martedì 10 marzo 2020

Salvo amato, Livia mia (A.Sironi - L.Zingaretti, 2020)



Salvo amato, Livia mia (A.Sironi - L.Zingaretti, 2020)

Una guardia giurata pedala tranquillamente fino a una villa e, mentre svolge il suo giro di sorveglianza, intravvede una figura furtiva che si defila tra la vegetazione…E’ Pasquale, il figlio di Adelina e vecchia conoscenza di Montalbano. Il cadavere di una ragazza, un’archivista molto competente, viene ritrovato, segnato da innumerevoli colpi di un’arma da punta, nell’archivio di Vigata: è Agata Cosentino, un’amica di Livia. Ma che cosa ci faceva all’archivio, chiuso per ferie e in via di ristrutturazione? Perché intorno al suo corpo mancano tracce di sangue, come se l’assassino avesse ripulito tutto?

Queste sono le prime scene di Salvo amato, Livia mia, la nuova puntata della serie del commissario Montalbano, sopravvissuta (è il caso di dirlo, il che ha risonanze inquietanti, dati i tempi che corrono) al regista Alberto Sironi, allo scenografo Luciano Ricceri (famoso per la scenografia di alcuni film di Ettore Scola o di kolossal come la serie Marco Polo) e, ovviamente, allo stesso autore, Andrea Camilleri, che ci ha lasciato l'anno scorso. Tuttavia, ritroviamo il cast e l’ambientazione cui siamo affezionati da anni in un episodio comunque di buona fattura e in continuità con quelli precedenti firmati da Sironi. Alla regia si è cimentato ora lo stesso protagonista, Luca Zingaretti.


Il primo aspetto che mi ha colpito è il rinvio della trama ad alcune vicende di cronaca italiana. Per chi ha un minimo di conoscenza della storia criminologica del nostro paese, è un’evidenza: il fatto che la vittima venga ritrovata in un luogo di lavoro deserto, chiuso per ferie, crivellata di colpi e senza la benché minima traccia di sangue intorno perché l’assassino ha fatto pulizia, rimanda inevitabilmente al tristemente famoso delitto di Via Poma (Roma, 1990, vittima Simonetta Cesaroni). Ma non sono questi gli unici richiami, a conferma del fatto che Camilleri, come ha spesso affermato, utilizzava veramente quel che leggeva sui giornali per costruire le proprie trame: può venire in mente un altro delitto celebre, quello di Garlasco (2006, vittima Chiara Poggi), anch’esso consumatosi nel silenzio assolato di una mattina estiva; oppure, ancora di più, il famoso “delitto della Cattolica”, rimasto irrisolto. La vittima, Simonetta Ferrero, laureatasi all’Università Cattolica, durante un giro di compere in centro a Milano poco prima delle vacanze (24 luglio 1971), aveva deciso di entrare nell’edificio della sua università in cerca di un bagno: ma qui aveva incontrato il suo assassino. Fu uccisa da un uomo di alta statura (come si poteva evincere dalla scena del delitto) con ben 33 coltellate. Rispetto però alla cronaca giudiziaria italiana, Camilleri (e, con lui, gli sceneggiatori) hanno il merito di porsi un problema che, spesso, non ci si pone nelle aule di tribunale: come ha fatto l’assassino a ripulirsi dal sangue prima di lasciare il luogo del delitto? Provate a seguire la cronaca e vi renderete conto che troppo spesso questo interrogativo non viene spontaneo agl’investigatori. Di certo, aggiungo io da casalinga, per lavare via il sangue basta strofinare sotto l’acqua corrente: però, lavare via quelle quantità di sangue, è comunque un affare serio, specie se uno ha paura di farsi scoprire ed ha poco tempo. Vedrete come Montalbano risolve la questione.


L’episodio è, come sempre, bello, godibile, ha sicuramente ritmo, però ho notato che l’intreccio è abbastanza debole, il che potrebbe derivare dal testo narrativo di base e non è una novità (per esempio, l’intreccio è poco curato anche ne L’altro capo del filo, del 2019): costruire un giallo o un thriller, lo so per esperienza diretta, è difficile, e non tutte le trame riescono a dare il massimo. Di solito, come qui, il principale stratagemma adottato per celare l’identità dell’assassino è quello di sviare l’attenzione dello spettatore da un personaggio, apparentemente poco appariscente: così, ho capito chi era l’assassino dopo 20 minuti dall’inizio. Ci sono poi vari spunti che non vengono sviluppati molto: il motivo dell’immigrazione sa un po’ di cliché, così come la presentazione di Caterina, l’amica della protagonista – secondo me, un omaggio al politically correct -; oppure, il motivo della denuncia sociale e l’allusione a traffici loschi rimane proprio un’allusione, ben lungi dall’approfondimento che ne venne dato nel famoso e splendido La gita a Tindari, un piccolo capolavoro da questo punto di vista. Lo stesso titolo, Salvo amato, Livia mia ha un legame abbastanza esteriore con la trama: insomma, come episodio manca un po’ della profondità, letteraria e umana, di altri, come (menziono a caso) il già citato La gita a Tindari, oppure Un covo di vipere, o il bellissimo Una faccenda delicata; ciò è imputabile soprattutto alla sceneggiatura. La serie del Commissario Montalbano rimane però una macchina ben rodata e che funziona, anzi, che fa sempre piacere ritrovare in primavera sulle reti Rai.


C’è però un motivo molto affascinante al centro della trama: l’archivio e, in particolare, quella misteriosa “sala delle memorie inutili”, in cui si trovano affastellati memoriali di cittadini ormai dimenticati di Vigata e in cui Salvo e i suoi devono compiere delle indagini. Come noterete, il motivo dell’archivio è funzionale allo scioglimento della trama a più livelli. Però, dobbiamo ricordare che i gialli di Camilleri sono, innanzitutto (e molto di più che per altri autori) soprattutto costruzioni letterarie. In Camilleri si trova spesso la fascinazione della narrazione, della trasmissione storica, delle memorie, del ricordo, della vita fatta letteratura: ne è un esempio magnifico Il cane di terracotta, ma anche Un diario del ‘43. Anche qui, l’archivio, con i suoi misteri e le sue memorie polverose, campeggia al centro della vicenda esercitando un fascino indiscusso. E a questo punto – e a vantaggio della mia attuale 5M, cui ho promesso dei collegamenti di questo episodio con i grandi autori di Letteratura Italiana – possiamo chiederci: quali sono i legami di Camilleri con i grandi della passata Letteratura Siciliana? Con Verga, con Pirandello?


La Letteratura Siciliana meriterebbe un capitolo a parte nella storia della nostra cultura italiana. Potremmo iniziare dai paesaggi della Sicilia, assolati, ampi e a perdita d’occhio, tra terreno ocra e stoppie giallastre, sotto un sole a picco, ma anche cosparsi di aranceti, fertili fattorie e giardini nascosti: i paesaggi in cui arranca, per esempio, il protagonista di Mastro Don Gesualdo di Verga per andare a visitare i suoi possedimenti. Ma la lezione raccolta da Camilleri dai suoi predecessori è, in particolare, formale. Lo strano impasto di italiano e siciliano dei romanzi di Camilleri – quello strano impasto che ha imposto nella lingua corrente termini come travagliare, accattare, gabbasisi ecc. – ha le sue radici nella lingua estremamente innovativa che Verga sperimentò nei Malavoglia: lui, a dire il vero, non si era spinto fin proprio al dialetto stretto, ma aveva creato un impasto di lingua italiana e lingua vernacolare davvero originale e che destò stupore nell’Italia in cui si stava diffondendo – almeno a scuola – la versione del fiorentino parlato un po’ artificioso dei Promessi sposi. Soprattutto, Verga aveva sfruttato modi di dire e proverbi, studiati sulle opere di Giuseppe Pitré, e si era calato nel lessico, nei giri di parole, nella mentalità dei suoi protagonisti, popolani siciliani, a dire il vero, molto lontani da lui, borghese di Catania inseritosi nelle capitali culturali del Nord Italia, Firenze e Milano. Questo, si sa, perché la sua opera, verista, doveva apparire come fatta da sé, un esempio di piena oggettività da cui l’autore doveva sembrare praticamente scomparso.


Ma l’autore, in realtà, non scompare mai. Difatti, il motivo in cui Camilleri risente di più sia dei suoi predecessori, sia della “sicilianità”, è o teatro, come si dice in Sicilia (con la t pronunciata quasi come una palatale, una c). Pirandello adorava il teatro: e si è fatto portatore di una filosofia in cui la realtà si scompone in “vita” e “forma”. La vita è quell’energia indefinibile che si sprigiona in ciascuno di noi: Pirandello era molto vicino, in questo, alle filosofie “vitalistiche” degl’inizi del secolo e credeva come a un flusso di energia, che però deve essere sempre ingabbiato in una “forma”, cioè un’apparenza cristallizzata, che ci permetta di manifestarci in società. E’ il dramma del Fu Mattia Pascal: lui prova a fuggire dalla prigione in cui si trova, una situazione invivibile in famiglia, fatta di liti e frustrazioni continue: ma non appena un morto viene preso per lui e lui potrebbe fuggire indisturbato, in realtà si accorge di non avere una “forma”, un’apparenza riconosciuta in società; non è registrato all’anagrafe, non ha coordinate, non ha niente che lo identifichi, insomma, non esiste. E così deve recuperare la sua vecchia forma, tornare al paese ligure da cui è fuggito e “risorgere”. Nella vita vera, però, non c’è più posto per lui: e allora si riduce a fare il bibliotecario. Nei termini della puntata di ieri sera, scrive le sue memorie, che vanno ad aggiungersi alle altre “memorie inutili” dell'archivio. Eppure, sembra obiettare Camilleri, quante storie affascinanti si celano tra la polvere di quelle “memorie inutili”! L’archivio di ieri sera potrebbe ricordare un po’ quello del finale del Fu Mattia Pascal, ma con una tonalità forse un poco più positiva, meno cimiteriale.


Tutta l’opera di Pirandello e, soprattutto, quella teatrale, è una cronaca della continua lotta tra vita e forma. Perciò è anche una riflessione sulle apparenze, da cui la vita spesso sgattaiola via; e basti pensare al suo Enrico IV, storia di un pazzo che crede di essere l’imperatore Enrico IV di Svevia, ma che rinsavisce, solo che non può dirlo, perché è rimasto imprigionato nel suo ruolo. E quindi il teatro pirandelliano è anche una meditazione sulla finzione. Il tema d’o teatro è onnipresente nelle vicende di Montalbano: è già “teatro” la parziale messinscena (alla lettera) per cui l’assassino cerca qui di far passare l’omicidio per un’aggressione sessuale; e il commissario si ritrova davanti in continuazione delle false apparenze. Ma, soprattutto -e in molti episodi – la soluzione del caso arriva regolarmente grazie a una grande performance attoriale del commissario, che fa un bluff, recita e, rischiando grosso (cosa impossibile da fare in una procedura vera), fingendo di sapere per certo quel che ha in realtà solo indovinato, spinge l’assassino alla confessione. Ma perché la deduzione, l’intelligenza non basta e, per risolvere i casi, ci vuole anche la finzione?


Il mondo della Sicilia di Verga, di Pirandello, anche di Sciascia e Camilleri, è un mondo molto pessimista e finanche fatalista. Sembra sempre che un’invisibile spada di Damocle, un destino avverso, siano sospesi sui personaggi. Sarà il sole che picchia, o sarà la memoria della tragedia greca: però, questi autori sono profondamente pessimisti. Verga, dopo avere descritto in modo magistrale le peripezie dei suoi vinti, i protagonisti della sua saga, persone povere come i Malavoglia, oppure in cerca di riscatto sociale come Mastro Don Gesualdo, dopo essersi immedesimato con i poveri, rinuncia a scrivere e si ritira in una sorta di esilio volontario, fuori dal mondo. Ed è un conservatore: ma non perché non si renda conto della condizione di coloro che ha descritto, ma perché, in modo sconsolato, è convinto che niente cambierà. Nel famoso Gattopardo di un altro grande scrittore siciliano, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, si dice: Bisogna che tutto cambi, perché tutto resti com’è”. A livello storico: la conquista dei Mille, l’arrivo di Garibaldi, l’annessione al Regno d’Italia, ha mutato le cose solo in superficie: la sostanza, i soprusi, permangono. Il fato è immobile. 
Disse Pirandello, nel discorso pronunciato in occasione della morte di Giovanni Verga:

Io sono nato in Sicilia e lì l’uomo nasce isola nell’isola e rimane tale fino alla morte, anche vivendo lontano dall’aspra terra natia circondata dal mare immenso e geloso.


 E ancora, disse della propria nascita:

Una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli d’un altipiano di argille azzurre sul mare africano…

Il bellissimo paesaggio notturno non nasconde la casualità di quel caddi, di un uomo che diceva di essere nato a Villa Caos (e non certo per caso) e che faticava a trovare un senso tra i dolori dell’esistenza, tra le forme impostegli e che lo imprigionavano (Raccattata dalla campagna la mia nascita fu segnata nei registri della piccola città situata sul colle…confesso che di tutte queste cose non mi sono fatta ancora né certo saprò farmi mai un’idea, continua nel suo frammento autobiografico: si noti come la sua vita fu raccattata e poi approdò all’anagrafe, segno della prigionia delle convenzioni sociali). Pirandello ha poi passato la vita a scomporre, con il meccanismo del metateatro, le vicende e i meccanismi teatrali delle pièces che portava sulla scena, a smontarle, in maniera ossessiva, incapace di apporvi un lieto fine. E, se ci pensate, neanche il Giorno della civetta di Leonardo Sciascia finisce bene. 


Avrete notato che, non di rado, il finale degli episodi di Montalbano è triste: non pochi assassini si tolgono la vita (un residuo della tragedia classica?); e, come ho osservato, anche quando Montalbano riesce ad assicurare il colpevole alla giustizia, deve fingere, recitare per farlo confessare. Teatro. Difatti. Questo però ci dice che il lieto fine, il ristabilire la giustizia, è qualcosa che può ottenere solo l’autore che, come una sorta di creatore nel suo piccolo mondo letterario, può realizzare quello che nella realtà troppo spesso non succede. Ariosto riusciva a dominare, da poeta, la realtà multiforme della vita, inserendola nell’ordine che lui intendeva. L’autore è, in letteratura, un demiurgo: crea una realtà. Quando recita, Montalbano diventa una specie di demiurgo (difatti, Livia gli ha rimproverato talora questo atteggiamento: di fare e disfare a suo piacimento, come se si sentisse un padreterno), un demiurgo che assicura la giustizia. Ma ciò va bene solo in letteratura, sembra implicare Camilleri. Per il resto, quel che rimane è la consapevolezza della crudeltà che ha tolto la vita a una ragazza buona. Nei delitti che citavo sopra, come spesso succede, le vittime erano tutte ragazze genuinamente buone, che spesso illuminavano il loro ambiente, come la vittima, Agata (= “buona” in greco) di questo episodio. Purtroppo, questo è vero. La vittimologia dice che la maggioranza delle vittime di omicidio è spesso implicata nel mondo della delinquenza oppure in situazioni pericolose, per cui è in partenza a rischio (a prescindere dalla loro etica: sia chiaro, nessuno merita però di fare una fine del genere). Ma poi esiste una discreta percentuale di persone genuinamente buone e pulite, senza alcun collegamento con un ambiente a rischio e la cui uccisione appare ancora più inverosimile e iniqua, assurda, se possibile, di quella di altri. Avrete notato che i delitti che ho citato sono, in gran parte, irrisolti: questa è la realtà che soggiace alla costruzione letteraria e che quest’ultima, infine, anche nel giallo migliore, non riesce a risolvere.



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