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domenica 21 ottobre 2018

La rivincita degli "zebrotti", ovvero ragazzi - e adulti - intellettualmente plusdotati



La rivincita degli "zebrotti", ovvero ragazzi - e adulti - intellettualmente plus-dotati. 

Avete presente quell'allievo / a intelligente, persino brillante, che ha guizzi di acume cui gli altri non arrivano neanche con l'ascensore, ma a cui la scuola va stretta come un maglione passato in lavatrice a 90 gradi; perennemente sulle nuvole, su di un'altra linea d'onda, oppure col cervello in ebollizione e 100.000 idee e interessi, tra cui sembra saltellare come la cavalletta Flip; ipersensibile, preoccupato delle sorti del mondo intero (che vi chiede angosciato alle 8.30 di mattina, mentre state cercando disperatamente d'interrogare: "Ma come si fa a vincere la fame nel mondo?"; "E l'ebola? Come facciamo a battere l'ebola?"...); vagamente ribelle, magari persino irritante per certi colleghi, con tutte le sue domande destabilizzanti a mitragliatrice; spesso un po' isolato, incompreso come Leopardi a Recanati; che sembra leggervi dentro con un raggio laser incorporato, tanto che fin dall'asilo mandava in crisi maestra i genitori, eppure si perde ancora ad ammirare con sguardo candido le farfalle e i peluches?    


Ebbene, questo studente così speciale è il plus - dotato, un profilo di allievo - e poi di adulto - dalle qualità meravigliose, ma troppo spesso ignorato, specie in Italia: eppure, per quanto sia capace, ha bisogno di attenzioni specifiche, perché è una forza fragile (come sanno i miei ragazzi, questo è un ossimoro, efficace però). Jeanne Siaud - Facchin, psicologa francese specializzata sul soggetto, gli ha dedicato un bel libro, Troppo intelligenti per essere felici ? (Rizzoli, 2016, traduzione dell'originale francese del 2011) che rappresenta, per quel che so, l'unico testo in Italia sull'argomento (adulti compresi). Vediamo un po' di cosa si tratta.  

I plus - dotati (francese surdoués, inglese gifted) sono bambini, poi adulti, dall'intelligenza non tanto superiore (anche se il loro QI supera i 115 punti), quanto diversa. Rappresentano il 2% della popolazione e sono molto differenti dal classico "secchione": di solito la gente si aspetta che sia lui il più intelligente, ma so per esperienza che spesso i primi della classe sono solo molto diligenti e "adattativi" (talvolta neanche particolarmente brillanti). Anzi, non di rado intelligenza non fa rima con riuscita scolastica. Niente a che vedere, a dispetto del pregiudizio popolare, col nostro plus - dotato, che d'ora in poi chiamerò "zebrotto", come fa simpaticamente la Siaud Facchin stessa. E lei si arrabbia parecchio, perché gli zebrotti sono, regolarmente, degl'incompresi e soffrono molto. Premetto che, per illustrare il seguito, userò anche degli esempi tratti dalla mia esperienza, perché...sono una zebrotta anche io (come vari colleghi, del resto). E non è per niente facile.   


I plus - dotati hanno due caratteristiche principali, in realtà due facce della stessa medaglia, indissolubilmente intrecciate: 

Un'intelligenza diversa, super-veloce: in media, gl'impulsi viaggiano nel loro cervello a una velocità di 5 cm al secondo in più per ogni punto al di sopra del normale QI (mezzo metro in più per ogni 10 punti...degli Sputnik!). Per di più, le informazioni che arrivano così velocemente non vengono stoccate in una zona sola del cervello, ma un po' dappertutto: così vengono recepite tutte in contemporanea, col risultato che il nostro zebrotto fatica a selezionare le informazioni...e ci affoga dentro. 
Ipersensibilità, una "reattività emotiva costante, fonte di un'ansia diffusa". Proprio perché ha un cervello super-veloce, lo zebrotto è ipersensibile ed emotivo, anzi, la sua emotività fa strettamente parte della sua intelligenza: per così dire, "pensa col cuore" e tutti i suoi sentimenti appaiono decuplicati. Vive quindi le cose con un'intensità impensabile (e incomprensibile) per gli altri: anche un dettaglio vira alla tragedia (o, viceversa, all'estasi). Questo è collegato alla sua tipica iperestesia ("recettività sensoriale esacerbata"), che potrebbe essere dovuta a una sensibilità acuta dell'amigdala. Ciò rende più difficile alla corteccia prefrontale di controllare le emozioni e gestire il pensiero in sintonia. 


La Siaud - Facchin consiglia a ripetizione che gli zebrotti vengano adeguatamente valutati con una batteria di test, perché "la verità rende liberi": infatti, hanno un fortissimo bisogno di sapere chi sono. Spesso il loro comportamento, anche se sono bambini e adolescenti sanissimi, appare un po'differente e questo li fa sentire a disagio, persino in colpa. Così, se un bambino plus-dotato cresce senza essere riconosciuto per quello che è, rischia dei problemi seri, come vedremo: in particolare, il crollo dell'autostima, sensi di colpa, e persino blocchi emotivi o situazioni di ansia. Il pericolo maggiore per loro è proprio il crollo dell'autostima, perché il nostro zebrotto è ipercritico con se stesso: quindi, mentre possiede delle qualità meravigliose, pensa di non valere nulla, un po' come il brutto anatroccolo, che non sapeva di essere un cigno. Da notare: gli zebrotti sono gli ultimi a credere di essere plus - dotati e, anche quando cercate di convincerli che sono molto intelligenti, non ci credono (neanche davanti ai risultati del test nero su bianco). Solo sapere che si è plus - dotati permette di riconciliarsi con se stessi e di avere uno sguardo più realistico e positivo su di sé: di occupare la propria casella giusta, per così dire, e adeguarsi al proprio funzionamento. 


Dato che il discorso è lungo, lo proseguirò in altre puntate, in cui approfondirò gli aspetti cognitivi ed emotivi della personalità dello zebrotto, sempre sulla falsariga del libro di Jeanne Siaud - Facchin e di quello che ho sperimentato, anche come insegnante. 
(continua). 

Bibliografia: J.Siaud - Facchin, Troppo intelligenti per essere felici?, Milano, Rizzoli, 2016; ADF.

mercoledì 23 agosto 2017

Il Titanic dei nazisti - The Nazi Titanic


Il Titanic dei nazisti

Sapevate che anche i nazisti progettavano un kolossal sull'affondamento del Titanic? E che per girarlo impiegarono un transatlantico di lusso fabbricato in gara col vero Titanic? E che, alla fine della guerra, questo transatlantico di lusso divenne, tragicamente, un lager galleggiante?



                                                                 La Cap Arcona

Questa è la storia incredibile raccontata dal professore e saggista statunitense Robert P.Watson nel suo bel libro Il Titanic dei nazisti (apparso in inglese l'anno scorso col titolo The Nazi Titanic. The Incredible Untold Story of a Doomed Ship in World War II), edito in Italia da Giunti. E' la  storia della Cap Arcona (così chiamata dal nome di un promontorio della costa amburghese), varata dalla Hamburg-Sud nel 1927 e divenuta la "Regina dell'Atlantico": il transatlantico era stato progettato con molta cura dai tecnici navali tedeschi, i quali avevano preso in considerazione proprio il naufragio del Titanic per non ripetere gli stessi errori; e, nel Primo Dopoguerra, la Cap Arcona fu assegnata alle rotte per l'Argentina. 

Tristemente, con l'avvento della Seconda Guerra Mondiale, rimase però alla fonda nella rada di Amburgo per le esercitazioni della Kriegsmarine. Ed ecco allora il primo colpo di scena: Goebbels (che era un patito di cinema) progettò agl'inizi della guerra  un kolossal proprio a proposito del  naufragio del Titanic; perché? Ma perché si trattava di una sconfitta inglese, che avrebbe dovuto, negl'intenti della propaganda del Terzo Reich, rivelare l'incompetenza, la superficialità e l'avidità della "Perfida Albione"; il protagonista era infatti un nobile, quanto fantomatico ufficiale tedesco, Petersen, mentre una pessima figura la faceva l'armatore della nave, Ismay, reo di avere anteposto il lucro alla sicurezza. E la Cap Arcona divenne il set del film. 



                                                          La Cap Arcona in fiamme

Il progetto faraonico, cui Goebbels non lesinò i finanziamenti in epoca di razionamenti (!) fu portato avanti con l'aiuto e le comparse della Kriegsmarine e grazie al geniale, ma incontrollabile regista Herbert Selpin, tra mille difficoltà, rinvii e problemi organizzativi (tra l'altro, neanche lo sapessero, gli aeroplani della RAF resero molto complicate le riprese notturne). Senonché, Selpin, che era decisamente al di sopra delle righe e beveva come  una spugna, finì per dare del somaro a un tenente colonnello e a gratificare equamente Wehrmacht, Luftwaffe e Kriegsmarine al  gran completo con una lunga serie di attributi in cui compariva spesso la parola Scheisse. Il risultato fu l'arresto da parte della Gestapo: e il 1 agosto 1942, Selpin fu, chissà perché, trovato appeso alle sbarre della sua cella. Morto. Verosimilmente "suicidato".



                                               Monumento ai bambini di Bullenhauser Damm

Il film La tragedia del Titanic uscì nelle sale, ma non in Germania, bensì nei paesi occupati: si era nel 1943 e Goebbels si rese conto che, più che propaganda anti-inglese, il suo kolossal stava diventando la metafora più efficace per il naufragio del Terzo Reich. Ma la vera e propria tragedia avvenne dopo. L'arrugginita e sempre più ingovernabile Cap Arcona divenne, assieme ad altre imbarcazioni alla fonda a Lubecca e a Nuestadt, la destinazione dell'atroce evacuazione e delle "marce della morte" del famigerato lager di Neuengamme, il principale della Germania settentrionale, sito presso Amburgo. Questa è la parte principale e più meritevole del libro: una lunga lista di crudeltà, spesso raccapriccianti, commesse dai nazisti che volevano cancellare ogni traccia dello sterminio. Un esempio: la storia dei bambini ebrei del sottocampo di Bullenhuser Damm, usati dal famigerato dott.Kurt Heissmeyer per esperimenti sadici col bacillo della tubercolosi e poi impiccati nella cantina di una scuola. Oppure, 1016 prigionieri del sottocampo di Mittelbau-Dora, durante la marcia della morte, vennero chiusi  in un fienile, che poi le SS cosparsero di benzina e incendiarono: gli Americani giunsero solo il giorno dopo. 


                                           René Blieck, scrittore e avvocato belga, imprigionato
                                         a Neuengamme dai nazisti e perito sulla Cap Arcona

La Cap Arcona, nonostante l'opposizione del suo meritevole capitano Bertram, fu stipata all'inverosimile di internati, quasi 5.000: senza servizi igienici, cibo e acqua, le vittime si ritrovarono in condizioni infernali, praticamente coperte di escrementi. Probabilmente, le SS intendevano far partire le navi e affondarle al largo, uccidendo tutti gli occupanti. Intanto,  il diplomatico svedese Folke Bernadotte cercava di salvarne il più possibile con i suoi convogli della Croce Rossa. Ma la vicenda ebbe, purtroppo, un altro triste esito: il 3 maggio, gli aerei della RAF bombardarono la Cap Arcona e altre navi piene di prigionieri, pensando si trattasse di convogli militari con cui i nazisti progettavano di arroccarsi nella Norvegia ancora occupata. Migliaia di persone morirono intrappolate tra le fiamme o nelle acque gelide; nella baia di Lubecca, si continuarono a trovare cadaveri fino agli anni '70.



                                        Il fienile di Gardenlegen, dove bruciarono 1016 persone

Ancor oggi, non si sa perché la RAF abbia commesso questo gravissimo errore: di certo, i documenti relativi sono secretati per 100 anni, fino al 2045. Pochissimi si salvarono e la tragedia della Cap Arcona è rimasta largamente dimenticata. Watson ha quindi il grande merito di avere condotto una ricerca seria con una larga documentazione (in cui però si sente la carenza di documenti tedeschi) per portare alla luce una vicenda importante e che ha ancora molto, troppo da insegnare. Il libro, scritto in modo scorrevole e accattivante, ha, è vero, delle pagine molto dure: ma questa è la memoria di quanto accadde sotto il nazismo. La gente ama molto  il Diario di Anna Frank, ma quello è una testimonianza dell'Olocausto davvero indiretta: qui invece si capisce la logica assassina del nazismo, che aveva ridotto molti essere umani a subumani. E che, diabolicamente, divenne sempre più feroce, quanto più si avvicinava alla fine, in maniera stupidamente atroce. 

The Nazi Titanic

Did you know that the Nazis planned a colossal movie about the sinking of the Titanic? And that they employed as a set a luxury transatlantic built in competition with the same Titanic? And that, at the end of the war, this luxury transatlantic tragically became a floating lager?



                                                        The transatlantic Cap Arcona

This is the incredible story told by US professor and essayist Robert P. Watson in his beautiful book The Nazi Titanic (published in English last year and entitled The Nazi Titanic. The Incredible Untold Story of a Doomed Ship in World War II), edited in Italy by Giunti. It is the story of the Cap Arcona (called according to the name of a promontory on the Hamburg coast), launched by Hamburg-South in 1927 and considered the "Queen of the Atlantic": the transatlantic was designed with great care by German naval technicians, who had taken into consideration the shipwreck of the Titanic to avoid the same mistakes; after the First World War, Cap Arcona was assigned to the routes to Argentina.

Sadly, with the advent of World War II, however, it remained in the mooring in Hambourg harbor for the Kriegsmarine exercises. And here's the first turn: Goebbels (who was a movie patron) planned a colossal movie about the Titanic shipwreck; why? Because it was an English defeat, which, according to the Third Reich's propaganda, should reveal English incompetence, superficiality, and greed. The protagonist was, in fact, a noble, as well as unreal German official, Petersen, while a poor figure was made by the shipowner, Ismay, who preferred gain to security measures. And the Cap Arcona became the movie set.



                                                     Monument to victims of the Cap Arcona

The pharaonic project, which Goebbels lavishly funded during the rationing (!) was carried out with the help and extras of the Kriegsmarine and thanks to the ingenious, but uncontrollable director Herbert Selpin, amongst many difficulties, delays and organizational problems (among other things, RAF airplanes unwillingly made night shots very complicated). But Selpin, who was definitely eccentric and drank like a sponge, ended up insulting a lieutenant colonel and equally gratifying the Wehrmacht, Luftwaffe, and Kriegsmarine with a long set of attributes in which the word Scheisse often appeared. The result was his arrest by the Gestapo: and on August 1, 1942, Selpin was, who knows why, was found hanging from the bars of his cell. Dead. Probably "suicided".

The film Titanic's tragedy was diffused, but not in Germany, however in the occupied countries: it was 1943 and Goebbels realized that his colossal was becoming, more than anti-English propaganda, the most effective metaphor for the wreckage of the Third Reich. But the real tragedy happened later. The rusty and increasingly ungovernable Cap Arcona became, along with other ships based in Lubeck and Neustadt, the destination for the evacuation and death marches from the infamous Neuengamme lager, the main one in northern Germany, located near Hamburg. This is the most deserving and important part of the book: a long list of cruel, often gruesome crimes, committed by the Nazis who wanted to erase every trace of the extermination. An example: the Jewish children from the subcamp of Bullenhuser Damm, used by the notorious Dr. Kurt Heissmeyer for sadistic experiments with the tuberculosis bacillus and then hung in the cave of a school. More, 1016 prisoners from the Mittelbau-Dora sub-camp, during their death march, were locked in a barn, which the SSs sprinkled with gasoline and ignited: the Americans only arrived the following day.



                                                 The Cap Arcona (scale model)

The Cap Arcona, in spite of its worthy captain Herbert Bertram's resistance, was crammed with an unbelievable number of prisoners, almost 5,000: without any toilets, food or water, the victims found themselves in hellish conditions, practically covered with excrements. The SS probably wanted to sink the ships off, killing all of their occupants. Meanwhile, Swedish diplomat Folke Bernadotte tried to save as many prisoners as possible by his Red Cross convoys. But the story, unfortunately, had another sad achievement: on May 3, RAF planes bombed the Cap Arcona and other ships full of prisoners, considering them as a military convoy directed by the Nazis to Norway. Thousands of people died trapped in the flames or in the cold waters; in the bay of Lübeck, corpses continued to be found up to the '70s.



                                                   René Blieck, Belgian writer, an attorney,
                                         a prisoner in Neuengamme and perished on the Cap Arcona

Even today, we do not know why the RAF committed this very serious mistake: of course, the related documents are secreted for 100 years, until 2045. Very few prisoners survived and the Cap Arcona's tragedy remained largely forgotten. Watson, therefore, has the great credit for carrying out serious research with extensive documentation (however, we feel the lack of German documents) to bring to light an important story which has still much, too much to teach. The book, written in a captivating manner, has very hard pages, but this is the memory of what happened under Nazism. People love the Anna Frank's Diary, but that is a truly indirect testimony about the Holocaust: here, instead, we understand the murderous logic of Nazism, which reduced many human beings to subhumans. And, diabolically, it became increasingly harsher as it approached the end, in a stupidly atrocious way.

mercoledì 22 giugno 2016

Una sera a Parigi di Nicolas Barreau (2010)


Una sera a Parigi

Alain è proprietario di un piccolo cinema, il Cinema Paradis, sulla Rive Gauche di Parigi. Lo ha rilevato (il nome rimanda direttamente a Nuovo Cinema Paradiso, di G.Tornatore) da suo zio Bernard, appassionato di cinema d'essai e da cui ha appreso la passione per i film. Non a caso, da piccolo ha trascorso ore e ore accanto a lui durante le proiezioni - imparando molto sulla storia della Settima Arte. Ma il cinema di qualità oggi non va per la maggiore e il piccolo Paradis lotta per sopravvivere, insidiato com'è dai mostruosi multisala dove si ingurgitano tonnellate di pop-corn.


Il mercoledì sera, il giovane proietta dei classici film d'amore, per la serie Les amours du Paradis. E proprio il mercoledì sera, comincia a notare un'affascinante, timida fanciulla, dai capelli color caramello e vestita di un cappotto rosso, che si siede sempre alla fila 17 - chissà perché. Per quattro mesi esita a rivolgerle la parola, infine, a primavera, decide di invitarla a cena: e nasce così una coinvolgente storia d'amore. Ma, dopo il primo appuntamento, Alain ha un'altra spiazzante sorpresa: trova fuori dal suo cinema il famoso regista Allan Wood (maglione, pantaloni di velluto a coste, occhiali squadrati, passione per Parigi: avrete riconosciuto Woody Allen), assieme alla diva di origine francese Solène Avril, che intendono girare un film romantico, Ricordando Parigi, proprio al piccolo, grazioso cinema Paradis. Il progetto proietta d'improvviso Alain sulla  ribalta culturale di Parigi; ma, proprio allora, la fanciulla dal cappotto rosso, Mélanie, scompare e Alain, che non ha il suo numero di telefono ed altre coordinate, dispera di ritrovarla. La ricerca della donna della sua vita, tra alti e bassi, momenti tristi e umoristici, continua tra vari colpi di scena, finché non succede l'inimmaginabile...


Ho "sgraffignato" questo libro dalla sala professori (l'avevo già notato in libreria e intendevo leggerlo) e, di certo, ce lo riporterò tra qualche giorno; mi è piaciuto e posso annotarne vari meriti. Innanzitutto, è molto grazioso, gradevole, curato, bene scritto; possiede il tono lieve di una fiaba, una bella fiaba d'amore, ambientata in una città splendida. Si legge con piacere e, caso raro oggi, pur essendo un romanzo d'intrattenimento, non è stupido, anzi, convoglia comunque delle idee: la passione per il cinema, la fiducia nei sentimenti più autentici, la voglia di cose belle. E' poi piuttosto divertente e ricco di un humor lieve, quasi delicato.

Detto questo, però, non bisogna cascarci a occhi chiusi. Mi ha insospettito subito il fatto che il titolo originale fosse in tedesco (Ein Abendes in Paris): del resto, Parigi è descritta con il tono incantato e idealizzato di chi non ci abita (provate a fare il confronto con Simenon e Modiano e vi renderete conto della differenza). I locali e gli angoli descritti nel libro sono autentici, ma sono quelli normalmente elencati tra le attrazioni della città, dal Caffè Flora, al Bar Hemingway. La storia d'amore è fiabesca, dolce, ma non ha niente di profondo, i film menzionati nel libro sono dei classici, ma spesso popolari, non sempre propriamente d'essai, e, tutto sommato, vengono citati in modo "decorativo", non proprio con la prospettiva profonda di chi si intende davvero di cinema; la storia è piena di clichés, sapientemente costruita con colpi di scena e altro, ma, al di là del suo romanticismo, non offre nessun significato trascendentale. Ecco, il romanticismo: non lo troverete mai in un Francese. Questo è il libro scritto da un Tedesco.


Non solo: se andate a fare un giretto su Internet, scoprirete che, secondo voci piuttosto attendibili, l'autore, Nicolas Barreau, non esiste. E' un autore costruito a tavolino e il libro è stato altrettanto costruito da qualche sapiente ghostwriter della casa editrice tedesca che lo ha lanciato. Difatti, del prodotto "costruito", ha tutto: l'abilità artigianale, i luoghi comuni, il tono medio, che deve accontentare qualsiasi palato, sia a livello di contenuti che di stile. Insomma, è un'operazione commerciale che segue il genere del romanzo d'amore e vi aggiunge alcuni tratti cari al pubblico di oggi, come l'amore per i piaceri della vita, dal vino, al cibo, al cinema. Almeno, è un'operazione commerciale ben fatta e seria. Una lettura ideale da fare sotto l'ombrellone.

martedì 14 giugno 2016

La primula rossa - The Scarlet Pimpernel (Baronessa de Orczy, 1905)


La primula rossa

La cercan qui, la cercan là,
dove si trovi nessun lo sa.
Che catturare mai non si possa,
quella dannata Primula Rossa?



Questa è la "mitica" canzoncina che fa da ideale colonna sonora a uno dei romanzi d'avventure più noti della letteratura britannica, la celebre Primula rossa, ambientata nella Francia del Terrore - e, di là dalla Manica, nell'Inghilterra di Giorgio III. Giusto per essere precisi, la versione inglese originale della nota canzoncina è questa:

We seek him here, we seek him there,
Those Frenchies seek him everywhere.
Is he in heaven?—Is he in hell?
That demmed, elusive Pimpernel.



Sir Percy Blakeney è un ricchissimo e indolente aristocratico inglese, avverso, come tanti suoi compatrioti, alla deriva che ha preso la Rivoluzione francese dopo la fine del periodo costituzionale. E' molto bello e aitante - ma noto per il suo stile di vita da dandy inutile e pigro, tanto vanitoso, quanto incapace. Ancora peggio: in un'epoca (il Settecento) in cui arguzia, stile e gusto nella conversazione appaiono tra i valori più apprezzati in società, Sir Percy è tutto l'opposto, fatuo e insulso. O così almeno crede la moglie, francese, Marguerite St.Just, che, come dice il nome, appartiene a una famiglia di lignaggio, ma legata a filo doppio alla Rivoluzione. Considerata bellissima e la "donna più intelligente d'Europa", che, con il suo fascino e la sua conversazione brillante anima il salotto più ambito d'Inghilterra, Marguerite finisce per disprezzare il marito imbelle, senza che questi, apparentemente, se ne dia pensiero.

Ma la bella Marguerite è preoccupatissima per la sorte del fratello Armand, che sta rischiando la ghigliottina. Siamo nel 1792, Robespierre imperversa e molti aristocratici francesi (e non solo) stanno finendo i loro giorni sotto quella lugubre lama: e, dall'altra parte della Manica, è diventato sempre più popolare un misterioso eroe, dall'identità accuratamente celata, che, provando un'astuzia fuori del comune, riesce a eludere regolarmente l'agguerrita sorveglianza dei rivoluzionari e a portare in salvo i nobili francesi in pericolo. Anche Marguerite è attratta da questo straordinario personaggio, ma ne ignora l'identità, nota solo alla sua Lega (una ventina di uomini pronti a tutto per obbedirgli) e al principe di Galles. Anzi, la caratteristica principale della "Primula Rossa" (così è chiamato l'eroe, poiché lascia come firma delle sue imprese dei bigliettini adorni del disegno di un fiore del genere) è proprio l'imprendibilità.
Marguerite viene perseguitata da Chauvelin, il cattivo di turno, rappresentante francese in terra britannica e deciso a ricattarla con l'arma della vita di Armand, in cambio di informazioni sulla vera identità della Primula Rossa. La donna, stretta dall'angoscia, è costretta ad aiutarlo, ma ben presto scopre che la Primula, altri non è se non il marito, Sir Percy, che non ha mai smesso di amarla intensamente....


Antesignano di Zorro, Batman e altri eroi dalla doppia identità, imbelle e fatuo nella vita di tutti i giorni, ma in realtà aitante, coraggioso, intelligentissimo ed eccezionalmente capace in incognito, la Primula Rossa è l'eroe affascinante e misterioso per eccellenza: dopo il romanzo d'esordio, del 1905, l'autrice Emma de Orczy, baronessa di origine ungherese, ma naturalizzata inglese, ne pubblicò un'altra decina e divenne nota anche con gialli e altri romanzi d'avventura. La Primula rossa vale la pena di essere letto non solo per l'accurata ricostruzione dello scenario storico, ma anche per la godibilità, l'eleganza della stesura e l'intelligenza della composizione. E poi, c'è la storia d'amore, fra l'eroe bello e intelligente e l'affascinante Marguerite....Tanto basta per leggere un  libro popolarissimo, che ha inebriato generazioni di lettori ed è approdato spesso anche al cinema e in TV: tanto popolare, da divenire proverbiale.

giovedì 9 giugno 2016

Amanti e regine, di Benedetta Craveri (2005)


Amanti e regine, di B.Craveri

Ecco un magnifico libro, scorrevolissimo e accattivante, che si legge come un romanzo, e che pure si distingue per la sua solida impostazione scientifica e ampiezza di contenuti: un libro che ci riporta ai fasti del Grand siècle, del momento più lussureggiante della letteratura e cultura francese, quel periodo brillantissimo tra Sei e Settecento che ha imposto la raffinatezza parigina al resto d'Europa.


Benedetta Craveri è una studiosa di fama internazionale di cultura francese, specie dell'epoca dell'ancien regime: si è imposta all'attenzione del pubblico con il suo celebre La civiltà della conversazione, un godibilissimo volume che celebrava appunto quel mondo, formatosi alla corte di Francia e nell'alta aristocrazia dell'epoca, dedito al piacere della conversazione brillante, dei bei motti, dell'arguzia, dell'intelligenza più scintillante: un gusto, beninteso, nato in Italia - esso affonda le radici nella trattatistica cortigiana del Cinquecento, nel Cortegiano di Baldassarre Castiglione e nel famoso Galateo di Monsignor Della Casa -, ma approdato a Versailles e divenuto ben presto emblema di raffinatezza ed eccellenza, proprio in un momento in cui la nobiltà francese, esautorata dalle sue responsabilità politiche, scopriva una compensazione nelle arti, nelle lettere, negl'interessi culturali.


In questo libro, invece, sottotitolato Il potere delle donne, la Craveri, che attinge a una serie di articoli di volta in volta pubblicati sulle figure di regine e favorite francesi, ritrae alcune tra le figure più rinomate della storia del regno di Francia: da Caterina de' Medici, odiata perché straniera, ma intelligentissima, alla "regina martire" Maria Antonietta vittima della sventatezza della sua giovane età, poi maturata rapidamente e morta con grande dignità; da Madame de Pompadour, la più celebre tra le amanti di Luigi XV, coltissima e intrigante, ma anche (ahinoi) inaspettatamente frigida, all'algida Diane de Poitiers, bellissima e inavvicinabile amante di Enrico II; dalla viperina Maria de' Medici, tirannica e dispotica, alla dolce Anna d'Austria, la regina per il cui onore si adoperano i famosi tre moschettieri di Dumas; dalla brillante Madame de Montespan, favorita di lusso di Luigi XIV, all'affascinante Madame Du Barry e così via, in una carrellata ricca, quanto accattivante e che no lesina neanche acuti ritratti dei contemporanei personaggi maschili.


Il saggio, che si legge tutto d'un fiato e riecheggia la grazia e l'eleganza stilistiche della prosa dell'epoca, rievoca quindi un mondo in cui, oltre a eccessi ed intrighi, regnava anche l'intelligenza, talora forse impiegata in modo un po' frivolo, ma comunque apprezzabile: e la Craveri sottolinea non solo come siano nati fior di stereotipi su regine e favorite, tali da orientare l'opinione pubblica, ma anche come tutti questi personaggi femminili abbiano influenzato profondamente cultura, arti, letteratura e anche politica (per quanto i sovrani in carica tentassero di tenere alla larga da quest'ultima il gentil sesso). Anzi: in un mondo in cui alle regine era richiesta soprattutto castità e morigeratezza, le favorite, spesso ufficializzate, assumevano non di rado un ruolo da first lady, quindi di arbitre del gusto, dell'eleganza, di mecenati e promotrici di novità e cultura.

Al termine di questa gradevolissima lettura, vorrei ricordare soprattutto due argomenti che mi hanno affascinato. Il primo è l'"affare dei veleni", esploso all'apice del regno del Re Sole e durante il quale, a partire dalle confessioni di alcune maghe e fattucchiere, numerosi membri delle élites furono accusati di essere ricorsi a riti occulti, stregoneria, veneficio, a motivo di odi, vendette, ambizioni inconfessabili e altre abiezioni. A mio avviso, il dossier potrebbe essere rivisitato con profitto con l'ausilio delle moderne scienze forensi: in particolare, credo che lo studio delle confessioni false e della psicologia della testimonianza potrebbe offrire un qualche aiuto nel districare la complicata matassa di esternazioni che, come sempre, vengono rilasciate, a dritto e a rovescio, in occasione di un panico sociale.


Il secondo soggetto, davvero affascinante, è la storia d'amore tra la regina Maria Antonietta e il bellissimo conte svedese Hans Axel von Fersen, una vicenda sviluppatasi a causa dell'ennesimo, malaugurato, matrimonio combinato e che evolvette verso sentimenti molto profondi. Fersen, ritenuto all'epoca cinico e libertino, seppe però dare prova di una devozione imperitura nei confronti della sovrana morta poi durante il Terrore. Una passione antica, intinta di poesia e spirito cavalleresco, ma anche della nostalgia tipica delle cose belle perdute.

Nota: questa è l'unica immagine decente che sono riuscita a trovare del conte Axel von Fersen, che aveva fama di essere alto 1,90, biondo, con gli occhi azzurri e le sopracciglia scure. Mi spiace, ma non sono stata in grado di trovare di meglio....

sabato 26 marzo 2016

Bijou, Patrick Modiano (La petite Bijou, 2001)


Bijou, di Patrick Modiano

Un piccolo capolavoro, opera del premio Nobel per la Letteratura 2014, Patrick Modiano; un libretto  breve, ma profondo, che affonda la lama della narrazione in uno dei dolori più grandi che possano esistere: lo stato di abbandono in cui una madre può gettare i figli attraverso il suo disamore e i maltrattamenti.
 
 
Siamo negli anni '50, a Parigi. Thérèse, una giovane sui 25 anni (a dire il vero, il suo nome è citato pochissimo e viene ricordato piuttosto il soprannome impostole dalla madre, Bijou), una sera, sulla metropolitana, crede di scorgere la madre, o piuttosto una donna che le assomiglia, abbigliata di un cappotto giallo. Senza farsi scorgere, la segue: nei giorni successivi si interessa sempre di più alla vita di quella sconosciuta, che vive miseramente un'esistenza precaria nella periferia parigina. Le sue ricerche, ma soprattutto le sue memorie, riportano la ragazza in vari luoghi della metropoli, minuziosamente annotati come su di una cartina geografica, sulla falsariga degli eventi della sua infanzia e adolescenza: come frantumi, in modo spezzato, ma anche ripetuto, quasi ossessivo, riemergono alla superficie ricordi dolorosi, spezzoni di angoscia, lampi di paura, frutto delle sofferenze infertele dalla madre Sonia.

Nel suo girovagare attraverso le vie di Parigi, apparentemente in modo disordinato, Thérèse ripercorre così il suo passato e vi si immerge nuovamente per superarlo. Molte volte, nel corso del romanzo, ella pare affogarvi dentro; e sono superbamente rese le sofferenze di una figlia tormentata dalla propria madre, come angoscia, paura, spesso apparentemente immotivata, panico; ma, soprattutto, la terrificante sensazione di precipitare verso il nulla, perché, quando non si è amati da una madre, ci si sente davvero ingoiati dal nulla. Il nulla è Le Néant, come il cabaret vicino a casa di Thérèse (non a caso, un appartamento in Rue Costou, situato in un palazzo dove la madre aveva vissuto in passato e in cui la giovane è andata a vivere come se agognasse inconsapevolmente un estremo abbraccio materno), quel cabaret che ricorda l'esistenza di ballerina di quart'ordine in cui Sonia, appassionata di danza, è precipitata dopo un incidente alle caviglie.
Una madre che non sapeva accudire la figlia, che indulgeva alla morfina; e la fascinazione perversa delle droghe (l'etere, i superalcoolici, la morfina, i sonniferi) pare un sostituto artificiale e menzognero dell'amore materno, un'illusione che, a lampi, attraversa le pagine del libro e nella cui tentazione Thérèse si imbatte spesso. Una madre evanescente, di cui è difficile cogliere la personalità, ma descritta in modo estremamente realistico; una madre che ha finito per abbandonare la figlia, per spedirla a un'amica che la allevasse via treno, con un cartello appeso al collo, e che è scomparsa, forse morta, chissà dove, nell'azzurro torrido del Marocco. Una madre che potrebbe essere morta ippure viva: e, dalle pagine del libro, non sapremo mai se la donna dal cappotto giallo (un colore inquietante) sia veramente lei. Forse è un miraggio, forse una proiezione: forse è il riflesso delle paure di Bijou, che si risvegliano all'improvviso e rischiano di sommergerla.
 
 

Attorno alla giovane, un mondo precario, in cui persino i nomi delle persone fluttuano e sono incerti, in cui le persone stesse appaiono in frantumi, tra appartamenti in stato di abbandono e abitazioni provvisorie, con materassi per terra, mobili di fortuna e stanze troppo  grandi; e in questo ambiente di esistenze alla deriva si delineano gli altri personaggi della vicenda: i Valadier, i datori di lavoro di Thérèse, dal losco passato e che abbandonano a se stessa la figlia non meno di quanto Sonia abbia abbandonato Thérèse; ma anche personaggi positivi, come il giovane traduttore con cui la ragazza stringe amicizia; o, soprattutto, la farmacista che la soccorre e diventa,  con la sua tenerezza sobria e dolce, un sostituto della figura materna, una vera e propria ancora di salvezza. L'amore, la solidarietà, sono gli unici rimedi in questo universo di esistenze sospese, incerte, in frantumi.
Vengono in mente tanti paralleli alla lettura di queste scarne, eppure densissime pagine, che meriterebbero da sole il Nobel per lo scavo profondo della sofferenza umana, una sofferenza antica e abissale, per la profonda umanità che dimostrano nel ritrarre il dolore di bambini abbandonati a se stessi, obbligati a non avere paura, ad essere soli, ad affrontare il buio, non solo fisico: viene in mente l'acuto realismo delle pagine di Simenon su Maigret, che percorre le vie, analogamente disadorne e cupe, di una Parigi di periferia, dove si ammucchiano solitarie vite ai margini; viene in mente un film degli anni '70 sullo stato di abbandono di troppi bambini, I bambini ci guardano, oppure il romanzo di Gilbert Cesbron Cani perduti senza collare; o ancora, il capolavoro della Nouvelle vague francese, il nuovo cinema realistico, Les quatrecents coups, dedicato alla sofferenza di un ragazzino a rischio. Pare che la miseria in cui molti, troppi bambini sono stati precipitati dall'egoismo degli adulti sia un problema ricorrente in Francia. Sorge il dubbio che i sovvertimenti politici degli ultimi due secoli e lo sviluppo economico abbiano sconvolto le famiglie e gettato nel caos e nell'abbandono proprio i più piccoli.
E mi vengono in mente delle parole che mi ripeto spesso, parole che una mistica del XX secolo attribuiva nientemento che a Lui: Di tutti sono i figli. Meno che vostri, o genitori del ventesimo secolo.  Sono della nutrice, dell'istitutrice, del collegio, se siete ricchi. Sono dei compagni, della strada, delle scuole, se poveri. Ma non vostri. Voi mamme li generate e basta. Voi padri fate lo stesso. Ma un figlio non è solo carne. E' mente, è cuore, è spirito. ...Nessuno più di un padre e di una madre hanno il dovere e il diritto di formare questa mente, questo cuore, questo spirito....(dal Poema dell'Uomo Dio di M.Valtorta, vol.I, dettato del 21 marzo  1944).
 
 
 

venerdì 26 febbraio 2016

Padiglione cancro - Cancer Ward (Alexandr Soljenitsin, 1967)


Padiglione cancro

"Il padiglione cancro era il numero tredici. Pàvel Nikolàeviĉ Rusànov non era mai stato superstizioso, né avrebbe potuto esserlo, ma ebbe un tuffo al cuore quando vide scritto «padiglione N. 13» sul suo foglio di ricovero".  Così inizia uno dei più bei romanzi che siano mai stati scritti, Padiglione cancro, opera del dissidente, scrittore e filosofo Alexandr Soljenitsin, premio Nobel nel 1970 e morto nel 2008. Si tratta di un romanzo corale: l'autore, con maestria, segue i fili delle vicende relative a pazienti e medici di un reparto di oncologia di una città dell'Asia sovietica (è Tashkent, in Uzbekistan), nel 1955, a due anni dalla morte di Stalin.
La storia si ispira a fatti veramente accaduti: dopo essere stato relegato nel gulag per avere espresso dubbi sulla politica staliniana in una lettera, l'autore venne deportato in una remota regione della Siberia, quindi si ammalò di tumore allo stomaco, fu ricoverato a Tashkent e, sorprendentemente, riuscì a guarire e poi a essere liberato (leggendo la biografia di Soljenitsin si nutre l'impressione che fosse indistruttibile o che avesse un protettore molto forte nelle alte sfere).


L'alter ego dello scrittore è Oleg Kostoglotov, colto, sopravvissuto al gulag, ricoverato nella corsia oncologica, che nasconde sotto una scorza burbera e indurita dalle sofferenze una notevole umanità. Attorno a lui si avvicendano numerosi pazienti, ciascuno ritratto minutamente e con estremo realismo insieme alla sua vicenda personalissima: c'è Rusanov, un burocrate mediocre, chiara espressione della nomenclatura comunista, per cui la malattia potrebbe rappresentare un'occasione di revisione della propria vita, ma ingabbiato nella propria ristrettezza mentale e nel proprio egoismo; c'è Efrem Podduev, un omone sanguigno che ha percorso tutta la Russia col suo camion e che in passato si è dato alla bella vita, ora schiantato da un cancro alla gola e la cui esistenza si rovescia nello scoramento e pessimismo più totale; c'è Demka, un bravo ragazzo, cresciuto in una famiglia disfatta, ma serio e studioso, cui devono amputare una gamba e che si innamora di Asja, un'altra paziente adolescente; c'è Ackmadžàn, un uzbeko trentenne, che parte allegramente dopo essere stato dimesso, ma ignora che nel suo referto è stato giudicato inoperabile; c'è Vadim, un giovane geologo, efficiente e studiosissimo, deciso a sfruttare al meglio il suo tempo e a riuscire anche contro la malattia, ma condannato da un neuroblastoma. E poi, attorno a loro, i medici e gl'infermieri: dall'attraente studentessa di medicina Zoja, per cui Oleg prova un'effimera attrazione e che è alla ricerca di un rapporto solido, al primario chirurgo, Lèv Leonìdovič, intelligente e donnaiolo, a Ljudmìla Afanàs'evna Doncòva, la direttrice del reparto radioterapia, ben presto affetta ella stessa da quel male incurabile, che combatte tutti i giorni con i suoi raggi, e di cui l'autore ritrae la paradossale tragedia con profondità; fino a Vera Gangart, la gentile dottoressa di cui Oleg infine si innamora, ma con cui egli ritiene impossibile costruire un rapporto autentico. Tante storie, ognuna con una propria verità profonda, che l'autore coglie con rara empatia.


Quello che colpisce di più di Padiglione cancro è lo straordinario realismo; non è un libro crudo, eppure affonda la penna nella realtà in una maniera che, a mio avviso, è rimasta insuperata: tanto che pare di vedere i personaggi e le scene davanti agli occhi, con un senso della vita vissuta eccezionale, tangibile. Per questo motivo, il libro, pure se abbastanza ponderoso, scivola via (come succede per molti capolavori russi) in modo ineguagliabile e si legge tutto d'un fiato. Ma i pregi di Padiglione cancro sono innumerevoli. Il romanzo è un ritratto tridimensionale della vita quotidiana nella Russia sovietica post-staliniana e delle questioni morali ed esistenziali poste dal quadro politico, sociale, ma anche semplicemente interiore di ognuno. Ognuno, infatti, vive il proprio dramma, in solitudine, ponendosi domande che non trovano facilmente risposta. Uno dei personaggi più umani è Solubin, l'anziano docente tormentato da un umiliante cancro rettale e umiliato dal suo passato di acquiescenza al potere, che si sofferma a discutere con Oleg delle purghe staliniane: e l'ex-deportato comprende che, se a lui è toccato il gulag, a quelli fuori è toccato il terrore, la certezza che qualcosa di orrendo stava accadendo, senza che nessuno avesse il coraggio di ribellarsi (splendida questa riflessione sulla colpa individuale e collettiva al tempo stesso a fronte del totalitarismo più disumano).

Il cancro, come la Morte dei Trionfi della morte trecenteschi, dell'epoca della peste nera, insidia tutti e pare chiedere a ciascuno l'amaro conto dell'esistenza, in una sorta di giudizio, laico e trasversale. Forse ha ragione chi vi ha visto una metafora del comunismo, ma esso esprime molto di  più: la malattia, subdola e insidiosa, svela, di volta in volta, la fragilità, il limite, il punto debole di ognuno e colpisce a tradimento, costringendo a una profonda revisione della propria esistenza. Per questo appare tanto più tragica e grottesca l'ottusità di Rusanov che, al termine del romanzo, esce apparentemente guarito e sprezzante nei confronti degli altri malati, ignorando che la sua guarigione rappresenta solo una tregua temporanea. Il male è quindi l'occasione per porsi le domande fondamentali sul senso dell'esistenza, quelle domande ineludibili su cui ci si gioca la vita e che rimangono spesso, nella quotidianità di tutti i giorni, prive di attenzione o risposta, per negligenza o superficialità.

 
Non stupisce allora che, tra gl'interrogativi più ricorrenti di queste pagine emerga quello sull'amore e i rapporti di coppia. Attraverso quest'angolatura Soljenitsyin analizza la devastazione operata dal materialismo, allora già operante in URSS e oggi a pieno regime da noi. Tramite Zoja, giovane e avvenente studentessa di Medicina, stanca di rapporti occasionali, ma incapace di trovare un compagno stabile, Vera, la bella e dolce dottoressa che ha perduto in guerra il suo grande amore ed è rimasta tristemente sola, Efrem, che rimpiange le molte donne di cui ha approfittato, o Oleg, condannato all'impotenza dalla terapia ormonale e incapace di sperare in una relazione sentimentale duratura se privato della propria funzionalità fisiologica, l'autore esprime la tragedia della vita di coppia odierna, in cui conta sempre di più solo l'aspetto materialistico e trivialmente sessuale, mentre si perde il senso della persona e delle autentiche relazioni profonde che l'amore vero può donare. In questo deserto affettivo, i nostri protagonisti si trovano inesorabilmente soli, non molto diversamente da quelli di Moravia, per cui ormai l'unica possibilità di contatto umano è il sesso nudo e crudo. Eppure, la fine del romanzo, per quanto sconsolata, non suggerisce desolazione: la profondità della meditazione di Soljenitsyn è tale, che continua ad accompagnare il lettore per giorni, mesi, anni, con una ricchezza inesauribile e tale da indurre, dopotutto, speranza.

martedì 23 febbraio 2016

Meraviglioso viaggio del piccolo Nils - Wonderful adventures of Nils, Selma Lagerlof (1907)


Meraviglioso viaggio del piccolo Nils

E' il libro che ha reso celebre l'autrice svedese Selma Lagerlof al di fuori della Svezia e forse non è così peregrino pensare che esso abbia contribuito a guadagnarle il Nobel nel 1909: è il fresco e affascinante libro per ragazzi Meraviglioso viaggio del piccolo Nils, un libro fantastico, una storia di formazione, incentrata sul quattordicenne Nils Holgersson. E' una storia piena di colori, di meraviglie, eppure semplice e vera, dai significati profondi: non stupisce che in Svezia sia popolarissima e che da questo libro Konrad Lorenz abbia tratto la sua vocazione di etologo (pare che io condivida con lui la passione per le oche e le papere in genere...).


Nils è un ragazzo biondo, bello, ma lavativo ed egoista: fa disperare i suoi genitori, maltratta gli animali della fattoria, insomma, non combina niente di buono. Una domenica di marzo rifiuta di seguire i genitori in chiesa e rimane a casa a oziare; allora la fattoria viene visitata da un coboldo, un nanetto minuscolo che protegge la proprietà; scoprendolo, Nils decide di catturarlo con una zanzariera. Ma ecco che il ragazzo viene colpito all'improvviso da uno schiaffo immane, tale da stordirlo; e, quando si sveglia, scopre di essere stato rimpicciolito per magia....Uscito fuori sull'aia, il nanetto scopre allora di capire il linguaggio degli animali, ma non intende messaggi molto positivi: infatti, tutte le bestie della fattoria ce l'hanno con lui per le sue cattiverie e lui rischia grosso la loro rappresaglia. Ma ecco, nel cielo primaverile s'intravvede il cuneo formato da uno stormo di oche in fase di migrazione verso la Lapponia: l'oca più bella, Martin, desiderosa di seguirle, si alza in volo e Nils, nel disperato tentativo di frenarla, rimane aggrappato al suo collo, ritrovandosi così, assieme a Martin, al centro di  una schiera di aristocratiche oche selvatiche. Con qualche difficoltà, i due vengono accolti nello stormo e inizia così un viaggio affascinante attraverso la Svezia: non solo quella che si vede di giorno, composta di città, porti e fattorie, ma anche quella fiabesca, notturna, fatta di leggende, creature magiche e fantasmi.

                                               

Il libro conserva un fascino straordinario, tanto che me lo rileggo spesso: alcuni episodi rimangono nel cuore, come la mitica città di Vineta, che, punita per la sua superbia a essere allagata dal  mare, ricompare ogni cento anni per un'ora sulla spiaggia; oppure la morte del piccolo Mats, un bambino povero, di nove anni, guardiano di oche e orfano, cui la sorella Asa decide di regalare, tra mille difficoltà, un funerale da adulto, perché da adulto ha sopportato la miseria e gli stenti. La Svezia non è sempre stata la nazione ricca e prospera che conosciamo e, nell'Ottocento, vi dilagava la miseria; e spesso, pur  nella sua fiabesca freschezza, il romanzo riporta squarci di una realtà ben più dura.
Del resto, il messaggio del libro è ben lungi dall'essere infantile. Nils, accolto nello stormo dell'anziana oca Akka di Kebnekkaisen, durante questo straordinario viaggio impara a vivere: non si limita ad ammirare dall'alto i panorami, ma è come se contemplasse dall'alto la vita intera e imparasse a capirla. Apprende a usare la sua intelligenza, a difendere le sue oche, specie Martin, di cui si sente responsabile, a proteggere, con le risorse superiori tipiche dell'essere umano, quella che è divenuta la sua famiglia; impara a conoscere la natura, a difenderla, ad apprezzarla, nella persona degli animali che incontra o delle meraviglie che vede. Non è eccessivo definire il Piccolo Nils uno dei più bei romanzi di formazione che siano mai stati scritti. E quando, alla fine, Nils, che ha superato l'esame di vita propostogli dall'incantesimo del coboldo, dimostra di essere diventato buono, di essere maturato, e recupera la sua vita normale, rimane una grande malinconia, in lui e in noi, allo scorgere lo stormo di oche che se ne va, quello stormo con cui lui non può più né parlare, né vivere. E' il suo passaggio alla vita definitiva di adulto, che lascia sempre, in tutti, una profonda nostalgia.


 
                                                            Selma Lagerlof in 1908

The Wonderful adventures of NilsIt is the book that made famous Swedish author Selma Lagerlof outside of Sweden and maybe it's not so odd to think that it helped her to win  the Nobel in 1909: it is a cool and charming children's book, a phantasy book, a Bildungsroman, a history of formation, focused on fourteen years old Nils Holgersson. It 's a colorful history of wonders, yet simple and true, with deeper meanings: no wonder that it is hugely popular in Sweden and that from this book Konrad Lorenz derived his vocation as ethologist (it seems that I share with him the passion for geese and ducks in general ...).


                                             
Nils is a blond boy, handsome but selfish: he is the despair of his parents, mistreats the animals of the farm, in short, he does nothing good. One Sunday in March, he refuses to go to the Church with his parents, and stays at home to laze; then the farm is visited by a kobold, a tiny dwarf that protects the property; discovering him, Nils decides to capture him with a mosquito net. But then the boy is suddenly hit by a huge slap in the face, such as to stun him; and, when he wakes up, he discovers that he has been dwarfed by magic .... Outside in the farmyard, the new dwarf understands the language of animals, but does not listens to very positive messages: in fact, all of the farm animals are angry with him for his wickedness and he risks to suffer from their retaliation. But here, in the spring sky, he glimpses the wedge formed by a flock of geese that migrate to Lapland: the most beautiful goose, Martin, eager to follow them, lifts off and Nils, in a desperate attempt to restrain it, clings to its neck, finding himself, along with Martin,  at the center of a group of aristocratic wild geese. With some difficulty, the two are welcomed in the flock and thus a fascinating journey through Sweden begins: not only what you see during the day, cities, ports and farms, but also during the fairy night, legends, magical creatures and ghosts.

The book preserves an extraordinary charm, so much so that I often reread it: some episodes remain in the heart, like the mythical city of Vineta, which, doomed, because of the pride of its inhabitants, to be flooded by the sea, reappears every hundred years for an hour on the beach; or the Death of little Mats, a poor child, aged nine, a geese guardian and fatherless, whose sister Asa decides to give, with great difficulty, an adult funeral for him, because as an adult he has endured misery and hardship. Sweden has not always been the rich and prosperous nation we know and, in the nineteenth century, there was rampant misery; and often, in spite of its fairytale freshness, the novel shows glimpses of a much harsher reality.



Moreover, the message of the book is far from childish. Nils, welcomed in the flock by old goose Akka of Kebnekkaisen, during this extraordinary journey learns to live and not merely to admire the views from the top, but he watches from above life and starts to understand it. He learns to use his intelligence, to defend her geese, especially Martin, for which he feels responsible, to protect, with the typical human superior resources, what has become his family; he learns about nature, to defend it, to appreciate it, in the animals he meets. It is not excessive to define the Little Nils one of the most beautiful Bildungsromane that have ever been written. And when, at last, Nils, who has passed the examination of life offered to him by the spell of the kobold, proves to be good, to be matured, and recovers his normal life, a great melancholy remains in him and in us, seeing the flock of geese that goes away, that flock with which he can neither speak, nor live anymore. And his final move to adult life, leaves, in all, a deep nostalgia.