giovedì 30 maggio 2019

"Ritorno" a Venezia di Mario Luzi



"Ritorno" a Venezia di Mario Luzi

Mario Luzi, morto nel 2005 e la cui poesia ha attraversato quasi tutto il Novecento, è un poeta per certi versi amato e popolare (tanto che venne insignito del ruolo di senatore a vita poco prima di morire pressoché a furor di popolo), per altri invece poco letto, perché ritenuto "difficile". Era invece rinomato perché spesso interveniva nel dibattito civile e culturale con passione e genuino amore per la pace ed anche perché spesso fu chiamato a mettere la sua poesia al servizio della collettività: per esempio, nel 1999 papa Giovanni Paolo II lo volle come autore delle meditazioni della Via Crucis al Colosseo in occasione del Venerdì Santo. Tuttavia, i suoi versi ermetici, in linea con la poetica caratteristica degli anni '30, spaventano più di un lettore; eppure, alcune sue poesie sono autenticamente splendide, come quella che propongo qui e che si ispira a un viaggio di ritorno a Venezia nel Secondo Dopoguerra. La raccolta cui appartiene è Un brindisi, pubblicata nel 1947 e ancora legata al primo periodo ermetico dell'autore.


Ritorno (da Un brindisi)

Chi coglie le uve funebri
Ed il fuoco dei pampini ai giardini
Di Giudecca là sull'acqua nebbiosa
Dove affondano i tralci?
Sotto più grave cielo ritorniamo
Non diversi da allora
A guardare fra i grappoli le statue
E le navi nel nord illuminato
Vaghe per la laguna;
Ed ancora per quanto sia passato
Un secolo di noia, con vermiglia  
Voce ascoltiamo stridere gli uccelli
Da verande di rose
E ancora per la strada conosciuta
ci volgiamo incerti a guardare le aiuole
immobili e riflessi nei canali
i giardini d'amore vietati dal tempo. 



Il poeta aveva visitato Venezia prima della guerra e vi ritornò nel 1947: una foto lo immortala assieme ad altri intellettuali coevi sullo sfondo degli edifici della Laguna. Credo che nessuna poesia abbia mai rappresentato in modo così efficace l'atmosfera sospesa, malinconica di questa città unica al mondo, con tutta la sua dolcezza intrisa di rimpianto. I primi versi racchiudono una domanda retorica, che è destinata però a rimanere suggestivamente priva di risposta: siamo in autunno, probabilmente in settembre, e il poeta si chiede chi potrà raccogliere le uve del giardino che ammira, tra i pampini rosso fuoco nelle oasi di verde prospicienti il canale della Giudecca. "Ai giardini" è un modulo espressivo tipicamente ermetico, dato che i poeti ermetici (ad esempio Quasimodo) abbondano di complementi inizianti con la preposizione "a". Le "uve funebri" è un'enallage: cioè l'aggettivo "funebre" dovrebbe riguardare l'atmosfera della città, avvolta dalle nebbie, ma viene applicato, con uno spostamento, alle "uve". L'uva è così impregnata della stessa malinconica atmosfera nebbiosa che grava sulla città, tanto che i tralci paiono affondare nell'acqua. Il "fuoco" dei pampini (metonimia) brilla in mezzo al grigio "funebre" della Laguna settembrina.


Il poeta prosegue ricordando che lui e i suoi amici (sottintesi) sono ritornati dopo molto tempo, senza essere cambiati; ma questa identità col passato viene stranamente espressa da una litote "non diversi da allora", il che, a dire il vero, pare insinuare il contrario. Si ricordi che Luzi amava evocare il suo grupo di amici artisti ed intellettuali, con moduli che ricordano lo Stilnovo. Eppure loro sono tornati "sotto grave cielo": sono trascorsi anni, c'è stata la guerra, tutto appare più arduo, difficile di prima. Anche ora continuano a contemplare i "grappoli" e fra di essi le "statue": chissà  perché, questi versi evocano in me Palazzo Venier dei Leoni, il palazzo "mai finio", come dicono i Veneziani, sede della collezione Peggy Guggenheim e, appunto, incompiuto, ma dotato di un giardino entor cui sono disperse le statue della collezione. Il poeta contempla però anche le navi "vaghe per la laguna", un aggettivo che sottolinea con un'allitterazione in v l'evanescenza di queste imbarcazioni nella foschia e nella luce pallida della laguna. Ovviamente, le navi sono attraccate all'ancora: ma condividono quest'atmosfera sospesa ed evanescente, per cui appaiono "vaghe". 


E' passato "un secolo di noia": tutto il tempo trascorso (paragonato a un secolo, con un'iperbole) è stato contrassegnato dalla noia: viene in mente Leopardi, secondo il quale la vita umana alterna al dolore la noia nei momenti privi di esso; eppure, il senso del vuoto, del rimpianto, della nostalgia e dell'incompiutezza sono frequenti nelle poesie di Luzi. Pare anzi che egli sappia declinare l'amore solo come senso di perdita, di nostalgia, di assenza. E qui, infatti, lo scenario vuoto dei giardini popolati di viti nella foschia, tra pampini fiammeggianti, grappoli e statue, pare evocare proprio un'assenza d'amore, o comunque un vuoto esistenziale. Ricordiamo che la poesia ermetica di Luzi è poesia sommamente esistenziale, come quella di Montale; e la poesia esistenziale ricerca solo due scopi: la verità e il senso della vita, che solo dà accesso alla felicità. Tutto ciò non è di quaggiù, dove ci immergiamo nella noia e nel grigio (che trapela visibilmente dai versi, anche se questo colore non viene mai citato). 



Tutto è immobile, ghermito dalla noia, eppure l'io lirico e i suoi amici ascoltano ancora lo stridio degli uccelli, sicuramente dei gabbiani, dalla "vermiglia voce", una magnifica sinestesia che evoca la vita, come il "fuoco" dei pampini: ed essi paiono levarsi da sublimi "verande di rose". E ancora, i protagonisti si volgono per cercare altri fiori, "aiuole / immobili" (si noti l'enjambement che sottolinea il sostantivo e l'aggettivo staccandoli) e infine, gli splendidi "giardini d'amore vietati dal tempo". Dicevo ai miei ragazzi che solo per questo verso Luzi avrebbe meritato il Nobel che gli hanno mai dato: i giardini d'amore evocano lo splendore della vita, della bellezza, dell'amore, inesorabilmente perduti. Tutto appare immutato e, al tempo stesso, ricorda l'effimero della nostra esistenza, l'inesorabile trascorrere del tempo: poche città convogliano questa sensazione profonda e contraddittoria come Venezia. In questa lirica torna così, grazie ad alcune splendide immagini di una Venezia immobile nel tempo, il binomio movimento - immobilità, il fluire della vita, tema caro a Luzi; ma anche il "volgersi" è ricco di significato. 



Agli amanti di Montale ricorderà l'uso dell'analogo verbo in Forse un mattino andando in un'aria di vetro, in cui il poeta si "volge" per carpire un attimo di verità nell'assurdo esistenziale; a me questo verbo ricorda però sempre Orfeo ed Euridice e la loro multiforme vicenda attraverso la letteratura europea. Solo gli amanti si voltano a guardare chi hanno lasciato, diceva anche Svevo nel suo La coscienza di Zeno: e, aggiungo, si volgono perché lasciano indietro il cuore. Qui il volgersi è spontaneo, un naturale ricercare la bellezza e l'amore passati, così come Orfeo si volgeva a cercare Euridice, carpita dalla morte. 
In effetti, Luzi conosce molto bene questo senso di perdita ed assenza, spesso associato alla giovinezza e che gli deriva però anche da un evento tragico vissuto da lui agl'inizi degli anni '40: la cognata Renata Monaci, infatti, sorella della moglie Elena, si suicidò allora giovanissima. Perciò Luzi ricorda spesso la morte di fanciulle: e la sua traduzione più celebre e splendida dal francese è ispirata proprio a questo motivo. Si tratta di una lirica del raffinatissimo poeta cinquecentesco della Pléiade Pierre de Ronsard. Questa traduzione venne premessa alla Barca, la prima raccolta di Luzi, dopo la prima edizione del 1935. E' talmente bella che me ne servo per la chiusura. 



Copia da Ronsard (Nella morte di Marie)
Come quando di maggio sopra il ramo la rosa
Nella sua bella età, nel suo primo splendore,
ingelosisce i cieli del suo vivo colore
se l’alba dei suoi pianti con l’oriente la sposa,

nei suoi petali grazia ed Amor si riposa
cospargendo i giardini e gli alberi d’odore;
ma affranta dalla pioggia o da eccessivo ardore
languendo si ripiega, fogli a foglia corrosa.

Così nella tua prima giovanile freschezza,
terra e cielo esultando di quella tua bellezza,
la Parca ti recise, cenere ti depose.

Fa’ che queste mie lacrime, questo pianto ti onori,
questo vaso di latte, questa cesta di fiori;
e il tuo corpo non sia, vivo o morto, che rose.


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