domenica 30 settembre 2018

Il conte Ugolino e gli orrori della storia


Il conte Ugolino e gli orrori della storia

La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a' capelli
del capo ch'avea di retro guasto...


                                                       Ugolino e i suoi figli di J.-B.Carpeaux

"La fame fisiologica sofferta sulla terra sembra adeguarsi e continuarsi in logica sequenza nella fame psicologica di cui non sembra mai pago nell'aldilà, inestinguibile quasi come il suo dolore..." così si esprime G.Giacalone nel suo bel commento alla Divina Commedia sul conte Ugolino, celeberrimo protagonista del XXXIII canto dell'Inferno, uno degli ultimi personaggi a comparire sulla scena infernale. Al conte Ugolino ha dedicato alcuni superbi gruppi statuari il grande scultore Auguste Rodin, frutto del suo lavoro di una vita alle Porte dell'Inferno, sugli stipiti delle quali egli raffigurò vari episodi della cantica (come Paolo e Francesca, poi divenuti Il bacio). Altri artisti che hanno rappresentato la tragedia del conte morto assieme ai suoi di fame sono Charles Lobbedez, nel 1856, e lo scultore Jean-Baptiste Carpeaux, nel 1862.


                                                  Charles Delacroix, Dante e Virgilio agl'inferi

Ma chi era il conte Ugolino? Ugolino della Gherardesca, potente feudatario ghibellino, possedeva vasti territori presso Pisa e in Sardegna. D'accordo con il genero guelfo Giovanni Visconti e il di lui figlio Nino, fece prevalere la fazione guelfa a Pisa (orrore per un ghibellino), impadronendosi così del potere sulla città nel 1275: questo è il tradimento per cui è punito nell'Antenora, fra i traditori della patria. Nel 1284, dopo che Genova aveva sbaragliato Pisa nella famosa battaglia navale della Meloria, per indebolire e spaccare la coalizione avversaria egli cedette alcuni suoi castelli a Lucca e Firenze. Quella invece fu l'accusa di tradimento rivoltagli dai nemici e a cui Dante non crede (cfr. vv.84-85): dopo la pace con Genova nel 1288, il capo del partito ghibellino pisano, l'arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini finse di allearsi col conte per farne cacciare Nino Visconti, che non andava più d'accordo col suo parente; era solo una manovra per riprendere il potere e, difatti, il conte stesso fu esiliato. Ma venne poi richiamato dall'arcivescovo con il pretesto menzognero di nuove trattative: e fu allora che venne arrestato e condannato alla tremenda morte per fame nella Torre della Muda, nel 1289, assieme a due figli e due nipoti. Ruggieri ha tradito Ugolino e Ugolino ha tradito Nino Visconti e i ghibellini; i due sono condannati a scontare la loro pena assieme, ma Ruggieri, in più, ad essere roso in eterno da colui che ha fatto morire di fame. "Egli rode all'infinito quel teschio, un dolore infinito rode lui" (cfr. D'Ovidio, Nuovi studi danteschi).

                                                         Il conte Ugolino di A.Rodin

Il canto comincia con alcuni versi resi molto rapidi e incalzanti da una lunga successione di enjambements (vv.1-6); appena comincia a parlare, Ugolino ricorda il suo "disperato dolor", che lo opprime in eterno per la morte crudele dei suoi cari. Eppure, qualcosa di ancora più potente lo spinge a ricordare proprio quel dolore: il desiderio di vendetta e l'odio contro Ruggieri, perché appena lui parlerà, il vescovo traditore ne riceverà infamia. E così comincia un monologo straziante, in cui né Dante né Virgilio interloquiscono mai: è come se Ugolino fosse preso da una tale rabbia e da una tale disperazione, che va avanti a ruota, incapace di fermarsi e sordo a qualsiasi commento. E' come se fosse imprigionato ancora nella Muda, chiuso nella sua angoscia. Non gli importa nemmeno sapere chi è Dante: capisce che è fiorentino, quindi della sua stessa terra di Toscana, e questo gli basta, perché, sicuramente, da Toscano, Dante sa quello che gli è successo e conosce per esperienza la ferocia delle faide che insanguinano quelle città. Il suo tono è urlato: non a caso, ai vv. 40-42, grida una dura domanda retorica a Dante, reo apparentemente di non mostrare ancora una sufficiente commozione davanti alle sventure della famiglia condannata a morte: se non piange per questo, per cosa potrà mai piangere allora? Sembra quasi che Ugolino sia rinchiuso spiritualmente nell'odio e nella disperazione, che non ammettono requie, e psicologicamente in quella "visione a tunnel", che caratterizza chi è nel pozzo fondo dei suoi problemi e non riesce a vedere alcuna via d'uscita.


Ugolino tralascia la narrazione, per così dire, politica dei fatti che lo hanno portato alla condanna a morte e si focalizza sulla parte ignota, ingiustamente dimenticata e più orrida: quel che successe nella Torre della Muda dopo, mentre lui e i suoi aspettavano la morte. Qui Dante tocca uno dei vertici della sua arte, in grado di rendere la sofferenza di milioni di vittime lungo tutto l'arco della storia, fino ai lager e ai gulag. Difatti, come ripeto spesso ai miei studenti, anni fa, a Firenze, quando frequentai brevemente una scuola di recitazione, appresi che il direttore, un attore che aveva lavorato con Fellini, stava organizzando uno spettacolo in cui giustapponeva proprio la lettura dei versi danteschi a testimonianze su Auschwitz e l'Olocausto: il passo del conte Ugolino vi faceva la parte del leone.

Il lettore è introdotto sapientemente nel crepuscolo della cella in cui languono i cinque attraverso il "breve pertugio", la finestrella che è rimasta per loro unico ponte con l'esterno e che permette loro di vedere uno spiraglio di sole: solo da quella luce essi possono indovinare che sono passati 5 mesi ("lune", metonimia). Ed ecco, dall'angoscia onirica in cui essi vegetano, sorgere, suggestivo ed evocatore, un sogno, un incubo. Nessuno viene loro a dire che moriranno: il sogno lo rivela, assieme al sinistro giro di chiavistello che inchiavarda la porta della Torre una volta per tutte al momento in cui avrebbe dovuto invece essere consegnato il cibo (v.46). Anche questa attesa nell'incertezza è lancinante: ai miei studenti ricordo che questo succede ancora ai condannati a morte in Giappone, che ignorano la data dell'esecuzione, così come succedeva in Francia fino al 1981, anno dell'abolizione. La notte in cui alla prigione arrivava la notizia che il presidente della Repubblica aveva rifiutato la grazia, i secondini stendevano un tappeto di feltro fuori della cella del condannato, che dormiva ancora ignaro; quindi si avvicinavano in punta di piedi e scalzi, aprivano la porta senza far rumore e lo placcavano sulla branda per evitare una sua qualsiasi reazione. Il poveretto si svegliava così di soprassalto e apprendeva che era giunta la sua ultima ora. Queste scene orrende sono egregiamente riportate nel film di André Cayatte Nous sommes tous des assassins, del 1952.


Il sogno di Ugolino (condiviso suggestivamente anche dai suoi figli e nipoti, v.45) è una magnifica riedizione del motivo della "caccia infernale". Ripeto qui quanto ho ricordato, anche in questo blog, più volte: la caccia infernale è un motivo folklorico medievale, che deriva dai miti pagani, specie germanici e celtici, secondo cui gli dei andavano a caccia nella foresta la notte con i loro guerrieri. Diventati gli dei dei demoni, nel Medioevo era diffusa la credenza che il diavolo andasse a caccia di vite e anime nella foresta (luogo selvatico e della paura per definizione) durante la notte: e solo le anime pure potevano scorgerlo. In sostanza però, caccia infernale significa più in generale, specie in queste opere letterarie, che un essere demoniaco dà la caccia a un essere umano. Purtroppo, esiste chi lo ha fatto sul serio: i nazisti del campo di Mauthausen si divertivano a lanciare i loro cani contro i prigionieri (in questo caso non Ebrei), pratica sadica che chiamavano Hundeskuss, "il bacio del cane".
Nel sogno di Ugolino, lui e i figli sono rappresentati da una famiglia di lupi, con alle costole l'arcivescovo Ruggieri (un uomo di Dio nella parte del demonio!), assieme alle famiglie nobili di Pisa e ai levrieri. Si noti l'elenco dei cognomi aristocratici al v.32 e il climax di aggettivi al v.33, che rendono l'affanno della corsa; il sogno si interrompe quando le cagne azzannano le vittime, ormai spossate e incapaci di fuggire. (continua).

Nessun commento:

Posta un commento