domenica 22 ottobre 2017

Il mistero della digitale purpurea


Il mistero della "Digitale purpurea"

In disparte da loro, agili e sane,
una spiga di fiori, anzi di dita
spruzzolate di sangue, dita umane,

l'alito ignoto spande di sua vita.


Al termine della seconda parte del poemetto Digitale purpurea (1898), nei Primi poemetti, Giovanni Pascoli, dopo una lunga rievocazione dell'atmosfera candida e dolce del convento in cui risiedevano le sorelle a Sogliano sul Rubicone, inserisce appunto l'immagine sinistra della digitale purpurea: un fiore rosso, che riesuma morbose atmosfere di morte in disparte da loro, agili e sane; rosso di un rosso sangue, viene dipinto con una suggestiva analogia che lo assimila a una spiga di fiori, il che ci farebbe pensare a qualcosa di nutritivo; ma no, è una spiga di dita spruzzolate di sangue, dita umane. Il lettore rabbrividisce come davanti alle macabre tracce di un omicidio. E l'immagine del fiore insanguinato, segno di un eros sinistro, si acquatta tra le erbe che circondano il monastero, subdolo forse come il serpente dell'Eden: difatti l'alito ignoto spande di sua vita, ma forse è un'antifrasi, perché la vita diffusa dalla digitale purpurea è solo morte.


Questo poemetto però, fortemente sensuale, si conclude in maniera misteriosa, una maniera cui, a mia conoscenza, i commentatori non hanno posto attenzione. Ma ripartiamo dall'inizio. La digitale purpurea è un arbusto, con fiori a campanule color porpora, del genere Digitalis e della specie Scrophulariaceae. Le foglie contengono dei glicosidi attivi sul cuore, contro l'aritmia e in grado di aumentare le contrazioni cardiache; servono perciò nella terapia dell'insufficienza di cuore (l'assumeva anche mio padre, per esempio). In dosi massicce, può però provocare avvelenamento, con nausea, vomito, visione di aloni e di colore giallo, fino all'arresto cardiaco.

Ida e Maria, le sorelle minori del poeta, dopo la distruzione della loro famiglia erano state sistemate in un pensionato a Sogliano del Rubicone; e Maria aveva raccontato al fratello della digitale purpurea, il fiore velenoso che cresceva nei dintorni del monastero in un giardino privo di siepe. La madre maestra aveva redarguito le sue educande, avvertendole che il fiore era bello sì, ma venefico; per cui esse si erano ben guardate dal toccarlo. Pascoli trasfigurò questo insignificante ricordo in una visione di grande suggestione poetica, a metà tra il candore, la bellezza, l'innocenza e il fascino oscuro di un eros cupo.


Nel poemetto, compaiono due amiche ed ex-educande del collegio, Maria, la sorella del poeta, e una fanciulla immaginaria, Rachele; fin dall'inizio sono contrapposte in modo netto: Maria è esile e bionda, semplice di vesti e di sguardi; l'altra invece è esile e bruna, con due occhi che ardono. Si indovinano due temperamenti del tutto opposti:  una è una specie di "donna-angelo", l'altra una "donna-demonio", fatale, come in tanta letteratura decadente. Nella tipica sintassi spezzata di Pascoli, le due fanciulle rievocano gli anni del convento, la sua dolcezza intatta, il giardino chiuso, descritto nella precisione così pascoliana dei rovi, delle more, dei bossi, dei tordi che zirlano. E poi (Maria quasi non osa menzionarlo) quel fiore, fior di...Morte, risponde Rachele; e qui l'amica già appare più esperta dell'ingenua compagna: che, difatti, si affretta a spiegare di avere sempre evitato quel fiore dotato di un miele (metafora) in grado di inebriare e di immergere l'anima in un oblio dolce e crudele. L'ossimoro evoca l'effetto perverso di quel fiore.

La seconda parte della poesia tratteggia l'atmosfera paradisiaca del monastero in cui le giovinette crescevano nell'innocenza: l'azzurro del cielo di maggio, l'incenso, il profumo delle rose, delle violacciocche (probabile citazione dal Sabato del villaggio di Leopardi), il suono dell'organo, la melodia dell'Ave Maria, intonata con maggiore slancio dalle giovinette dopo una visita gradita, la gioia, alternata alla malinconia spontanea, fatta di nulla e così tipica delle fanciulle...E poi il tramonto d'oro, una metafora che descrive l'atmosfera paradisiaca di quel luogo protetto, una sorta di "nido monastico", in cui svolazzavano gli abiti bianchi e si udiva il cicaleccio delle ragazze....Eppure, discosto da tanta purezza, ecco il rosso sinistro della digitale.


Il mistero emerge nella terza parte, nella conclusione che ne rappresenta il culmine. Dopo aver ricordato gli anni della fanciullezza e adolescenza, Rachele e Maria si stringono le mani: e Rachele confessa con sguardo rapito chissà dove, di avere provato la digitale. Da sola nel bosco immediatamente vicino al giardino del convento, dopo una notte passata in sogni che la facevano ardere e poi, all'alba, erano spenti (si noti la doppia metafora, che evoca il fuoco della passione e la delusione della solitudine una volta che il sogno è svanito), si era incamminata verso il fiore, che pareva attirarla a sé con una voce misteriosa: nel bagliore di lampi lontani (si noti la sinestesia del soffio dei lampi, molto amata da Pascoli e che ricorre, ad es., ne L'assiuolo), sui terrapieni erbosi (immagine, a mio avviso, cimiteriale), con i piedi trattenuti dall'erba (l'erba la tratteneva per proteggerla? La ghermiva?), Rachele aveva provato una dolcezza tale che...

vedi...(l'altra lo  stupore
alza gli occhi, e vede ora, ed ascolta

con un suo lungo brivido... ) si muore!"


Che cosa ha visto all'improvviso Maria? Qualcosa che non aveva visto prima, di sicuro. Rabbrividisce a quella nuova vista e consapevolezza. E questa nuova consapevolezza è legata alla comprensione che, con la digitale...si muore! Però, cosa ha visto Maria? Qui inizia il mistero. A mia conoscenza, nessun commentatore da me consultato si è posto il problema diche cosa Maria abbia visto. Nel nostro manuale M.M.Cappellini - E.Sada, viene suggerito che Rachele sia un riflesso di Ida, la sorella di Pascoli che, sposatasi, tradì il "nido"; ma non viene spiegato che cosa Maria abbia visto. Nel manuale di R.Luperini, vede viene spiegato come "immagina la scena", cosa che non può assolutamente soddisfare. Il  manuale di G.Baldi afferma che "Pascoli qui gioca volutamente sul non detto, sull'indefinito, sull'ambiguo, sull'allusivo"; e viene rievocata l'interpretazione di Getto, secondo cui questa esperienza è simbolica, anticipa e riassume molteplici altre successive di Rachele, sfociate in una malattia mortale o in una passione che conduce alla morte (altri hanno pensato alla tossicomania). Di certo, Baldi ha ragione quando ricorda che, per conseguire una maggiore suggestione, il poeta ha inteso espressamente lasciare la conclusione nell'indefinito. Eppure, questo è il nocciolo della poesia ed è evidente che qualcosa, Maria, lo deve aver visto, e qualcosa di sconvolgente.


                                                              Pascoli con le sorelle Ida e Maria

Nella classe 5O l'interrogativo ha dato vita a una discussione appassionata. Del resto, si  sa, Pascoli è autore di fantasmi e misteri. Ebbene, vi offro qui le due tesi principali uscite dalla discussione: una è mia, l'altra è il risultato delle idee di alcuni studenti in particolare. Vediamole nel dettaglio.

La mia esegesi: Maria si accorge che Rachele è morta. Difatti, le due amiche, poco prima, stanno per salutarsi con un...triste e pio...ultimo saluto; Rachele piange; dice Addio!; poi parla con Maria, ma mantiene gli occhi fissi verso il vuoto, senza guardarla, come se fosse assorbita in chissà quale lontananza, lungi dalla realtà di quaggiù; infine, l'ultima parola, si muore, spiegherebbe quel che ha capito Maria osservando per la prima volta con sguardo approfondito l'amica. Rachele si comporta come un fantasma, è un fantasma; Maria se ne accorge solo alla fine.


L'esegesi della classe (risultato degli sforzi combinati di Mattia V., Francesco, Sofia e il mio famoso Dario): Rachele è morta (il che recupera la mia interpretazione), ma questo è un sogno. Solo in sogno può succedere che Maria si accorga soltanto all'ultimo dell'amica morta, cui, del resto, stringeva le mani. Difatti, aggiungo io, nella poesia si osserva una strana concentrazione del tempo: il passato del convento sembra quasi presente, pare che Rachele abbia provato il fiore velenoso anni fa, ma muoia ora; insomma, il tempo non scorre in maniera consueta, ma a salti, quasi come in sogno: ci si sposta continuamente dal presente (un presente del resto vago e ambiguo) ai flash-backs del passato). Nell'atmosfera onirica, inoltre, tutto rimane sospeso e non solo: se Maria sta sognando, Rachele è una proiezione di lei stessa, delle sue paure e desideri; Rachele esprime il desiderio di Maria stessa di provare la digitale (che rappresenta l'eros), per cui la fanciulla prova un misto di paura e attrazione, in modo ambivalente; così nel sogno, Rachele rappresenta non solo l'interdetto davanti al fascino del proibito, ma anche il risultato dell'azione che ha infranto quell'interdetto, quindi la paura di Maria stessa. Rachele è un fantasma onirico, ma riassume in sé i desideri e i fantasmi di Maria, è una proiezione di Maria.


La seconda interpretazione è sicuramente molto suggestiva e ancora più azzeccata della mia. Di certo, quella rossa digitale purpurea che affiora in mezzo all'erba e chiama tentatrice Rachele, in preda al  turbamento, ricorda molto il serpente dell'Eden. Molte le analogie tra il racconto biblico di Genesi 3 e il poemetto: nei due casi, si tratta di una tentazione, il cui esito è nefasto, letale; la tentata è una donna, infine corrotta; la tentazione si manifesta in un giardino, apparentemente uno spazio chiuso e immacolato; in chiusura, a Adamo ed Eva "si aprirono gli occhi", mentre Maria "vede": questo parallelo conferma che l'atto di "vedere" è risolutore. Forse mette conto ricordare anche che la digitale purpurea si cela tra l'erba, proprio come un serpente; come il serpente è velenosa; del resto, nel corso della storia il peccato di Genesi è stato spesso interpretato in forma sessuale; e qui l'eros tentatore a danno di alcune inconsapevoli giovinette è evidente.

In conclusione, la rossa e velenosa digitale purpurea, in Pascoli, che mai conobbe l'amore, rimane simbolo sinuoso e tenebroso dell'eros che spaventa e affascina a un tempo. 


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