domenica 16 maggio 2021

"Le acque alte" di Eugenio Montale

 

"Le acque alte" di Eugenio Montale

Mi sono inginocchiato con delirante amore
Sulla fonte Castalia
Ma non un filo d’acqua rifletteva
La mia immagine.
 
Non ho veduto mai
Le acque dei piranha. Chi vi s’immerge
Torna alla riva scheletro scarnificato.
 
Eppure
Altre acque lavorano con noi,
per noi, su noi con un’indifferente
e mostruosa opera di recupero.
Le acque si riprendono
Ciò che hanno dato: le asseconda il loro
Invisibile doppio, il tempo; e un flaccido,
gonfio risciacquamento ci deruba
da quando lasciammo le pinne per mettere fuori gli arti,
una malformazione, una beffa che ci ha lasciato gravidi
di cattiva coscienza e responsabilità.

                                                       Le Cinque Terre, patria di E.Montale

Parve che la ribollente zavorra su cui mi affaccio,
rottami, casse, macchine ammassate
giù nel cortile,
la fumosa colata che se ne va
per conto suo e ignora la nostra esistenza,
parve che tutto questo fosse la prova del nove
che siamo qui per qualcosa un trabocchetto o uno scopo.
 
Parve, non pare…In altri tempi scoppiavano
Castagne sulla brace, brillava qualche lucignolo
Sui doni natalizi. Ora non piace più
Al demone delle acque darci atto che noi
Suoi spettatori e correi siamo pur sempre noi.
                                    (da Diario del ’72)

                                                         Tempesta di notte, Aivasovksij

Questa poesia di Eugenio Montale appartiene all’ultimo periodo del poeta, quello che inizia con la raccolta Satura (1971), un mélange di argomenti e stili vari, come allude il titolo; Satura, infatti, era il nome del genere letterario latino per eccellenza, la satira, caratterizzata fin dall’età arcaica dall’estrema varietà (non a caso, il termine deriva da satura lanx, il “piatto pieno” offerto nelle cerimonie agli dei). Varietà tematica, varietà stilistica, ma, soprattutto, un tono basso, dimesso, prosastico, in linea con la satira antica, sembra contrassegnare questo nuovo periodo montaliano, da quando il poeta appare sempre più disilluso di fronte alla marea di volgarità che incombe sulla cultura europea a causa del consumismo. Questo stile, sostanzialmente, non cambia nelle raccolte successive, fra cui, appunto, Diario del ’72.

Nel dattiloscritto originale del 1°/1/1972, questa poesia aveva ricevuto come titolo primitivo (e molto espressivo) Diluviale, allusione a una catastrofe incombente e all'antico diluvio. Difatti, essa insiste per tutta la sua lunghezza, che consta di versi liberi molto irregolari (un caso?), sull’immagine dell’acqua. Spesso lo dimentichiamo, ma  l’acqua è un elemento non solo salutare, legato alla freschezza, in grado di dissetare e purificare, ma anche minaccioso: già negli Ossi di seppia, Montale aveva dedicato un intero poemetto, suddiviso in 9 parti, a Mediterraneo, allegoria della durezza dell’esistenza. Qui il poeta gioca sul motivo dell’acqua per presentare delle immagini affini a quelle più terribili dell’elemento acquatico: l’acqua come diluvio, come massa inarrestabile e vorticosa, l’acqua metafora di una difficile condizione dell’esistenza, sempre più difficile dacché gli esseri umani si lasciano irretire dal miraggio dell’accumulo, del materialismo e del consumismo. Così non stupisce che, verso la fine, l’acqua diventi tristemente anche l'onda inquinata che si trascina dietro cumuli di spazzatura, come avviene del resto di vedere sempre più spesso. Ma andiamo per ordine.


Caos. Genesi di I.Aivasovskij
Nei primi 4 versi il poeta afferma di avere provato a rispecchiarsi, novello Narciso, nella fonte Castalia: preso da un delirante amore, probabilmente per la poesia, egli ha cercato così la propria immagine in quella che gli antichi consideravano la fonte di Apollo, datrice del dono della poesia, la sorgente che scaturiva tra le rocce Fedriadi nei pressi del tempio di Delfi e che, pare, era stata in origine una fanciulla amata dal dio. Eppure, in quell’acqua l’io lirico non si ritrova: il parallelo con Narciso lascia intendere che la sua pretesa era eccessiva, forse inutilmente vanitosa; il poeta, che ama di solito ironizzare sulle proprie velleità poetiche, si ritrova così, come al solito, alla casella d’inizio, privo di un’identità (quell’identità che non ha mai trovato e che lui ricavava, come afferma spesso negli Xenia, i componimenti dedicati alla moglie Drusilla, da un dono di lei). Tutto sommato, però, non gli è andata così male: lui non è stato neanche vittima dell’estremo opposto descritto nella seconda strofa, le acque dove i temibili piranha scarnificano ogni preda che incrociano. Modestamente, l’io lirico si ferma in mezzo, in una condizione forse di mediocrità.

Al centro della poesia, però, egli evoca altre acque che lavorano con noi, / per noi, su noi: sembrano le acque dell’Oceano, quello che, nell’antica mitologia greca circondava la terra e che altro non era se non l’estremo margine dell’abisso e del caos primordiale; sono le acque che evocano l’opera inesorabile della natura e del tempo, indifferenti agli esseri umani (qui si avverte forse un alito di Leopardi), quelle che si riprendono / ciò che hanno dato, cioè le onde che trasformano instancabilmente l’ambiente e gli esseri, erodendo, lisciando, ingoiando, assorbendo e riassorbendo, espressione dell’opera indifferente e mostruosa dell’universo. Questo lento, ma inesorabile flusso e riflusso, che tutto divora, è sia con noi, cioè ci accompagna nella vita, sia per noi, dato che, a volte, ce ne possiamo persino avvantaggiare, ma anche su noi: cioè ci sommerge. E sempre siamo in procinto di essere risucchiati anche noi, fin da quando abbiamo assunto la  condizione umana e ci siamo ritrovati corredati di arti invece che di pinne, lasciando la situazione animale e, soprattutto, acquatica. Forse, pare dire Montale nel suo cupo scetticismo, sarebbe stato meglio se fossimo rimasti con le pinne: la condizione umana gli appare una malformazione, una beffa, per cui siamo gravidi di responsabilità, perché siamo esseri dotati di consapevolezza, ma, purtroppo, anche di cattiva coscienza. Tanto ci pare promesso, tanto poco, anche per colpa nostra, riusciamo a raggiungere. 

                                                                    L'onda di I.Aivasovkij

La strofa successiva, anch’essa volutamente irregolare, ci presenta invece un flusso continuo di immondizia, che coinvolge il cortile della casa del poeta: è una delle tante immagini della spazzatura  che diventano, nei versi di Montale, simbolo della disfatta esistenziale del II Dopoguerra, quando comincia a prevalere un miope materialismo; un bel parallelo può essere Xenia II,14, L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili, ispirata all’alluvione di Firenze del 1966. Questo flusso che scorre del tutto incurante degli esseri umani (rottami, casse, macchine ammassate) dapprincipio doveva essere un segno positivo: di cosa? La prova del nove / che siamo qui per qualcosa. 

La poesia di Montale cerca sempre o la verità o il senso dell’esistenza: se pensiamo che la sua poetica era basata, negli anni ’30, sul correlativo oggettivo, cioè presentava in poesia oggetti che, alla maniera di T.Eliot, dovevano evocare pensieri ed emozioni, appare particolarmente triste il fatto che la poesia del Montale più tardo si trasformi in una ribollente zavorra di oggetti, un caos dell’assurdo, privo di un qualsiasi senso. E’ il naufragio della vita e della lirica: un poeta recente, Giorgio Linguaglossa, ha persino accusato Montale di avere aperto la via, con il suo stile tardo, aperto alla banalità del quotidiano e scettico, all’attuale crisi della poesia. Gli oggetti erano, una volta, “segno”: ai tempi delle Occasioni (1939), potevano essere la scintilla che porta scritto “più in là”, come sosteneva proprio lui in passato; ma ora tutto appare un possibile trabocchetto. E’ triste che, in fondo al verso, un trabocchetto o uno scopo siano messi sullo stesso piano, come se lo scetticismo, infine, prevalesse.

                                                                  L'onda di I.Aivasovkij

La forte anafora
parve rievoca il verbo che, una volta, nello Stilnovo, aveva il significato di manifestazione pressoché divina: Tanto gentil e tanto onesta pare, diceva Dante di Beatrice; ma Beatrice portava a Dio e Ne rappresentava la grazia. Montale ha amato lo Stilnovo e la promessa insita in esso di un “oltre” più luminoso. Ma ora parve, non pare…Il tempo delle rivelazioni sembra finito. In passato c’era una qualche luce, c’era la possibilità di un dono: il secondo verso di quest’ultima strofa evoca l’atmosfera semplice degl’inverni di campagna, quando si mettevano le castagne ad abbrustolire sulla brace e si accendevano i lumini di Natale (si noti la costruzione a chiasmo, che pone le luci delle braci e del verbo brillare al centro). Ora il demone delle acque, quel che forse Leopardi avrebbe chiamato “Arimane”, cioè l’entità impersonale e indifferente che sembra presiedere all’universo in cui vaghiamo, risucchiati senza una meta, il demone delle acque non ci vuole più riconoscere per quel che siamo. 

L’ultimo verso sigla la difficile ricerca di un’identità sicura, uno dei tormentoni di Montale: e anche se noi siamo spettatori e correi del caos mondano, non possiamo ritrovare un rispecchiamento, né un riconoscimento in quel demone delle acque, così come, all’inizio, l’io lirico non si riconosceva nella sorgente Castalia. L’anello si chiude e l’essere umano si ritrova in un’inesorabile condizione di alterità rispetto al mondo: né le acque della preziosa fonte Castalia, né il flusso caotico che tutto divora possono rispecchiarlo. Nonostante lo scetticismo, nonostante l’agnosticismo che proibisce a Montale di sperare – tanto che diventa, al termine della sua esistenza, sempre più dubbioso e pessimista – egli implicitamente sottolinea questa dignità irriducibile degli esseri umani, che, da quando hanno gli arti e non le pinne, hanno compiuto un salto gigantesco, specie in termini di responsabilità, rispetto al resto del cosmo inconsapevole. Mistero stupendo e tremendo a un tempo. Forse la speranza in Montale si ritrova non tanto nell’esterno dell’essere umano, trascinato dall’inesorabile rapina del tempo e dell’esistenza, quanto nel suo intimo, che pur sempre trascende il flusso caotico che tutto trascina.


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