giovedì 3 maggio 2018

Un giardino alla rovescia: "Meriggiare pallido e assorto" di E.Montale



Un giardino alla rovescia: "Meriggiare pallido e assorto" di E.Montale

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche. 



Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.



La poesia più nota, forse, del Novecento italiano, è stata tra le prime redatte da Montale: nel 1916, prima di partire per il fronte, il poeta aveva solo vent'anni e compose questa lirica, poi inserita negli Ossi di seppia. Come si sa, la prima raccolta di Montale, pubblicata nel 1925, immerge la lirica nel paesaggio salmastro e scosceso delle Cinque Terre, dove lui passava le estati al mare con la famiglia; proprio quel paesaggio diventa un repertorio di immagini per rappresentare la vita e la sua asprezza.
Qui, gli elementi del paesaggio diventano cifra dell'ardua condizione esistenziale dell'essere umano; e Montale non cessa, per tutta la vita di interrogarsi su questioni di carattere filosofico, esistenziale, spirituale. Nel corso degli anni egli definisce se stesso "nestoriano smarrito": lo smarrimento si coniuga alla definizione dell'eresia che separava eccessivamente l'umanità dalla divinità di Cristo. Un po' come gli antichi epicurei, Montale ritiene che gli dei, se anche esistono, si disinteressano dell'uomo. Questa lirica diventa allora una metafora della vita.


La poesia di Montale è filosofica. Si pone alcune questioni fondamentali: conoscere la verità e il senso della vita. Montale è una specie di scettico e, talora, amareggiato Ponzio Pilato che chiede al Cristo: "Che cos'è la verità?". Protagonista della crisi del Novecento, grande lettore della filosofia antica, moderna e contemporanea, soprattutto di Schopenauer, ma anche di Leopardi, l'autore dubita che si possa arrivare mai da un lato alla verità, dall'altro al senso della vita; e questo rappresenta instancabilmente nelle sue poesie. In Schopenauer trovava l'idea che i fenomeni sono illusione, coperti come sono dal "velo di Maya" (Il mondo come volontà e rappresentazione, 1818), mentre l'uomo è abitato da un'insaziabile, irrazionale volontà che anima la sua esistenza; in Leopardi, invece, egli rinveniva l'idea della "natura matrigna" (quasi un controcanto alle Myricae di Pascoli, ha osservato A.Marchese).


Ma Montale, che si potrebbe definire, in senso lato, "esistenzialista" (non come appartenente all'omonimo movimento filosofico, ma in quanto interessato al dibattito sull'esistenza), conosceva e amava anche altri autori intrisi di anti-intellettualismo e di una paradossale consapevolezza dei limiti della ragione: Pascal, il russo Sestov, Kierkegaard, Doestoevskij. Si era avvicinato alla tormentata riflessione religiosa modernista, grazie alla sorella Marianna (che gli faceva da chioccia e condivideva con lui molte letture) e a sacerdoti barnabiti da cui lei si faceva consigliare, come padre Trinchero. Tra l'altro, Montale si sentiva un "inetto", inadeguato alla vita pratica quotidiana (quasi una trasposizione del motivo sveviano): assediato dalla malinconia, ironico, consapevole dei suoi limiti, l'autore si è in seguito descritto come in "totale disarmonia con la realtà" (cfr. Il secondo mestiere. Arte, musica e società, raccolta dei suoi interventi sul Corriere della sera). Proprio per questo motivo, da giovane fu attratto dalla lettura del diario di un autore molto vicino a questa sensibilità da "inetto", i Fragments d’un journal intime di Henri-Frédéric Amiel (1821-81).


Il giovane poeta ha respirato vari influssi letterari coevi: dalla triade Pascoli, D'Annunzio (quello del Poema paradisiaco), Gozzano, dedita a una poesia sintatticamente più semplice e prosastica, al frammentismo vociano, da Sbarbaro, altro ligure (Pianissimo), ai geni simbolisti Baudelaire e Rimbaud, che lui adorava; addirittura, del simbolismo egli recepisce la commistione artistica e il gusto per la sinestesia, tanto che, colpito da Debussy, sogna di fondere poesia, colori e musica.
In seguito, l'autore, per definire  meglio la sua poetica, ha parlato di "correlativo oggettivo", alla maniera di Thomas Eliot nella Waste Land. Il correlativo oggettivo è semplicemente un oggetto che, evocato in poesia, suscita emozioni nel lettore come le ha suscitate nel poeta. Non è propriamente un simbolo: i simboli sono forme che rinviano a una molteplicità di contenuti e traslati. Non è neanche del tutto un'allegoria: l'allegoria è una forma che rinvia a un contenuto traslato preciso. Metafore e similitudini, invece, sono procedimenti retorici che mettono in comunicazione insiemi semantici, di significati, diversi (ad es., "i capelli d'oro" connette l'insieme dei metalli preziosi con quello del corpo umano"), arricchendo così il discorso. 


Ma qui è diverso. Gli oggetti sono veri, reali: essi evocano però sensazioni del soggetto. Giustamente, la poesia di Montale è stata collegata all'arte metafisica di De Chirico: precisa, netta, essa delinea oggetti e luoghi di tutti i giorni, come piazze e monumenti; ma li sospende in un'atmosfera al di fuori del tempo e quei luoghi od oggetti assumono una valenza che va al di là di loro stessi. Sono "metafisici" appunto. Anche gli oggetti di Montale evocano sensazioni al di là  di loro stessi.Solo, sono oggetti molto comuni, che di solito non appartengono al pantheon delle metafore poetiche consacrate dalla tradizione. Oppure sì? Inoltre, proprio perché provengono dalla soggettività del poeta, non dalla tradizione, trasmettono collegamenti e sensazioni unici. Eppure, stranamente, sulla pagina di Montale assumono un valore senza tempo.


In questa poesia, l'io lirico delinea una sua passeggiata nella natura ligure: lo stile è ellittico, senza verbi reggenti, e la poesia consiste di un cumulo di infiniti che, accostati gli uni agli altri descrivono le azioni di lui o della natura. Così, sembra che tutto sia sospeso fuori dal tempo, proprio in una dimensione metafisica. E' un pomeriggio assolato, vicino a un muro arroventato (che ritorna, non a caso, ad anello alla fine); la natura si riassume nel verso dei merli e nel fruscio dei serpenti, in radi cespugli e sterpi. A mio modesto avviso, i pruni e sterpi del v. 3 non sono privi di echi del XIII dell'Inferno dantesco, in cui l'orrida flora della selva dei suicidi è costituita proprio da pruni e sterpi; anche le serpi appaiono sinistre. Del resto, si noterà che Montale impiega qui molte sonorità aspre, un po' come le stesse rime petrose di Dante, così tipiche dell'Inferno. Spesso (scricchi, schiocchi) si tratta di dure onomatopee. Insomma, il giardino che vuole descrivere il poeta è pieno di risonanze di morte, quasi infere.


In mezzo a questa natura desolata, inaridita, Montale (che molto conosceva sia di botanica, che di entomologia), contempla le file di minuscole formiche: così minute e impotenti, esse ricordano la piccolezza degli esseri umani, che si affannano ugualmente senza posa. E mentre, nella terza quartina, si leva il frinire delle cicale nel meriggio assolato, l'io lirico contempla in lontananza il mare, descritto splendidamente nel suo ondeggiare dalla metafora "scaglie di mare". Si ricordi che il mare, in Mediterraneo, poemetto in parti che appartiene agli Ossi, rappresenta la violenza della vita; e tutto questo paesaggio assetato rinvia a una condizione esistenziale difficile, assetata anch'essa. L'ultimo correlativo oggettivo è proprio il muro: come tanti muri di proprietà liguri, esso è incoronato da cocci di vetro con funzione deterrente: quel muro rappresenta l'impossibilità di trovare il famoso "varco", la via verso la verità e il senso della vita e del suo travaglio (si noti la lunga serie di assonanze in gl dell'ultima strofa, di 5 versi).


I correlativi oggettivi qui impiegati sembrano inusuali: e certo il panorama ligure era inusuale nella poesia italiana, a parte forse il precedente di Camillo Sbarbaro. Eppure, questo strano paesaggio, accecato dal sole e pieno di animali striscianti, sembra un locus amoenus alla rovescia. Non giardini, acque, fontane, erba, fiori: ma un'immagine desolata, di sterpi, biscie, terra inaridita, formiche e il mare, minaccioso, ma evocatore, lontano. E qui vale la pena ricordare ancora Leopardi.
Nel 1826, mentre era a Bologna (il 19 aprile), egli compose una pagina celeberrima dello Zibaldone, detta "Il giardino della sofferenza", in cui ribalta la tradizionale e idilliaca immagine del locus amoenus.

Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare....

La natura è ormai completamente matrigna. Nel mondo non esiste armonia: esiste solo il dolore e il male, universale.

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