lunedì 2 ottobre 2017

La bellezza trascorsa 2


La bellezza trascorsa 2


Nello stesso periodo stupiva l'Europa l'arte sublime di Antonio Canova: difatti, il primo inno a Venere trae ispirazione proprio dalla statua di Venere che lo scultore aveva lasciato nel 1812 agli Uffizi; tutto il poemetto gli è dedicato e, del resto, nella galleria del duca di Bedford, che fu un mecenate per Foscolo in Inghilterra, si trovava il gruppo delle Grazie. La statuaria neo-classica di Canova ebbe uno straordinario successo in tutta Europa per la sua levigatezza e perfezione formale; però colpiva soprattutto la luminosità delle sue opere che, a differenza di altre coeve, ben più compassate e fredde, parevano vive (e non solo perché l'autore le rifiniva con ambra o cera rosa, per offrire l'impressione dell'epidermide). Canova aveva assorbito a fondo la lezione dei classici, rivivendola con una morbida sensualità; anche per lui la bellezza diventa un valore assoluto, estraneo alle vicissitudini politiche (egli ritrasse Paolina Borghese e servì gli Asburgo, per poi concludere la sua opera al servizio del papa). Il nudo, da lui coltivato sul modello della statuaria classica, gli permette figure semplici ed essenziali, vive, eppure di una bellezza senza tempo, una grazia sconosciuta ad altri suoi contemporanei.


Tuttavia, come è noto, il mondo settecentesco guardava ormai alla classicità come a una bellezza inesorabilmente trascorsa: è proprio a quest'epoca che nasce l'archeologia e iniziano, ad es., gli scavi di Pompei. La bellezza neoclassica si tinge spesso di malinconia e nostalgia inappagate. Questa nostalgia per il bello antico, considerato inesorabilmente perduto, riaffiora spesso nell'arte contemporanea. Nel mio blog ho già parlato della Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto: elaborata nel 1967, quest'istallazione presenta un calco in gesso di una Venere del rivale di Canova, Bertel Thorvaldsen, che sta immergendosi in un mucchio di stracci. La Venere dovrebbe esprimere una bellezza ideale, ma è in realtà solo un calco (per di più,  ricavato da una statua moderna che imita quelle classiche): anche quella bellezza si è ormai banalizzata. E poi la Venere sta per finire fra degli stracci...Nella "civiltà dello scarto" non c'è più spazio per la bellezza. Eppure, forse proprio quegli stracci dovrebbero essere rivalutati, perché appartengono alle nostre vite: rappresentano la volgarità del nostro mondo, estraneo ormai alla bellezza, oppure tanti attimi di vita persi per la nostra insipienza e superficialità?


                                                Igor Mitoraj, Amore eterno

Un altro modo di affrontare l'eredità classica ci viene offerto da Igor Mitoraj, scultore polacco scomparso nel 2014. Mitora si era specializzato nella realizzazione di frammenti di busti o volti, che richiamavano la classicità: l'insistere ossessivo sui frammenti rinviava alla fragilità dell'arte, dell'essere umano, della bellezza. Non a caso, alcune sue opere furono esposte davanti alle rovine di Pompei. Mitoraj quindi non si stancava di guardare indietro alla classicità, linfa inesauribile della nostra cultura; però non voleva riesumare qualcosa di tramontato (del resto Mitoraj non sopportava proprio Canova), bensì ne presentava il carattere inesorabilmente passato attraverso i suoi frammenti, "riflessi di un'Atlantide scomparsa", come li descrisse Antonio Paolucci. Non si tratta di vera nostalgia, anche se di certo, del neoclassicismo e in particolare di Foscolo, Mitoraj ritrovava il senso dell'armonia ormai trascorsa. I frammenti di Mitoraj sembrano così sospesi fuori del tempo, "personaggi tormentati e mutili, reliquie di un mondo perduto e della brutalità della storia" (enc.Treccani). Anche in Mitoraj, come in Foscolo, la bellezza deve confrontare la sua fragilità con gli orrori del mondo storico. Forse non è un caso se da piccolo sopravvisse al tremendo bombardamento di Dresda.


                                                 Claudio Parmeggiani, Senza titolo

Qualcosa di simile si ritrova in Claudio Parmeggiani, la cui poetica si concentra sulle "assenze": per esempio, le sue famose Delocazioni non sono altro che ombre tracciate con polvere e fumo sui muri, ombre che alludono a oggetti non più presenti. Nell'opera di Parmiggiani compaiono anche libri bruciati, vetri rotti e altri segni di "fallimento". Pure nella sua opera compaiono teste di gesso che richiamano opere classiche: significativamente, queste teste sono spesso bendate, rese cieche. Dice Parmiggiani che l'arte "è un'iniziazione al silenzio", "una domanda che vuole restare tale". Questi oggetti non hanno valore simbolico, però il loro essere presenta un'assenza, anzi, un mistero. In questo senso, Parmiggiani va ancora oltre Mitoraj: egli forse presenta il mistero della bellezza scomparsa, "icona visibile dell'invisibile". Le sculture di Parmiggiani rinviano a una bellezza assoluta impossibile da rappresentare e di cui non possono che affiorare questi miseri resti. Ma quei miseri resti evocano con potenza il mistero della bellezza.

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