martedì 5 novembre 2019

Oltre la bufera (Marco Cassini, 2019)



Oltre la bufera (Marco Cassini, 2019)

C'è stata un'epoca, qui nel Ferrarese, in cui la rabbia dei braccianti infiammava le campagne e i socialisti, comprensibilmente, raccoglievano il favore della masse alla fame; contro di loro partivano allora le squadre nere, che, come uccelli del malaugurio, seminavano terrore e violenza a colpi di manganello e facevano ingollare litri di olio di ricino alle loro vittime. Non di rado, ci scappava il morto, come accadde in Piazza Castello. Era l'epoca in cui, per esempio, mia nonna Maria Cristina, allora di appena 25 anni, da sola nella casa di famiglia con 4 anziani allettati, 2 bambine sue e 4 della cognata ammalata, si chiudeva in casa la notte per il terrore, con tutte le bambine intorno, a pregare, mentre dal borgo vicino provenivano gli urli delle vittime pestate a sangue dai fascisti.


Era l'epoca della bufera del titolo, magnificamente indovinato, dell'ultima fatica di Marco Cassini e Stefano Muroni, "Oltre la bufera", film molto intenso sul ministero e il martirio di don Giovanni Minzoni, il sacerdote ucciso ad Argenta dai fascisti la sera del 23 agosto 1923. A Marco Cassini si deve la regia, attenta e curata; a Stefano Muroni, invece, l'interpretazione del protagonista, ma anche la motivazione, l'idea e una gran quantità di lavoro dietro le quinte, per assicurare il coronamento e il successo di quest'impresa; un'impresa che, nonostante i mezzi ridotti a disposizione, è riuscita a raggiungere meritatamente la platea nazionale e non ha nulla da invidiare, anzi, alle meglio foraggiate pellicole che hanno a disposizione le grandi possibilità fornite dai giganti della produzione cinematografica.  Questo per sottolineare il surplus d'impegno che un'iniziativa del genere deve avere richiesto e il discernimento con cui i mezzi a disposizione sono stati impiegati (lo si nota, ad esempio, dall'accortezza con cui è stata calibrata la scenografia).


Il film si apre col ritorno di don Giovanni Minzoni ad Argenta dopo la Prima Guerra Mondiale. Uomo di grande valore e coraggio, aveva servito nell'esercito come cappellano militare, ma era stato anche insignito di varie medaglie al valore per il suo ardimento sul campo e per come aveva guidato i suoi uomini all'attacco - ricordo per inciso che certi attacchi al nemico, sul fronte del Piave, terminavano spesso in una carneficina, specie quando gli uomini partivano all'attacco alla baionetta contro uno schieramento di mitragliatrici. Stefano Muroni, con la sua recitazione, riesce a conferire intenso spessore etico e forte rettitudine e dignità a questa figura, purtroppo non sufficientemente ricordata neanche qui a Ferrara: non conto più gli errori storici che ho udito in questi giorni di programmazione del film, segno che pochi ricordano chi era davvero don Minzoni. Invece, è stato forse la prima vittima illustre del fascismo, in quanto ucciso ben un anno prima del più noto Giacomo Matteotti (il deputato socialista di Fratta Polesine, fatto sparire tra il giugno e l'agosto del 1924, dopo le elezioni truccate che portarono il fascismo a stravincere). La pellicola non è propriamente costruita come un film storico, dato che possiede piuttosto un respiro teatrale, esaltato dai frequenti e intensi primi, se non anche primissimi piani, nonché dalla costruzione attenta, molto concettuale, dei dialoghi: la vicenda appare così condensata per sommi capi e, soprattutto all'inizio, si fatica un po' a orientarsi nel dettaglio degli avvenimenti storici, sospesi in modo generale nel biennio precedente la Marcia su Roma. Poi, il ritmo si accelera progressivamente, man mano che ci si avvicina alla conclusione.


Tuttavia, il succo della vicenda c'è, eccome, e rispetta nettamente i fatti storici. Il ritorno di don Minzoni dalla guerra; la sua amicizia con alcuni socialisti della zona; i dettagli della crisi modernista (come il particolare che i sacerdoti, allora, per rispetto della tradizione, non potevano andare in bicicletta!); l'incomprensione delle gerarchie ecclesiali, troppo attendiste col fascismo; l'uccisione, da parte dei fascisti, di un militante socialista di rilievo, massacrato a furia di botte nelle campagne; l'impegno religioso e sociale di don Minzoni, che moltiplicò le iniziative ad Argenta, dalla cooperativa femminile - frutto di uno squisito e inconsueto, anzi precocissimo interesse per la condizione femminile - agli scout cattolici, all'opera ricreativa per i giovani; il contrapporsi di queste iniziative a quelle ricreative fasciste; le minacce, le intimidazioni, la prossimità agli squadristi che organizzarono la spedizione punitiva di un celeberrimo gerarca ferrarese come Italo Balbo, il cui ruolo nella vicenda è sempre rimasto discusso. Gli assassini di don Minzoni furono sì processati (e poi amnistiati...) dopo la guerra, nel 1947, per omicidio preterintenzionale: in sostanza, avevano ucciso don Minzoni durante una spedizione punitiva che non mirava propriamente all'omicidio, ma che aveva passato il segno, finendo in un massacro. non è mai stato stabilito con chiarezza se Balbo, oggi sepolto nella nostra Certosa (non lontano da mio nonno, tra l'altro), fosse a conoscenza di ciò. Del resto, Balbo fu, probabilmente, il più intelligente e spregiudicato, forse anche il più capace tra i gerarchi fascisti della prima ora, tanto capace da suscitare la gelosia del Duce (e da fare une pessima fine in Libia). Ma era un fascista: nel film viene presentato come più prudente.


Un film del genere, di grande spessore contenutistico, etico e di genuina qualità, appare davvero utile, anzi necessario in questo periodo segnato sempre più da violenze e intolleranza di vario genere. La grande dirittura morale di don Minzoni, il suo ascendente, determinato e pacifico, sulle persone che lo circondavano e gli erano affezionate, costituisce l'ossatura intorno a cui si organizza la vicenda. Tra gli altri interpreti, vorrei ricordare soprattutto Piero Cardano, che interpreta l'antagonista fascista del sacerdote e che ben rappresenta il nucleo di violenza cieca dello squadrismo fascista: io lo ricordo nella puntata Champagne per uno della serie di Nero Wolfe, così come Davide Paganini, che qui interpreta uno degli amici socialisti di don Giovanni. Man mano che ci si avvicina alla fine, la vicenda riceve un'accelerazione  che non si limita solo al ritmo del film: è, soprattutto, un'intensificazione etica. Brilla in don Minzoni l'autenticità cristiana, il coraggio di dire "no", in modo netto, al male.

Ho voluto iniziare questa recensione ricordando alcuni fatti della storia della mia famiglia, perché la storia del nostro paese si è incarnata in profondità in quella delle nostre famiglie ed è bene che ciò alimenti la memoria; e questo, soprattutto a beneficio dei nostri ragazzi che, nella in una società sempre più vertiginosamente rapida, non riescono spesso a mantenere i contatti col passato. Anche la storia di don Minzoni, per noi di Ferrara, dovrebbe essere storia di famiglia. Ed è una storia che si apre verso il futuro e la vicenda successiva del nostro Paese. Così, l'idea di richiamare visivamente le stragi che lo hanno segnato a sangue è splendida, perché davvero don Minzoni è stato il primo (o tra i primi) di una lunga serie di morti, vittime dell'estremismo politico di ogni colore. Le scene finali in cui il sacerdote viene immolato sono davvero difficili da dimenticare.


Rettifica: nella prima versione di questa recensione avevo dato per buona la versione secondo cui il mandante dell'omicidio di don Minzoni sarebbe stato Italo Balbo. Molto gentilmente, Stefano Muroni mi ha comunicato che, in realtà, stando alle ricerche della produzione, non si è mai riuscito a stabilire la responsabilità di Balbo e che la famiglia ha sempre vinto tutte le querele in materia. Ringrazio quindi Stefano Muroni per la rettifica.

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