giovedì 28 novembre 2019

Padre Cristoforo e Don Rodrigo


Padre Cristoforo e Don Rodrigo

Uno dei momenti più esaltanti dei Promessi sposi è l'inizio del capitolo 6, quando Padre Cristoforo incontra don Rodrigo e finisce per "cantargliele chiare". E' un momento significativo anche perché rivela sottilmente le meccaniche di sopruso e violenza seguite dall'antagonista del romanzo: se, come sosteneva Italo Calvino, i Promessi sposi sono il "romanzo dei rapporti di forza", anzi, chioserei io, una delle migliori rappresentazioni del cancro della violenza entro la società italiana, questa pagina è imperdibile. E sottolineo che il problema dell'Italia è, innanzitutto, quello della violenza e del sopruso: proprio per questo, l'opera fondamentale di Manzoni ha ancora molto da dirci.


Tuttavia, non si può comprendere questo episodio se non si analizza anche quello precedente, il banchetto nel palazzotto di don Rodrigo durante il quale Padre Cristoforo arriva e cui viene, malgrado la sua reticenza, invitato a sedere. A tavola del signorotto siedono i maggiorenti locali, in vena di leccargli le scarpe: il già noto Azzeccagarbugli, che, col suo naso rosso mostra di apprezzare particolarmente i vini del convito; il podestà, che come, sottolinea Manzoni, avrebbe dovuto far giustizia invece a Renzo; il conte Attilio, cugino e compagno di scorribande di don Rodrigo, che siede invece a capotavola; infine due convitati anonimi, probabilmente due semplici comparse, chiamate a ravvivare ulteriormente l'atmosfera di adulazione che aureola il signorotto. Tutto l'episodio rivela il persistere di una profonda logica del sopruso in questo ambiente votato alla prepotenza. Nel corso della concitata discussione, vengono toccati i seguenti argomenti:


1) Una quérelle cavalleresca (desunta dal Tasso, grande specialista nel campo) che oppone due cavalieri, uno milanese e l'altro spagnolo: il milanese ha sfidato lo spagnolo, ma quest'ultimo ha fatto bastonare il messaggero che recava il cartello della disfida.
2) Una discussione sulla guerra di successione del ducato di Mantova, episodio della più ampia Guerra dei Trent'anni e che vede il contrapporsi di Francia e Spagna.
3) La questione della carestia.

In tutti e tre questi argomenti, ognuno dei commensali dimostra un atteggiamento ben preciso: il conte Attilio rivela una mentalità spiccia e brutale, tanto da approvare le (incivili) bastonature inferte al messaggero: il che fa inorridire il podestà, più attento alle apparenze e memore del rispetto dovuto agli ambasciatori. Il podestà, d'altro canto, ama l'adulazione servile, tanto che passa parecchio tempo a elogiare in modo spropositato il primo ministro di Filippo IV di Spagna, il conte duca Olivares, esagerandone le abilità.  E' evidente come il suo entusiasmo sia motivato dalla sua verve piaggina e mediocre: come si piega a adulare don Rodrigo, così il podestà è accecato dal potere (cui si avvicina per via molto indiretta, attraverso il castellano che è figlio di un protetto di Olivares) e dimostra di capire ben poco di politica. Infine, tutti i commensali, al primo accenno sulla carestia, se la spiegano, molto stolidamente, con le presunte colpe dei fornai, che nasconderebbero la farina e che dovrebbero essere, secondo loro, impiccati: spiegazioni e metodi che collimano con una visione rozza e ignorante. Violenza, sopruso e stupidità la fanno, insomma, da padrone. Bastano poche parole di padre Cristoforo, però, a far crollare almeno il primo argomento come un castello di carte: già il suo silenzio è una critica vivente di queste discussioni; ma quando viene chiesto al frate il suo parere in materia di duelli, lui si limita a proferire: "Il mio debole parere sarebbe che non vi fossero né sfide, né portatori, né bastonate". Vero però che gli altri commensali poi non gli danno ascolto (e don Rodrigo allude volgarmente e pesantemente al passato del suo ospite).


Quando invece don Rodrigo, pur di malavoglia, dà udienza al padre, la situazione evolve rapidamente al peggio, secondo un vero e proprio climax (oggi si direbbe escalation). E il peggio arriva per colpa di don Rodrigo. Don Rodrigo è un personaggio meschino: così meschino che Manzoni non si preoccupa neanche di descriverlo. Di lui sappiamo pochissimo, tutt'al più che suo padre era diverso da lui; l'autore non ce lo descrive fisicamente, non si prende neanche la briga di delinearlo dal punto di vista del carattere; il signorotto non ha niente della sinistra grandezza dell'Innominato, uomo malvagio, ma di ben altro calibro e coraggio; lo vediamo soltanto, occasionalmente, in azione e ignoriamo completamente la sua storia. Forse Manzoni avrebbe potuto renderne il carattere un po' meno superficiale e piatto se gli avesse inventato, che so, un'infanzia infelice, ma niente: don Rodrigo è caratterizzato soltanto da un piatto, volgare egoismo e Manzoni si rifiuta di perdere tempo su di lui. L'unica descrizione accessoria che ci fornisce al suo riguardo è quella del suo ambiente, il palazzotto, un luogo sinistro e fatiscente che, tra l'altro, avrebbe bisogno urgente di manutenzione (neanche gli avvoltoi impagliati e inchiodati sul portone sono in condizioni decenti!).


La nostra disamina del passo in 2M ha rivelato i seguenti atteggiamenti tenuti da don Rodrigo durante il colloquio con padre Cristoforo:
  • E' superbo e arrogante (chiede "In che posso ubbidirla?" con un atteggiamento, però, che ricorda il duce).
  • Tira costantemente al peggio le parole di Padre Cristoforo: se questi gli chiede di rettificare la situazione di Lucia, senza giudicarlo e affermando che ci sono semplicemente dei malviventi che sfruttano il suo nome per commettere dei soprusi, il signorotto si mostra offeso, quindi accusa il religioso di essere una spia; se il padre allude a Lucia, don Rodrigo lo sbeffeggia osservando che una fanciulla gli preme molto; e così via. Questa è una tipica tattica degli aggressori: interpretare negativamente anche le frasi più anodine dei loro interlocutori, per farli passare dalla parte del torto. 
  • Irride beffardamente padre Cristoforo ("Il predicatore in casa! Non l'hanno che i principi"). Del resto, già nel capitolo precedente, si era divertito a colpire il padre con pesanti e villane allusioni al suo passato prima della conversione, un vero e proprio insulto. 
  • Finge un'inesistente sollecitudine per Lucia ("Giacché questa persona le sta tanto a cuore...").
  • Ciò che precede prelude alla provocazione finale: proporre a padre Cristoforo che Lucia si ponga nientedimeno che sotto la protezione del signorotto. Come proporre a Martin Luther King di affidarsi al Ku Klux Klan...Si intravvede qui il gusto prepotente e villano di provocare il padre tanto per imporre il proprio potere abusivo.

A questo punto, come noto, padre Cristoforo esplode (noi lo stavamo aspettando da un pezzo, ma il padre è stato tanto paziente...). Questo è uno dei punti dei Promessi sposi in cui il lettore ingrassa di 10 chili di soddisfazione: forse neanche vedere don Rodrigo divorato dalla peste produce lo stesso effetto (ecco: adesso Leo, di 2M, mi accuserà di avere introdotto uno spoiler nella narrazione). Il padre non ha più paura del signorotto: la sua malvagità lo ha ridotto ad essere abbandonato da Dio, quindi impotente; e, difatti, don Rodrigo combinerà ben poco per tutto il corso del romanzo. Nella dura requisitoria del religioso contro il signorotto emerge il ritratto, scultoreo, del Dio veterotestamentario, quello prediletto dal cattolicesimo venato di giansenismo cui Manzoni stesso era stato formato; un Dio giustiziere, severo, che colpisce con le sue folgori (Ho compassione di questa casa: la maledizione le sta sopra sospesa. State a vedere che la giustizia di Dio avrà riguardo a quattro pietre, e suggezione di quattro sgherri"). La descrizione che padre Cristoforo fornisce del "palazzotto" di don Rodrigo coincide stranamente con la realtà: il "palazzotto", già all'inizio, sembra veramente ridursi a quattro pietre; e i bravi, due dei quali sonnecchiano pigramente davanti al portone, appaiono sul serio come quattro sgherri. E' come se la rovina finale di questa casa fosse già iscritta nelle sue condizioni iniziali. Il giansenismo di Manzoni non arriva però a credere nella predestinazione: il frate pronuncia un chiarissimo "Vi siete giudicato". Come il Faraone citato poco dopo, don Rodrigo si condanna da solo: e, in effetti, succede sempre così, i malvagi provocano la loro stessa rovina (perché i cattivi nelle fiabe cadono sempre nel burrone da soli?). 


Nel corso della sua requisitoria, il frate paragona don Rodrigo al Faraone egiziano che si era opposto a Mosé: questo è uno degl'indizi per cui ritengo che la vicenda di padre Cristoforo sia modellata proprio su quella del profeta biblico. Manzoni, del resto, aveva progettato, su richiesta del suo direttore spirituale, monsignor Luigi Tosi, una biografia di Mosé mai compiuta; il testo aveva illustri precedenti, come uno scritto di san Gregorio di Nissa (IV sec.). Ma l'acme del passo viene toccato dalla famosissima chiusa: Verrà un giorno...Qui si respira l'atmosfera potente del Dies irae e padre Cristoforo assurge alla statura di un profeta biblico, anzi, apocalittico. La frase riecheggia Sal. 36,12-13, secondo cui il giorno del peccatore verrà; ma quello che manca al testo biblico è la straordinaria reticenza impiegata da Manzoni. La frase, infatti, non rivela quello che avverrà, ma il silenzio con cui essa avvolge il futuro rende l'espressione ancora più impressionante. Che cosa succederà quando verrà un giorno? Potremmo esplicitare: "Verrà un giorno che la pagherai e smetterai di tormentare degl'innocenti; verrà un giorno che sconterai le tue malefatte e la tua presunta potenza crollerà come un povero castello di carte; verrà un giorno che Dio ti giudicherà e vedrai davanti a te le fiamme dell'inferno". Potremmo continuare per un pezzo, ma sarebbe inutile: tutto può essere implicito in quella straordinaria frase e reticenza, che però diventa ancora più impressionante e potente quanto più tace. Manzoni era un maestro della reticenza: e qui raggiunge una vetta. La punizione è già insita nella profezia: verrà un giorno. Basta questo per evocare tutto e basta questa sola frase per impaurire don Rodrigo, perché, e questa è la soddisfazione più intima del lettore, i malvagi vengono sempre puniti, o in questa vita o nell'altra. Del resto, questa frase possiede in sé la forza ineguagliabile della verità. 




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