martedì 17 marzo 2020

La 4M e la 4N nel gran Milano! (4 puntata)



La 4M e la 4N nel gran Milano! (4 puntata)

Sembra che siano passate ere geologiche e che allora scorrazzassero per Milano i dinosauri, ma neanche un anno fa, io e i miei studenti di 4M (ora 5M), cui si erano aggregati quelli dell’attuale 5N, con l’amabile e sollecito sostegno delle colleghe Beatrice (Latino) e Marilena (Religione), eravamo in viaggio d’istruzione a Milano: una Milano ben diversa da quella silente di adesso, degna dell’antico “Intervallo” (con la musichetta di sottofondo). Anche se l’atmosfera ora è drammatica, per non dire molto, ma molto grave, riprendo qui, dopo lunga pausa, la mia “epopea” della gita a Milano dell’anno scorso per tirare su il morale di tutta la mia platea: sono sicura che ce n’è bisogno. Quindi, rieccoci qui, io, le colleghe e i miei studenti, in vena di ricordi, per di più ricordi che riguardano proprio il capoluogo della Lombardia, la regione più colpita dall’epidemia. Che i ricordi siano piacevoli (specie quando dilaga la preoccupazione, si è rintanati a casa e, a parte la vita normale, sono saltate inesorabilmente più o meno una dozzina di gite) me lo dice il fatto che, qualche giorno fa, circolava sulla nostra chat interna di 5M un video proprio di una di quelle sere, quella fatidica del giovedì 20 marzo in cui siamo usciti fuori. Ma procediamo con ordine.




Se non erro, alla fine della terza puntata avevo lasciato il mio pubblico in sospeso (suspence…) con la questione fatidica del “bosco verticale”. Lo avremmo o non lo avremmo visitato? Posso affermare che ormai, il giovedì, la questione era diventata un vero e proprio “tormentone”. La sera del mercoledì votammo democraticamente la richiesta di andare a visitare i due grattacieli e ci furono solo 5-6 voti favorevoli (manco a dirlo, aveva votato così compatto il tavolo di Chiara di 4N, che proponeva la cosa con notevole…tenacia; e ciò mi fece supporre un’opera di convincimento, da parte della suddetta nei confronti delle sue amiche, paragonabile, minimo minimo, agli argomenti impiegati da Carlo Magno per convertire i Sassoni al cristianesimo…). Però, il soggetto riemergeva in continuazione. E così, il mercoledì ci ritrovammo a discutere a cena con l’autista su come includere la panoramica dei due famosi grattacieli nel nostro giro – e non c’era verso, comunque la mettessimo, o che li raggiungessimo a piedi, o che obbligassimo il pullman a un giro inverosimile fino alla zona Isola, dovevamo sforare ampiamente con il programma. Poi, il giovedì, praticamente mi ritrovavo la questione sotto al naso ad ogni pie’ sospinto: anche perché, ad ogni pie’ sospinto, Chiara veniva a ricordarmela con ammirevole costanza.


Alla fine, quando nel pomeriggio fu annunciata l’ora libera per il giretto in centro, con un brusco voltafaccia Chiara fu abbandonata in tronco dalle sue amiche, che, in modo molto femminile, considerarono le vetrine molto più attraenti di quel che ormai Marilena definiva semplicemente come “due palazzi con degli alberi sopra”. Questa definizione potrà apparire eretica ai fans dello studio che ha progettato (con molta fatica e attenzione per i dettagli, bisogna dirlo) i suddetti grattacieli: però non è così fuori luogo come sembra, dato che, se girate per Milano, vi renderete conto che i giardini pensili sono una caratteristica della città, per cui il “bosco verticale” ha semplicemente ripreso in grande stile una consuetudine cittadina. Alla fine, Chiara, abbandonata “ignominiosamente” dalle sue amiche e avvertita da Marilena che proprio non riuscivamo a spostarci fin là, zitta zitta, approfittando del fatto che era già maggiorenne, ci è sgusciata via di soppiatto ed è andata in metro fino ai suddetti grattacieli, dove ha scattato fotografie a volontà. In seguito ci ha riportato notizie sulle cifre di affitto di un appartamento nei due edifici, notizie tali da sfidare ogni comune buon senso, ma ormai era contenta ed appagata. Al termine della giornata, sulla via dell’albergo, l’autista è infine passato davanti ai due grattacieli, così vissero tutti felici e contenti.


Ma il grande momento del giovedì è stata l’uscita serale. E qui casca l’asino. Dovete sapere che l’uscita serale è il culmine delle preoccupazioni degli studenti in gita: e, per tutt’altri motivi, comprensibilmente, dei professori in gita. Allora, fin da quando, a gennaio 2019, al Roiti avevano cominciato a filtrare notizie su questo viaggio d’istruzione, sia nella mia classe, sia quando incrociavo qualche elemento rappresentativo della 5N per il corridoio della succursale, regolarmente venivo subissata di domande. Però: non è che ti vengono a chiedere, che so, le condizioni dell’assicurazione in caso di disdetta, oppure (il che sarebbe encomiabile) il regolamento interno dell’albergo dove pernotteremo; non si preoccupano (loro) delle norme di sicurezza da seguire in pullman oppure dell’organizzazione del programma, della logistica, delle spese, delle scadenze di pagamento ecc. ecc. ecc. NO. Loro mi ripetono sempre e solo due domande fatidiche:


 1)  “Andremo a fare shopping in centro?” (domanda squisitamente femminile e che, devo ammettere, riguarda per lo più solo la parte, appunto, femminile delle classi).
2) (E questa è invece la domanda, più insidiosa, quella che mi ripetono come un giradischi rotto tutti, ma proprio tutti, almeno da tre mesi prima) “Usciremo la sera?” – anzi no: “Prooof?! – con tre “o” e la vocetta melliflua – “Usciremo fuori la sera?”.

Quanto alla domanda n°1, ho ottemperato (si veda sopra) e la messa in pratica è senza storia: il giovedì pomeriggio, dopo la sosta al planetario, concessi poco più di un’ora libera in centro. Certo, guardare le vetrine piace anche a me ed alle colleghe: comunque, a quel punto si svegliarono tutti (anche e in special modo quelli/e che si erano pacificamente addormentati/e sotto le stelle del planetario).


Quanto alla domanda n°2, devo fare una premessa per chi ignora le condizioni di lavoro di noi docenti (e al prossimo che mi obietta che noi non lavoriamo abbastanza, gli cedo gratis il posto di capogruppo della prossima gita). L’incubo di ogni insegnante che si rispetti è che gli studenti rientrino in albergo la sera con energie sufficienti per passare la notte in giro come i vampiri: e vi posso assicurare che l’aglio non basta a fermarli. Un capogruppo, sempre uno che si rispetti, sa qual è la priorità assoluta: DISTRUGGERLI. Cioè, il programma deve essere abbastanza intenso e carico da stancarli a dovere, in modo che, poco prima di andare a dormire, siano cotti a puntino e CROLLINO. Come pere cotte. Mi fregio del fatto che questa misura sia stata approvata solennemente anche da qualche collega piuttosto assennata. Ve lo assicuro, in assenza di aglio a volontà, è l’unica misura preventiva contro i miei emuli di Twilight: lungi da me l’aspettare l’alba perché si dissolvano al primo raggio di sole (!); e, nonostante i miei trascorsi pastorali, confermo che neanche le croci bastano contro certe attività notturne. Anzi.


Ora, qualcuno ricorderà che, la prima sera, dopo cena, nella sezione appartata del ristorante dove eravamo stati allocati, io avevo proceduto, democraticamente, a una votazione; e avevo posto due quesiti: quello sul famoso (ormai famigerato) “Bosco verticale”; e uno su quanti volevano fare la passeggiata serale. Del risultato della prima votazione ho già detto: quanto alla seconda, se non ricordo male i miei giovanotti optarono all’unanimità per l’uscita serale. Ci tengo a ricordarlo a scanso di equivoci: e dato che il seguito potrebbe essere frainteso da qualcuno come un accesso di manie dittatoriali, che neanche il Ventennio, io sottolineo che avevo proceduto a una votazione democraticamente intesa. Ora, intendiamoci: la scuola non è una democrazia (anzi: e guai se lo fosse!). E’ una struttura ispirata a principi democratici e in cui i soggetti che ancora stanno imparando a governarsi da soli, godono di ampie rappresentanze (per quanto, alle volte, e specie con certuni, io nutra il fondato dubbio che i bambini dell’asilo - nido di fronte al Roiti espletino questi gravi compiti con maggiore consapevolezza…). Tuttavia, avevano votato. E volevano uscire la sera del giovedì. Era ufficiale.


Ebbene, anche se, ad essere onesti, dopo il coprifuoco del mercoledì sera io non avevo più sentito una mosca volare ed erano tutti tranquilli (almeno esternamente), di certo, dentro le stanze si erano dati ai bollenti spiriti e alla pazza gioia: e qualcuno doveva avere fatto l’alba non a fare chissà che, ma semplicemente a chiacchierare. Risultato: il giorno dopo cominciò a serpeggiare tra le mie truppe uno strano malcontento: alcuni, che cominciavano a trascinare i piedi dalla stanchezza (!), avrebbero voluto evitare l’uscita serale e ritirarsi in albergo all’ora delle galline. E qui le colleghe furono ferree: no, assolutamente no (sennò, come già detto, ce li saremmo ritrovati a girare la notte per i corridoi con una verve che neanche Dracula nel suo castello in Transilvania!); o tutti dentro, o tutti fuori. E, dato che avevamo votato per uscire fuori, saremmo usciti fuori. TUTTI.


A questo punto cominciarono le varianti delle lamentele: e a me sembrava di essere Mosé nel deserto, con gli Ebrei a cui non ne andava bene una. “Prooof!” (sempre con 3 “o”) “Rifacciamo la votazione???”; “Prooof? Possiamo restare a casa stasera?” “Prooof! Non ce la facciamo più!” e via dicendo. E io irremovibile. Divenni inflessibile, scultorea come una statua di marmo: anche perché conosco i miei polli e il mio pollaio e sapevo in anticipo come sarebbe andata a finire (…). Quanto poi a ripetere la votazione – e ancora ricordo Francesco P., un bravissimo ragazzo di 5N che adesso mi saluta sempre, quando mi incrocia, ma che quel giorno tirava fuori ‘sta storia ripetutamente e procedeva con la stessa verve di una lumaca e più o meno ormai al livello del manto stradale -, dicevo, quanto a ripetere la votazione, NO. Mica siamo come gli Inglesi della Brexit, che, ogni tanto, ritiravano fuori la storia della votazione per ripeterla finché non ne sarebbe uscito il risultato che volevano loro! E qui mi sento di spezzare una lancia per Juncker. Per motivi squisitamente personali, che il poveretto ignora e che è inutile io dettagli qui, io non provo grande simpatia per l’ex – presidente della Commissione Europea: però, a un certo punto, mi faceva quasi compassione. Anche io stavo facendo la sua esperienza e mi sentivo di comprenderlo e di posargli una mano sulla spalla con genuina simpatia: “Jean – Claude! Ti capisco, oh, come ti capisco!... Tu hai a che fare con gl’Inglesi, che ancora non hanno deciso che cosa vogliono: e verrebbe da dire loro, come i Romani ad Asterix: “Decidetevi! O dentro, o fuori! Però basta picchiarci!”; mentre io invece, guarda qui! Nel mio piccolo, ho sotto di me una banda di una cinquantina di adolescenti, con la sindrome della banderuola. E anche loro vogliono votare in continuazione! Mah!”


Il picco delle lamentele arrivò poco dopo che avevamo visto dal pullman il Bosco verticale ed eravamo sulla strada di casa: sembrava che fossero tutti (o quasi) moribondi ed era ormai un coro di lamenti. E io al microfono:
- E’ da gennaio che appena possibile mi venite a chiedere: “Prooof” – sempre con 3 “o” e la vocetta melliflua che contraffaceva la loro – “Usciremo la sera?”; e adesso che è venuto il momento, stasera usciamo! Tutti quanti!- . 
Inutile dire che le colleghe, per motivi disciplinari, peroravano la questione del blocco unico. Senonché – succede, sempre, dico SEMPRE così – qualcosa andò storto: uno dei nostri ebbe una crisi di mal di stomaco dopo cena. Ovviamente, eravamo preoccupate e per lui (non dirò chi era il poveretto, ma stava veramente male), e anche per la nostra coerenza disciplinare: non c’è niente di più pericoloso, per un insegnante, che dare un ordine e poi dovere rimangiarselo. E quindi….
E quindi vi lascio nella suspence fino alla prossima puntata. Se la caveranno tre insegnanti di buona volontà in missione con una cinquantina di adolescenti in vena di lamentele e di sedizione?

PS. Vi lascio solo una breve anticipazione: il motto del seguito sarà Avanti, Savoia!


venerdì 13 marzo 2020

Ci rialzeremo



Ci rialzeremo - e ne usciremo migliori

Tra le mie scene di film preferite ce ne sono due. Una è tratta dal film L’ultimo samurai, di E.Zwick, con Tom Cruise e Ken Watanabe. Siamo nel Giappone dell’era Meiji (intorno al 1870), quando il Mikado, l’imperatore, decise di modernizzare il paese a tappe forzate e, allo scopo, chiamò degli esperti stranieri. Come sapete, Tom Cruise interpreta uno di questi esperti, per la precisione un Americano, alcoolizzato, distrutto dai traumi subiti durante le guerre indiane e dal fatto di avere testimoniato a troppi massacri. Quando arriva in Giappone, nonostante la competenza, è un relitto umano: beve, non si controlla e, per dirla francamente, si comporta davanti ai Nipponici, imbevuti di una cultura antichissima, da autentico cafone. Eppure…eppure, quando, durante la rivolta dei samurai, viene fatto da loro prigioniero, comincia ad apprenderne gli usi e costumi, la lingua, lo zen, il codice d’onore di samurai e l’arte bellica. La mia scena preferita avviene proprio quando lui cerca di imparare a combattere con la katana, la spada da samurai e, prudenzialmente, si allena con bastoni di legno. Inutile dire che il suo avversario, espertissimo, lo butta ripetutamente per terra, in mezzo al fango e alla pioggia. Eppure, ogni volta, faticosamente, l’Americano si rialza. I Giapponesi non credono ai loro occhi (loro che sono abituati a praticare il seppoku, cioè il suicidio rituale, alla sconfitta), non riescono a concepire che questo Occidentale grezzo, anche se intelligente, si rialzi: eppure lui si rialza. Sempre.


L’altra scena che volevo ricordare viene dal film Momenti di gloria, di sir H.Hudson, la storia vera degli atleti della squadra olimpica inglese che affrontarono (e spesso vinsero) le Olimpiadi di Parigi, 1924. Tra di essi eccelle Eric Liddell, un pastore presbiteriano scozzese, velocissimo nella corsa.  Liddell divenne famoso perché, per rispetto al Decalogo, rifiutò di correre la domenica, per cui fu eliminato da una gara. Si rifece però, vincendo la medaglia d'oro nei 400 metri. Tutte le scene atletiche del film sono esaltanti, ma ce n’è una che mi fa venire i brividi. Durante una corsa locale, Eric viene, molto scorrettamente, spinto fuori dal campo da un concorrente. Ma non si perde d’animo: la camera cattura il momento straordinario in cui il suo sguardo, dal basso del terreno su cui è caduto, si alza, abbraccia la pista e, con gesto si sfida, lui si risolleva e riprende a correre come una freccia: tanto che vince. Devono praticamente rianimarlo al traguardo, ma ce l’ha fatta: ha vinto.


Anche noi ce la faremo. Ci rialzeremo, ne sono sicura. Noi Italiani, dobbiamo ammetterlo, ci portiamo sulle spalle il peso di tante tragedie del passato, in cui abbiamo regolarmente rivestito il ruolo dei “perdenti”. Fin dal ‘500 Machiavelli e Guicciardini soffrivano al vederci preda degli stranieri (che miravano allo splendore delle nostre città, si badi bene, ed approfittavano delle nostre divisioni); ed è andata avanti così per secoli. Ci hanno portato la guerra in casa e ci rapinavano. Persino l’unificazione, di per sé qualcosa di bello, l’abbiamo vissuta come una conquista. E poi, nel consesso delle nazioni, sembravamo (o ci sentivamo) regolarmente il fanalino di coda, tanto che dopo la Prima Guerra Mondiale fummo trattati come vincitori di serie B; poi il fascismo, poi abbiamo perso la guerra...E ci guardavano (ingiustamente) dall’alto in basso: a tal punto che, quando ci hanno speronato il transatlantico Andrea Doria, nel 1956, hanno dato iniquamente la colpa agl’Italiani! Quando invece, il comandante Calamai era una gran persona. Ma ora basta. Siamo coscienti che, come nazione, valiamo tanto: solo i traumi del passato ci inducono al pessimismo al riguardo.


E infatti…la nostra Italia ha delle energie straordinarie. Ce la faremo. Come le persone che hanno sofferto, nelle emergenze, come in questa epidemia, tiriamo fuori il nostro lato migliore: non è un caso se la nostra Protezione Civile è tra le migliori al mondo (se non la migliore). Abbiamo tante ricchezze dentro di noi: amore per la bellezza, umanità, cultura, capacità nel lavoro, cura del dettaglio, creatività…Certo, abbiamo anche le nostre debolezze, i nostri difetti, le nostre colpe. Crediamo che gli altri non ce le abbiano? Anzi. E stanno, umanamente, anche venendo fuori. Ma non critichiamo, pensiamo a quello che possiamo fare, a come essere uniti. Abbiamo tanto da dare: e credo che da questa prova ne usciremo migliori, a tutti i livelli, da quello organizzativo a quello umano. Senza nulla togliere agli altri, anzi, in una relazione di amicizia e parità con gli altri Paesi, possiamo essere davvero i migliori. Da come reagiamo a quest’emergenza, possiamo diventare un esempio. Noi ci portiamo dentro un virus positivo: quello della resurrezione. Questo ci viene dalla nostra cultura, in particolare da quella giudaico-cristiana e da quella classica, che sono ancora vive, anche per chi ci ha meno a che fare. Ed è grazie a questa cultura, che ha prosperato per secoli e tanto dà ancora nel volontariato, che i nostri medici, infermieri/e e personale paramedico stanno dando il 100 per 1. Come non possiamo risorgere con dei medici così? A loro e a tutti quelli che si impegnano in questo dramma, va il mio più sincero ringraziamento, così come, a un altro livello, alle nostre autorità, in primis al Presidente Conte. Ognuno di noi farà la sua (anche piccola) parte. E ci rialzeremo. Dovremo aspettare alcune settimane, ma potremo, presto, riabbracciarci sotto il sole di primavera.

martedì 10 marzo 2020

Salvo amato, Livia mia (A.Sironi - L.Zingaretti, 2020)



Salvo amato, Livia mia (A.Sironi - L.Zingaretti, 2020)

Una guardia giurata pedala tranquillamente fino a una villa e, mentre svolge il suo giro di sorveglianza, intravvede una figura furtiva che si defila tra la vegetazione…E’ Pasquale, il figlio di Adelina e vecchia conoscenza di Montalbano. Il cadavere di una ragazza, un’archivista molto competente, viene ritrovato, segnato da innumerevoli colpi di un’arma da punta, nell’archivio di Vigata: è Agata Cosentino, un’amica di Livia. Ma che cosa ci faceva all’archivio, chiuso per ferie e in via di ristrutturazione? Perché intorno al suo corpo mancano tracce di sangue, come se l’assassino avesse ripulito tutto?

Queste sono le prime scene di Salvo amato, Livia mia, la nuova puntata della serie del commissario Montalbano, sopravvissuta (è il caso di dirlo, il che ha risonanze inquietanti, dati i tempi che corrono) al regista Alberto Sironi, allo scenografo Luciano Ricceri (famoso per la scenografia di alcuni film di Ettore Scola o di kolossal come la serie Marco Polo) e, ovviamente, allo stesso autore, Andrea Camilleri, che ci ha lasciato l'anno scorso. Tuttavia, ritroviamo il cast e l’ambientazione cui siamo affezionati da anni in un episodio comunque di buona fattura e in continuità con quelli precedenti firmati da Sironi. Alla regia si è cimentato ora lo stesso protagonista, Luca Zingaretti.


Il primo aspetto che mi ha colpito è il rinvio della trama ad alcune vicende di cronaca italiana. Per chi ha un minimo di conoscenza della storia criminologica del nostro paese, è un’evidenza: il fatto che la vittima venga ritrovata in un luogo di lavoro deserto, chiuso per ferie, crivellata di colpi e senza la benché minima traccia di sangue intorno perché l’assassino ha fatto pulizia, rimanda inevitabilmente al tristemente famoso delitto di Via Poma (Roma, 1990, vittima Simonetta Cesaroni). Ma non sono questi gli unici richiami, a conferma del fatto che Camilleri, come ha spesso affermato, utilizzava veramente quel che leggeva sui giornali per costruire le proprie trame: può venire in mente un altro delitto celebre, quello di Garlasco (2006, vittima Chiara Poggi), anch’esso consumatosi nel silenzio assolato di una mattina estiva; oppure, ancora di più, il famoso “delitto della Cattolica”, rimasto irrisolto. La vittima, Simonetta Ferrero, laureatasi all’Università Cattolica, durante un giro di compere in centro a Milano poco prima delle vacanze (24 luglio 1971), aveva deciso di entrare nell’edificio della sua università in cerca di un bagno: ma qui aveva incontrato il suo assassino. Fu uccisa da un uomo di alta statura (come si poteva evincere dalla scena del delitto) con ben 33 coltellate. Rispetto però alla cronaca giudiziaria italiana, Camilleri (e, con lui, gli sceneggiatori) hanno il merito di porsi un problema che, spesso, non ci si pone nelle aule di tribunale: come ha fatto l’assassino a ripulirsi dal sangue prima di lasciare il luogo del delitto? Provate a seguire la cronaca e vi renderete conto che troppo spesso questo interrogativo non viene spontaneo agl’investigatori. Di certo, aggiungo io da casalinga, per lavare via il sangue basta strofinare sotto l’acqua corrente: però, lavare via quelle quantità di sangue, è comunque un affare serio, specie se uno ha paura di farsi scoprire ed ha poco tempo. Vedrete come Montalbano risolve la questione.


L’episodio è, come sempre, bello, godibile, ha sicuramente ritmo, però ho notato che l’intreccio è abbastanza debole, il che potrebbe derivare dal testo narrativo di base e non è una novità (per esempio, l’intreccio è poco curato anche ne L’altro capo del filo, del 2019): costruire un giallo o un thriller, lo so per esperienza diretta, è difficile, e non tutte le trame riescono a dare il massimo. Di solito, come qui, il principale stratagemma adottato per celare l’identità dell’assassino è quello di sviare l’attenzione dello spettatore da un personaggio, apparentemente poco appariscente: così, ho capito chi era l’assassino dopo 20 minuti dall’inizio. Ci sono poi vari spunti che non vengono sviluppati molto: il motivo dell’immigrazione sa un po’ di cliché, così come la presentazione di Caterina, l’amica della protagonista – secondo me, un omaggio al politically correct -; oppure, il motivo della denuncia sociale e l’allusione a traffici loschi rimane proprio un’allusione, ben lungi dall’approfondimento che ne venne dato nel famoso e splendido La gita a Tindari, un piccolo capolavoro da questo punto di vista. Lo stesso titolo, Salvo amato, Livia mia ha un legame abbastanza esteriore con la trama: insomma, come episodio manca un po’ della profondità, letteraria e umana, di altri, come (menziono a caso) il già citato La gita a Tindari, oppure Un covo di vipere, o il bellissimo Una faccenda delicata; ciò è imputabile soprattutto alla sceneggiatura. La serie del Commissario Montalbano rimane però una macchina ben rodata e che funziona, anzi, che fa sempre piacere ritrovare in primavera sulle reti Rai.


C’è però un motivo molto affascinante al centro della trama: l’archivio e, in particolare, quella misteriosa “sala delle memorie inutili”, in cui si trovano affastellati memoriali di cittadini ormai dimenticati di Vigata e in cui Salvo e i suoi devono compiere delle indagini. Come noterete, il motivo dell’archivio è funzionale allo scioglimento della trama a più livelli. Però, dobbiamo ricordare che i gialli di Camilleri sono, innanzitutto (e molto di più che per altri autori) soprattutto costruzioni letterarie. In Camilleri si trova spesso la fascinazione della narrazione, della trasmissione storica, delle memorie, del ricordo, della vita fatta letteratura: ne è un esempio magnifico Il cane di terracotta, ma anche Un diario del ‘43. Anche qui, l’archivio, con i suoi misteri e le sue memorie polverose, campeggia al centro della vicenda esercitando un fascino indiscusso. E a questo punto – e a vantaggio della mia attuale 5M, cui ho promesso dei collegamenti di questo episodio con i grandi autori di Letteratura Italiana – possiamo chiederci: quali sono i legami di Camilleri con i grandi della passata Letteratura Siciliana? Con Verga, con Pirandello?


La Letteratura Siciliana meriterebbe un capitolo a parte nella storia della nostra cultura italiana. Potremmo iniziare dai paesaggi della Sicilia, assolati, ampi e a perdita d’occhio, tra terreno ocra e stoppie giallastre, sotto un sole a picco, ma anche cosparsi di aranceti, fertili fattorie e giardini nascosti: i paesaggi in cui arranca, per esempio, il protagonista di Mastro Don Gesualdo di Verga per andare a visitare i suoi possedimenti. Ma la lezione raccolta da Camilleri dai suoi predecessori è, in particolare, formale. Lo strano impasto di italiano e siciliano dei romanzi di Camilleri – quello strano impasto che ha imposto nella lingua corrente termini come travagliare, accattare, gabbasisi ecc. – ha le sue radici nella lingua estremamente innovativa che Verga sperimentò nei Malavoglia: lui, a dire il vero, non si era spinto fin proprio al dialetto stretto, ma aveva creato un impasto di lingua italiana e lingua vernacolare davvero originale e che destò stupore nell’Italia in cui si stava diffondendo – almeno a scuola – la versione del fiorentino parlato un po’ artificioso dei Promessi sposi. Soprattutto, Verga aveva sfruttato modi di dire e proverbi, studiati sulle opere di Giuseppe Pitré, e si era calato nel lessico, nei giri di parole, nella mentalità dei suoi protagonisti, popolani siciliani, a dire il vero, molto lontani da lui, borghese di Catania inseritosi nelle capitali culturali del Nord Italia, Firenze e Milano. Questo, si sa, perché la sua opera, verista, doveva apparire come fatta da sé, un esempio di piena oggettività da cui l’autore doveva sembrare praticamente scomparso.


Ma l’autore, in realtà, non scompare mai. Difatti, il motivo in cui Camilleri risente di più sia dei suoi predecessori, sia della “sicilianità”, è o teatro, come si dice in Sicilia (con la t pronunciata quasi come una palatale, una c). Pirandello adorava il teatro: e si è fatto portatore di una filosofia in cui la realtà si scompone in “vita” e “forma”. La vita è quell’energia indefinibile che si sprigiona in ciascuno di noi: Pirandello era molto vicino, in questo, alle filosofie “vitalistiche” degl’inizi del secolo e credeva come a un flusso di energia, che però deve essere sempre ingabbiato in una “forma”, cioè un’apparenza cristallizzata, che ci permetta di manifestarci in società. E’ il dramma del Fu Mattia Pascal: lui prova a fuggire dalla prigione in cui si trova, una situazione invivibile in famiglia, fatta di liti e frustrazioni continue: ma non appena un morto viene preso per lui e lui potrebbe fuggire indisturbato, in realtà si accorge di non avere una “forma”, un’apparenza riconosciuta in società; non è registrato all’anagrafe, non ha coordinate, non ha niente che lo identifichi, insomma, non esiste. E così deve recuperare la sua vecchia forma, tornare al paese ligure da cui è fuggito e “risorgere”. Nella vita vera, però, non c’è più posto per lui: e allora si riduce a fare il bibliotecario. Nei termini della puntata di ieri sera, scrive le sue memorie, che vanno ad aggiungersi alle altre “memorie inutili” dell'archivio. Eppure, sembra obiettare Camilleri, quante storie affascinanti si celano tra la polvere di quelle “memorie inutili”! L’archivio di ieri sera potrebbe ricordare un po’ quello del finale del Fu Mattia Pascal, ma con una tonalità forse un poco più positiva, meno cimiteriale.


Tutta l’opera di Pirandello e, soprattutto, quella teatrale, è una cronaca della continua lotta tra vita e forma. Perciò è anche una riflessione sulle apparenze, da cui la vita spesso sgattaiola via; e basti pensare al suo Enrico IV, storia di un pazzo che crede di essere l’imperatore Enrico IV di Svevia, ma che rinsavisce, solo che non può dirlo, perché è rimasto imprigionato nel suo ruolo. E quindi il teatro pirandelliano è anche una meditazione sulla finzione. Il tema d’o teatro è onnipresente nelle vicende di Montalbano: è già “teatro” la parziale messinscena (alla lettera) per cui l’assassino cerca qui di far passare l’omicidio per un’aggressione sessuale; e il commissario si ritrova davanti in continuazione delle false apparenze. Ma, soprattutto -e in molti episodi – la soluzione del caso arriva regolarmente grazie a una grande performance attoriale del commissario, che fa un bluff, recita e, rischiando grosso (cosa impossibile da fare in una procedura vera), fingendo di sapere per certo quel che ha in realtà solo indovinato, spinge l’assassino alla confessione. Ma perché la deduzione, l’intelligenza non basta e, per risolvere i casi, ci vuole anche la finzione?


Il mondo della Sicilia di Verga, di Pirandello, anche di Sciascia e Camilleri, è un mondo molto pessimista e finanche fatalista. Sembra sempre che un’invisibile spada di Damocle, un destino avverso, siano sospesi sui personaggi. Sarà il sole che picchia, o sarà la memoria della tragedia greca: però, questi autori sono profondamente pessimisti. Verga, dopo avere descritto in modo magistrale le peripezie dei suoi vinti, i protagonisti della sua saga, persone povere come i Malavoglia, oppure in cerca di riscatto sociale come Mastro Don Gesualdo, dopo essersi immedesimato con i poveri, rinuncia a scrivere e si ritira in una sorta di esilio volontario, fuori dal mondo. Ed è un conservatore: ma non perché non si renda conto della condizione di coloro che ha descritto, ma perché, in modo sconsolato, è convinto che niente cambierà. Nel famoso Gattopardo di un altro grande scrittore siciliano, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, si dice: Bisogna che tutto cambi, perché tutto resti com’è”. A livello storico: la conquista dei Mille, l’arrivo di Garibaldi, l’annessione al Regno d’Italia, ha mutato le cose solo in superficie: la sostanza, i soprusi, permangono. Il fato è immobile. 
Disse Pirandello, nel discorso pronunciato in occasione della morte di Giovanni Verga:

Io sono nato in Sicilia e lì l’uomo nasce isola nell’isola e rimane tale fino alla morte, anche vivendo lontano dall’aspra terra natia circondata dal mare immenso e geloso.


 E ancora, disse della propria nascita:

Una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli d’un altipiano di argille azzurre sul mare africano…

Il bellissimo paesaggio notturno non nasconde la casualità di quel caddi, di un uomo che diceva di essere nato a Villa Caos (e non certo per caso) e che faticava a trovare un senso tra i dolori dell’esistenza, tra le forme impostegli e che lo imprigionavano (Raccattata dalla campagna la mia nascita fu segnata nei registri della piccola città situata sul colle…confesso che di tutte queste cose non mi sono fatta ancora né certo saprò farmi mai un’idea, continua nel suo frammento autobiografico: si noti come la sua vita fu raccattata e poi approdò all’anagrafe, segno della prigionia delle convenzioni sociali). Pirandello ha poi passato la vita a scomporre, con il meccanismo del metateatro, le vicende e i meccanismi teatrali delle pièces che portava sulla scena, a smontarle, in maniera ossessiva, incapace di apporvi un lieto fine. E, se ci pensate, neanche il Giorno della civetta di Leonardo Sciascia finisce bene. 


Avrete notato che, non di rado, il finale degli episodi di Montalbano è triste: non pochi assassini si tolgono la vita (un residuo della tragedia classica?); e, come ho osservato, anche quando Montalbano riesce ad assicurare il colpevole alla giustizia, deve fingere, recitare per farlo confessare. Teatro. Difatti. Questo però ci dice che il lieto fine, il ristabilire la giustizia, è qualcosa che può ottenere solo l’autore che, come una sorta di creatore nel suo piccolo mondo letterario, può realizzare quello che nella realtà troppo spesso non succede. Ariosto riusciva a dominare, da poeta, la realtà multiforme della vita, inserendola nell’ordine che lui intendeva. L’autore è, in letteratura, un demiurgo: crea una realtà. Quando recita, Montalbano diventa una specie di demiurgo (difatti, Livia gli ha rimproverato talora questo atteggiamento: di fare e disfare a suo piacimento, come se si sentisse un padreterno), un demiurgo che assicura la giustizia. Ma ciò va bene solo in letteratura, sembra implicare Camilleri. Per il resto, quel che rimane è la consapevolezza della crudeltà che ha tolto la vita a una ragazza buona. Nei delitti che citavo sopra, come spesso succede, le vittime erano tutte ragazze genuinamente buone, che spesso illuminavano il loro ambiente, come la vittima, Agata (= “buona” in greco) di questo episodio. Purtroppo, questo è vero. La vittimologia dice che la maggioranza delle vittime di omicidio è spesso implicata nel mondo della delinquenza oppure in situazioni pericolose, per cui è in partenza a rischio (a prescindere dalla loro etica: sia chiaro, nessuno merita però di fare una fine del genere). Ma poi esiste una discreta percentuale di persone genuinamente buone e pulite, senza alcun collegamento con un ambiente a rischio e la cui uccisione appare ancora più inverosimile e iniqua, assurda, se possibile, di quella di altri. Avrete notato che i delitti che ho citato sono, in gran parte, irrisolti: questa è la realtà che soggiace alla costruzione letteraria e che quest’ultima, infine, anche nel giallo migliore, non riesce a risolvere.



domenica 15 dicembre 2019

Torta Pazientina



Torta Pazientina

Finalmente ci sono riuscita! Ecco qui la mia versione della celebre torta Pazientina di Padova. Non è poi così difficile da preparare, anche se ho dovuto cambiare la crema: è la crema pasticcera rosa inventata da me, ma la preferisco, perché quella allo zabaione, dopo che ho fatto un tentativo, non mi convince molto, dato che le ricette da me consultate prevedono troppe uova e troppo albume. Inoltre, la mia versione prevede l'Alkermes e non il marsala o il rum, una variante comunque contemplata. Vale la pena pazientare per prepararla, perché alla fine è squisita...

Ingredienti

Pasta bresciana
250 gr di farina
250 gr. di zucchero
250 gr. di burro (ammorbidito)
100 gr. di farina di mandorle
50 gr. di nocciole tritate fini
1 uovo
un poco di vaniglia


Pan di Spagna
Per il Pan di Spagna, fare riferimento alla mia ricetta, al link:
https://annaritamagri.blogspot.com/2016/10/pan-di-spagna-classico.html

Crema all'Alkermes ovvero crema rosa

Zucchero gr.140
Farina gr.90 (o anche fecola, che si addensa prima)
2 uova (oppure 4 tuorli)
400 ml di latte
1 bicchiere scarso di Alkermes
mezzo baccello di vaniglia (oppure qualche goccia di essenza)
un pizzico di sale


Sciroppo
Un cucchiaio di zucchero
una ciotola d'acqua
un bicchiere di Alkermes

Mousse al cioccolato
100 gr. di cioccolato fondente
25 gr. di burro
1 cucchiaio di zucchero
1 cucchiaio di latte (se necessario)
1 uovo

Preparazione
Per preparare la pasta bresciana, che è una variante della pasta frolla, basta unire gl'ingredienti in una terrina e mescolare (anche con le mani, si fa prima), finché non si ottiene una panetto sufficientemente sodo. Se necessario, aggiungete della farina. Rispetto alla comune pasta frolla, la pasta bresciana è ancora più profumata e decisamente ottima. Lasciate riposare il panetto per 2 ore, quindi stendetelo sulla tavola infarinata e ricavatene 2 dischi identici, da cuocere nelle rispettive teglie a 180 gr., per 10 minuti. Saranno la base e la copertura finale del dolce. 


Quindi, separatamente, preparate il Pan di Spagna, secondo la ricetta da me già fornita. Come già spiegato nella ricetta sui Bigné rosa:

https://annaritamagri.blogspot.com/2019/11/bigne-rosa.html

mescolate le uova e lo zucchero, quindi unite la farina (o fecola) e il sale; intanto, fate riscaldare il latte con la vaniglia e quando è giunto a ebollizione, lasciatelo raffreddare un poco, quindi unitelo al composto delle uova. Aggiungete l'Alkermes e, infine, ponete sul fuoco per pochi minuti, sempre mescolando, finché non si addensa all'improvviso. Allora spegnete. 

A questo punto, preparate la bagna diluendo l'Alkermes in una ciotola d'acqua, cui avrete aggiunto un cucchiaio di zucchero e mescolate per bene, perché il tutto si sciolga. 
Infine, è la volta della mousse di cioccolato: lasciate sciogliere insieme cioccolato e burro in un pentolino a bagnomaria e, quando avrete lasciato raffreddare, unite al tuorlo d'uovo opportunamente mescolato allo zucchero. Il latte serve solo a diluire, eventualmente, il composto del burro e del cioccolato se s'indurisse un po'. Infine, unite al composto l'albume montato a neve e lasciate in frigorifero. 


Viene ora il momento di assemblare il dolce. Sul piatto di portata, deponete un disco di pasta bresciana e irroratelo con la bagna, quindi spalmate una parte della crema rosa; aggiungete il disco di Pan di Spagna, sempre irrorato con lo sciroppo d'Alkermes, infine spalmate su di esso la crema restante, infine sovrapponete il secondo disco di pasta bresciana, sempre bagnato con lo sciroppo. Coprite con la mousse di cioccolato e lasciate in frigorifero per una notte, per dare tempo al tutto di imbeversi ben bene. Il risultato è prodigioso! 

mercoledì 4 dicembre 2019

La monaca di Monza e la sua storia



La monaca di Monza e la sua storia

Non tutti sanno che Manzoni si è sbagliato a collocare la monaca di Monza nel 1628: la vicenda, infatti, narrata da Giuseppe Ripamonti nella sua Storia patria (senza data, per non offendere la famiglia) è anteriore di una ventina d'anni o poco più; e pensare che Manzoni ebbe, prima del 1840, la possibilità di consultare il faldone originale del processo, concessogli dall'allora arcivescovo di Milano Carlo Gaetano Gaysruick. Quegli atti furono poi secretati dalla curia e messi a disposizione degli studiosi, pensate, solo dall'arcivescovo G.B.Montini nel 1957: il futuro papa Paolo VI. Del resto, la splendida ricostruzione della vicenda nei capp.9 e 10 dei Promessi sposi, risente della moda del romanzo "gotico", cioè nero, di fine Settecento: moda che aveva dato la vita, ad es., alla Monaca di Diderot (1780). E pensate che, sull'onda del successo dei Promessi sposi, nel 1829 il toscano Giovanni Rosini pubblicò un suo romanzo, intitolato La monaca di Monza; per scriverlo, chiese ripetutamente consiglio a...Giacomo Leopardi, che all'epoca era in Toscana e che, quindi, se lo ritrovava perennemente tra i piedi. 


Ma chi era veramente la monaca di Monza? 
Virginia de Leyva, al secolo Marianna (1575-1650), proveniva da una famiglia dell'alta nobiltà spagnola; suo padre, don Martino de Leyva, che aveva combattuto a Lepanto, rimasto vedovo dopo la morte per peste della madre di Marianna, Virginia Maria Marino, si risposò in Spagna e, come succede purtroppo non solo nelle fiabe, dimenticò la figlia primogenita, "sbolognata" ad una zia rigida e, pare, bigotta. A differenza di quanto racconta Manzoni, Marianna non fu mandata in convento perché era la minore e perché così si doveva salvaguardare l'eredità del primogenito, al contrario: il  padre destinò l'eredità (anche della madre di Virginia!) ai figli di secondo letto (tre maschi e una femmina) e la ragazza si ritrovò scalzata a un livello di serie B, per cui fu destinata al monastero quando aveva solo 16 anni. Ricordiamo questo dettaglio della giovanissima età in cui entrò in religione. 


Una volta in convento, il monastero delle Umiliate Benedettine di Santa Margherita di Monza, Marianna assunse da religiosa il nome della madre, riflesso di una cocente nostalgia per una grande tenerezza perduta: era infatti rimasta orfana di madre quando aveva solo un anno, nel 1576. La ragazza si ritrovò però a far parte di quella generazione di monache che stavano subendo sulla propria pelle la stretta della clausura dopo il Concilio di Trento. Il Concilio aveva sancito infatti che la clausura dovesse tornare ad essere stretta, a fronte di decenni - se non secoli - in cui era stata applicata in forma molto più blanda, date anche le numerose monacazioni forzate. Quando le monache si ritrovarono chiuse in convento a forza, non mancarono numerosi suicidi. Questo era, del resto, un argomento di diatriba continua tra Venezia e la curia romana: a Venezia c'era una concezione insolitamente larga e accondiscendente della clausura, dato che le figlie di parecchi patrizi veneziani, che non intendevano spendere per dotarle, venivano "schiaffate" in convento, ma ciò presupponeva che venissero trattate in modo più accomodante; Roma, invece, esigeva vocazioni genuine e la clausura stretta. Suor Virginia che - pare - era molto bella, non tardò a innamorarsi del famoso "Egidio", nella realtà, Giampaolo Osio, scapestrato rampollo di una famiglia aristocratica della zona e che abitava accanto al monastero. 


Suor Virginia, che era maestra delle educande, si rese conto che l’Osio ne insidiava qualcuna, reato passibile di una grave punizione; peggio, l'Osio uccise per rappresaglia l'amministratore di cui suor Virginia si serviva per amministrare Monza, G.Molteni. La suora avrebbe allora fatto arrestare l'Osio se non fosse intervenuta - in modo molto discutibile - per conto della famiglia Osio la stessa madre superiora, che le impose di revocare l'ordine per obbedienza: e suor Virginia dovette obbedire. Alla fine suor Virginia accondiscese a incontrare Giampaolo (siamo nel giugno 1598), il quale voleva ringraziarla. Secondo la confessione scritta successiva, la monaca si vide recapitare da quel momento in poi doni e, secondo lei, oggetti che convogliavano un maleficio, con la connivenza di un prete locale, don Paolo Arrigone; così, in settembre lei accondiscese a incontrare l'Osio una notte con la complicità di suor Benedetta Homati e suor Ottavia Ricci. La religiosa riferì in seguito di essere stata violentata, cosa, a mio avviso, del tutto possibile; di sicuro, suor Virginia divenne succube di Giampaolo Osio e nella loro relazione la violenza rivestiva un posto notevole. Come stupirsene se di violenza era stata intessuta tutta la vita familiare della monaca?


Cominciò così una tresca protrattasi per 9 anni, durante i quali o Giampaolo entrava in convento di nascosto travestito da suora (!), oppure suor Virginia si recava nella casa vicina. 
Dalla relazione nacque una bambina, Alma Francesca Margherita, e anche un altro figlio, morto sul nascere; la bambina fu poi allevata dai parenti dell’Osio. Suor Virginia, del resto, era continua vittima dei rimorsi; la religiosità era allora più punitiva di oggi, meno misericordiosa, la predicazione molto incline a insistere sulla morte e i novissimi (cioè le realtà ultime), specie il giudizio e l’inferno; perciò, per una suora come lei non priva di una sua religiosità, la relazione con Osio deve essere stata intessuta di numerosi conflitti interiori e sensi di colpa acutissimi. Prova ne è che la monaca scaraventava regolarmente nel pozzo del monastero il doppio delle chiavi approntate per Giampaolo appositamente da un fabbro compiacente. Le chiavi si accumularono poco per volta in fondo al pozzo – ma la relazione non finiva. La svolta fu, però, come indica del resto il Manzoni, l’omicidio.


Nel 1606, una conversa - cioè una suora che non aveva la preparazione necessaria per essere corista, per cantare l’ufficio in coro, di solito adibita ai servizi nel convento e, in quel caso, al servizio della monaca - una tal Caterina di Meda, durante una lite con suor Virginia minacciò di rivelare tutto al monsignore che sarebbe stato inviato dalla curia in occasione del successivo capitolo delle suore, capitolo in cui si doveva eleggere la superiora e durante il quale la monaca sperava di essere scelta: e l’Osio, evidentemente, la soppresse, alla presenza di altre 5 monache, colpendola con il piede di un arcolaio, quindi ne trasportò il cadavere in casa sua. Qui lo seppellì, salvo la testa che, una volta tagliata, egli gettò in un pozzo. Dettaglio riportato anche da Manzoni: fu aperta una breccia nel muro del convento per far credere che Caterina, poco incline alla vocazione religiosa, fosse scappata. 
Ma questo omicidio cominciò ad attirare un’attenzione negativa sul monastero, tanto che se ne resero “necessari” altri: quello dello sventurato fabbro, Cesare Ferrari, che forgiava continuamente i doppi delle chiavi, nonché quello del farmacista, Rainierio Roncino, che aveva servito alla monaca ripetutamente degl’intrugli abortivi. Lo speziale fu ucciso al secondo tentativo: ma la tresca e le sue nefaste conseguenze erano diventate ormai palesi. Perciò, mentre lo Stato di Milano se ne interessava e arrestava Osio una prima volta, cominciò a indagare anche l'autorità religiosa.


Il 25 novembre 1607 la monaca fu arrestata dal vicario criminale della curia e trasferita a forza nel monastero delle Benedettine di S.Ulderico a Milano: suor Virginia, ormai fuori di sé, accolse il superiore letteralmente a spada sguainata. L’Osio, che era riparato in convento, si diede allora alla fuga con suor Benedetta e suor Ottavia – detto per inciso, non è che lui si fermasse alla monaca di Monza, anzi; coinvolgeva nelle sue tresche anche queste altre suore. Mal gliene incolse, dato che suor Benedetta fu gettata da Osio nel pozzo – il pozzo è l'altro grande protagonista di questa storia -, mentre suor Ottavia, evidentemente in assenza di pozzi, fu percossa col calcio dell'archibugio e gettata nel fiume Lambro. Si salvò però fingendosi morta, e sopravvisse giusto il tempo di rendere testimonianza di quanto successo, morendo il successivo 26 dicembre; suor Benedetta fu ritrovata invece due giorni dopo viva (sempre nel pozzo, che, per inciso, era quello dove era stato gettato anche il capo di Caterina, a Velate). Negli stessi giorni fu infine arrestato il disgustoso don Pietro Arrigone, che aveva approfittato della situazione per condurre una sua tresca personale con un'altra monaca. Le indagini proseguirono a stento: sempre fuori di sé, suor Virginia tentò più volte il suicidio mentre era reclusa, mentre il senato di Milano fece confiscare i beni della famiglia Osio per far uscire Giampaolo dall'ombra: questi, difatti, fu condannato all'impiccagione e alla confisca di tutti i i suoi beni il 25 febbraio 1608. La sua casa venne rasa al suolo e, al suo posto, eretta una "colonna infame" a futura memoria, né più né meno come quella che seguì i processi agli untori e di cui Manzoni ha tracciato la storia nella Storia della colonna infame. Osio, attirato con la promessa dell'asilo in una trappola nella casa di un amico, il conte Lodovico Taverna, fu infine ucciso a bastonate nel 1609 (dopo che aveva confessato i suoi peccati, precauzione notevole).


La sentenza di suor Virginia e delle altre monache avvenne solo dopo quella di Osio, il 17 ottobre 1608; prima furono torturate col sistema dei "sibilli" (schiacciamento delle dita, la tortura riservata alle donne) allo scopo che confermassero la loro confessione; poi tutte condannate alla reclusione perpetua, suor Virginia nel convento delle Convertite di santa Valeria a Milano, un istituto per le prostitute pentite, sito vicino a S.Ambrogio. Fu però graziata 13 anni dopo, nel 1622, 13 anni che aveva passato in una cella di 1,80 x 3 (esattamente come le celle del braccio della morte odierno negli USA): fu graziata perché il cardinale Federico Borromeo si era convinto del suo pentimento. E credo che questo fosse sincero: il cardinale le affidò infatti il compito di assistere per lettera delle consorelle in crisi. 


In effetti, negli anni '60, il professor M.Marchesan, geniale fondatore della psicologia della scrittura - una vera e propria scienza della scrittura, impiegata per formare i super-periti, riconosciuti nei tribunali di mezzo mondo - operò un'analisi approfondita della grafia della "Signora" mediante suoi scritti distribuiti su di un ampio arco di tempo. Dall'analisi emerse che suor Virginia sarebbe stata "una buona madre di famiglia", non certo una suora, e un suo fondamentale equilibrio, vanificato però durante la tresca con l'Osio. Quanto alla sua responsabilità penale, ella si sentiva vittima di una forte ingiustizia, provava una forte attrazione per la vita sessuale ed era molto sensibile all'argomento della sua bellezza sacrificata - si noti la straordinaria coincidenza delle pagine di Manzoni con questi tratti -; in generale, lei avrebbe avuto diritto a varie attenuanti, considerato soprattutto che si trovava in uno stato di coazione continua. Al termine della segregazione ella mostrava segni di agitazione dovuta alla repressione. Soprattutto, Marianna avrebbe avuto bisogno di libertà, per espandersi armoniosamente nell'ambiente a sua disposizione, specie a livello affettivo ed artistico. Compromessa questa libertà, la sua etica andò a rotoli. E qui, vale la pena di ricordare che la monacazione forzata risaliva all'epoca in cui aveva solo 16 anni. Le è stata rovinata la vita. 


Tutto ciò permette di inquadrare meglio la problematica della mancanza di rispetto, il nocciolo della manipolazione relazionale attraverso le cui lenti ho provato più volte, sul blog ed a scuola, a considerare la storia della monaca di Monza. Tutta la sua vita è stata attraversata dalla mancanza di ascolto e rispetto: da quando le davano le bambole vestite da monaca per operarle una sorta di lavaggio del cervello, a tutta la sua educazione, a quando la rinchiusero nel mese di prova in cui avrebbe dovuto gustare il mondo prima di prendere definitivamente il velo, dalle moine con cui la trattarono a quando cedette alla monacazione, fino alla relazione con Osio - Egidio - che non è stata una bella storia d'amore, ma qualcosa di molto simile alle relazioni patologiche di cui sono vittime troppe donne oggi (con tanto di femminicidio finale). Gertrude - suor Virginia non ha mai avuto il diritto di esistere per quel che era, come dimostra l'analisi della sua grafia; non stupisce che sia stato così anche con quello che diceva di amarla, o che lei si sentisse vittima di un maleficio. Persino Manzoni la ritiene parzialmente responsabile, perché, osserva, lei avrebbe potuto essere, se avesse contato sulla fede, una monaca contenta. Ma lei si agitava sotto il giogo, il che peggiorò la sua situazione. Per certi versi è vero: ciò corrisponde al senso di ingiustizia rilevato in lei dal prof.Marchesan; senza contare che il suo amor proprio, sostiene lo scrittore, la induceva a una sorta di complicità sotterranea coi suoi aguzzini, che solleticavano il suo orgoglio, e Marchesan ha rilevato spinte narcisistiche nella sua grafia. Manzoni però, un po' troppo giansenista, dimentica le circostanze attenuanti: l'effetto destabilizzatore della violenza sulla sua psiche e il fatto che lei avesse, al momento di farsi suora, solo 16 anni. Credo che si sia trovata al centro di una spirale e che nessuno, ma proprio nessuno, le abbia teso una mano affettuosa, almeno fino alla grazia del cardinal Borromeo: anche quella giunta dopo una lunga, draconiana, forse eccessiva, punizione. 


Curiosità: esistono delle somiglianze tra la vicenda di suor Virginia de Leyva e quella della quasi coetanea suor Lucrezia Buonvisi, di Lucca, città che Manzoni del resto, così come suo nonno, Cesare Beccaria, conosceva bene. Tra l'altro, questa Lucrezia aveva forti legami con Ferrara: la sua famiglia era addirittura in corrispondenza con Torquato Tasso, che sovveniva! Si noti però che lei si fece suora per sfuggire alla cattura dopo che era stata complice dell'omicidio del marito.
Per la sua storia rinvio al bell'articolo di Elena Pierotti, Lucca e la sua "monaca di Monza": Lucrezia Buonvisi, al link: