà dove lo avevano mandato. A lei era rimasta solo l’attesa. L’attesa e la tortura dell’incertezza. Nel dolore lancinante provocato dal vuoto e dalla paura per lui – che cosa gli era successo? Chi si occupava di lui? Come mangiava? Chi lo teneva al caldo? – non le era rimasto altro che pregare. Pregava inginocchiata davanti alla sfolgorante iconostasi di una chiesa riaperta durante la guerra: fissava i volti, astratti e paradisiaci, delle icone, rivelatori di un’altra dimensione, così radiosa, così splendente, apparentemente così lontana dalle miserie di quaggiù, eppure così vicina ad esse per misericordia, e pregava. Pregava che lui stesse bene.



Era cominciata allora la lunga attesa: l’attesa così meravigliosamente immortalata da Konstantin Simonov nella sua più bella poesia d’amore:

Aspettami ed io tornerò,
ma aspettami con tutte le tue forze.
Aspettami quando le gialle piogge
Ti ispirano tristezza,
aspettami quando infuria la tormenta,
aspettami quando c’è caldo,
quando più non si aspettano gli altri,
obliando tutto ciò che accadde ieri.
Aspettami quando da luoghi lontani
Non giungeranno mie lettere,
aspettami quando ne avranno abbastanza
tutti quelli che aspettano con te.


                                            Amore e Psiche di A.Canova si trova all'Ermitage

Aspettami ed io tornerò,
non augurare del bene
a tutti coloro che sanno a memoria
che è tempo di dimenticare.
Credano pure mio figlio e mia madre
Che io non sono più,
gli amici si stanchino di aspettare
e, stretti intorno al fuoco,
bevano vino amaro
in memoria dell’anima mia…
Aspettami. E non t’affrettare
A bere insieme a loro.



Aspettami ed io tornerò
Ad onta di tutte le morti.
E colui che ormai non mi aspettava,
dica che ho avuto fortuna.
Chi non aspettò non può capire
Come tu mi abbia salvato in mezzo al fuoco
Con la tua attesa.
Solo noi due conosceremo
Come io sia sopravvissuto:
tu hai saputo aspettare
semplicemente come nessun altro.


Questa poesia era stata composta da uno scrittore e corrispondente di guerra per i soldati dell’Armata Rossa tra cui viveva e che affrontavano tutti i giorni il fuoco nemico: solo l’amore li poteva salvare dalla morte. Tuttavia, essa poteva adattarsi a ogni forma di attesa e, quindi, anche a lei: in estate, in inverno, mentre ormai più nessuno lo aspettava e tutti pronunciavano le frasi saccenti e vuote della rassegnazione, quando ormai ogni speranza pareva vana, lei continuava ad aspettare. Anche lei aveva deciso di aspettare con tutte le sue forze, cioè di avere fede. Fede in lui, fede in Dio, che glielo avrebbe salvato: e per questo, da anni, fedelmente, si recava tutte le sere su quella panchina, luogo, tanto tempo prima, del loro primo, unico appuntamento d’amore.


E lui, ora lo sapeva, da poco era tornato. Era tornato veramente. Vivo. Eppure, preferiva non vederla. Dapprincipio, per lei fu traumatico: lui era, da poche settimane, di nuovo a S.Pietroburgo, ma non intendeva vederla; così una conoscenza comune le aveva riferito. Lei aveva provato a cercarlo, perché sperava di parlargli: ma inutilmente. Di nuovo, un’altra conoscenza comune le aveva riferito, in via del tutto riservata, che, a suo parere, lui era troppo segnato dalla sua prigionia, schiacciato dal peso dei ricordi amari; per questo preferiva non vederla. Per lei ciò aveva significato un dolore enorme e l’incomprensione più totale: tanto pregare, tanto attendere sulla loro panchina, tanto sperare e ora che lui era tornato, vivo, non la voleva vedere! Perciò lei, all’inizio, era sprofondata in una cupa tristezza.



Poi, aveva capito. I romanzi ci hanno abituato agli ostacoli più banali nelle storie d’amore: familiari, motivi d’interesse, divisioni sociali. Ma i veri ostacoli all’amore vengono da dentro. Quando due creature sono state ripetutamente ferite dalla vita o dall’odio altrui, si ripiegano su stesse, si rivestono di paura e vergogna, si sentono incapaci di amare ancora. Le creature ferite rischiano di rimanere da sole; il male divide e annienta. Anche nello splendido Padiglione cancro di Solženitsyn, il protagonista Oleg non incontra più la ex-fidanzata, una volta che entrambi sono usciti dal gulag, perché il gulag ha scavato tra loro un abisso; e, analogamente, si sente incapace di ritornare ad amare. Quel muto abisso la prigionia di lui aveva scavato tra loro: non meno profondo e invalicabile di quello che tracciavano le autorità quando riferivano alle famiglie: “Dieci anni senza diritto di corrispondenza”, il che copriva semplicemente d’un velo omertoso un’esecuzione.


Tuttavia, dopo la prima crisi di sconforto, lei decise di non perdersi d’animo. E continuò ad aspettare. Inseguirlo sarebbe stato controproducente; attirarlo a sé non poteva. Allora, proprio come è detto nella poesia, decise di aspettare, aspettare con tutte le sue forze, di aspettare come nessun altro. E così lei lo avrebbe salvato dal fuoco, ad onta di tutte le morti: e lui sarebbe tornato da lei. Aspettare così significa credere, avere fede, nutrire la speranza, perché risorgere dall’ombra della morte è possibile e ritornare nella luce della resurrezione può accadere; sperare così non significa ignorare superficialmente le difficoltà, bensì, proprio perché se ne è coscienti, profondere tutte le proprie energie per superarle. Alla fine, lei ne era sicura, la sua attesa avrebbe vinto; lui non era tipo da arrendersi e non si sarebbe mai arreso, purché lei continuasse ad amarlo; era forte, ma dal suo amore avrebbe tratto ancora più forza. E lei avrebbe cucinato per lui la pasta al forno, gli avrebbe profumato la biancheria e deposto un bacio sulla fronte mentre dormiva. Lei lo amava come non mai e desiderava soltanto rivedere il suo volto, pulito e fanciullesco, per carezzarlo dolcemente sulla guancia. Perché l'amore fa miracoli.



Solo l’amore riporta alla vita. Come dice la poesia Attesa di Raymond Carver:

C’è una casa di tronchi
Con il tetto di tavole, a sinistra.
Non è quella che cerchi.
E’ quella appresso,
subito dopo una salita. La casa
dove gli alberi sono carichi
di frutta. Dove flox, forsizia e calendula
crescono rigogliose. E’ quella
la casa dove, in piedi sulla soglia,
c’è una donna
col sole nei capelli. Quella
che è rimasta in attesa
fino ad ora.
La donna che ti ama.
L’unica che può dirti:
“Come mai ci hai messo tanto?”
ADF



Note
1) La facoltà delle cose inutili è il titolo del capolavoro di Jurij Dombrovskij, pubblicato nel 1978 e denuncia autobiografica dello stalinismo; l'autore fece un continuo andirivieni tra carceri e gulag. Nel romanzo, il titolo è però riferito alla Facoltà di Diritto di Mosca. 
2) Si noti che la chiesa ortodossa ricevette qualche garanzia da Stalin per opportunismo del dittatore solo durante la guerra. 
3) La prassi dell'NKDV era di mantenere segrete le esecuzioni e di fornire alle famiglie come unica, laconica spiegazione: "Condannato a dieci anni senza diritto di corrispondenza".

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