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domenica 17 marzo 2024

Napoleone secondo Manzoni e Tolstoj (di Matteo Caravita, 4L)

 

Napoleone secondo alcuni grandi scrittori moderni: Manzoni e Tolstoj (di Matteo Caravita, 4L)

Il testo seguente è una sintesi scritta dal mio allievo Matteo Caravita a seguito di un lavoro di gruppo in cui la mia classe 4L doveva analizzare alcuni testi letterari in rapporto a temi come la figura dell'eroe. Il gruppo di Matteo si occupava proprio di questo soggetto e lui ha analizzato come il personaggio "eroico" di Napoleone, tanto osannato (ed anche vituperato) durante l'Ottocento, sia stato delineato da due scrittori tra i più grandi del secolo: Alessandro Manzoni, nella sua ode 5 maggio, e Lev Tolstoj nel romanzo Guerra e pace, di cui abbiamo letto vari brani in contemporanea alla visione dello sceneggiato italiano del 2006. Personaggio controverso, ancor oggi oggetto di dispute (si pensi solo al film appena uscito ed opera di Ridley Scott), Napoleone ha suscitato opinioni e sentimenti contrastanti, dividendo in morte come in vita. Le riflessioni di Matteo erano così centrate che si è meritato la pubblicazione sul mio blog. Buona lettura. 


Analizzando l'immagine che Manzoni offre di Napoleone e il ritratto negativo che Tolstoj ne dipinge, ho rilevato che entrambi hanno punti di vista validi seppur opposti su Napoleone, punti di vista che riflettono le loro prospettive culturali, storiche e personali. 

Manzoni compone il 5 maggio, ode dedicata a Napoleone, che l'autore apprezzava fin da giovane. La visione di Manzoni potrebbe avere subito il fascino di Napoleone per diverse ragioni. Napoleone innanzitutto ha avuto un impatto significativo sulla storia europea e mondiale e anche su quella militare e politica del suo tempo; per queste ragioni Manzoni lo vede come un personaggio eccezionale e degno di studio. Inoltre, il suo carattere carismatico e le sue abilità di leader hanno influenzato profondamente il corso degli eventi. Manzoni potrebbe aver quindi trovato affascinanti alcuni aspetti di Napoleone come figura storica e protagonista di questi eventi a tal punto da iniziare addirittura a vederlo come esempio e guida. 


La forte fede in Dio di Manzoni gli permette di trasformare la morte di Napoleone in una morte cristiana. Infine, Napoleone Bonaparte, secondo Manzoni, è l'archetipo cioè l'esempio dell'eroe romantico: l'uomo che, per quanto imbevuto di cultura illuminista è partecipe dei valori della Rivoluzione francese, ma può aprirsi anche a quelli della fede cristiana. 

Tolstoj, al contrario, offre un quadro negativo di Napoleone; le ragioni per cui l'autore offre un ritratto negativo di Napoleone all'interno di Guerra e pace potrebbero essere varie e complesse, ma vi sono alcuni particolari fattori che possono essere considerati: 

•la morale, alla quale Tolstoj teneva molto; 

•l’analisi critica del potere, da parte dell’autore russo;

•il punto di vista storico e personale di Tolstoj, che dipingeva Napoleone come un invasore senza scrupoli ed un tiranno assoluto. 


Studiando questi due scrittori, sono riuscito però a trovare un punto in comune tra queste due visioni completamente opposte, cioè Tolstoj critica Napoleone come condottiero all'interno della sua opera, mentre Manzoni lo idolatra per le sue gesta; il punto di incontro sta nel finale del 5 maggio, dove vediamo che Manzoni fa morire Napoleone di una morte cristiana e quindi intende far capire che la vera grandezza dell'uomo non sta nelle grandi conquiste o nei beni terreni, ma nell'umiltà e nella comprensione del proprio posto nell'universo; esattamente i valori che mancano a Napoleone all'interno di Guerra e pace e per cui viene criticato tanto da Tolstoj.  


Qualche breve aggiunta. Nel corso della storia, a partire dall'antichità greca, la letteratura europea ha favoleggiato sulla figura dell'eroe, che la mitologia ellenica presentava come figlio di un dio e di una donna mortale. L'immaginario eroico è stato poi arricchito dalla tragedia attica, che sussiste solo grazie all'eroe al suo centro, anche se la sua figura viene progressivamente messa in crisi da Sofocle ed Euripide; ma è con Alessandro Magno, re macedone e comandante invitto durante le sue favolose conquiste in Oriente, che la statura eroica del grande condottiero trova la propria consacrazione, divenendo così anche un punto di riferimento politico per la costruzione dell'immagine dei futuri imperatori romani. Difatti, Alessandro Magno coniuga in sé l'eroismo delle sue imprese, l'eccezionalità delle proprie conquiste e la divinizzazione, tipica degli antichi regni orientali: un esempio poi recuperato e rielaborato dai grandi generali e imperatori romani. 


Nel mondo europeo cristianizzato, la figura eroica - a parte la nascita del tutto peculiare dell'immagine del santo - diventa oggetto di una certa diffidenza, perché si avverte il pericolo che essa degradi verso l'orgoglio; e difatti è eroica la statura dei personaggi di tragedie classiche francesi come quelle di Corneille, ispirate ai valori sia antichi, che nobiliari e che dell'aristocrazia esaltano l'alterigia. Anche nel mondo moderno la tragedia non può vivere senza figure eroiche, ma Manzoni mantiene un rapporto ambivalente con esse: le sue tragedie, come l'Adelchi, in sostanza, le svuotano (come dico spesso ai miei studenti, Manzoni è riuscito nell'improba fatica di ammazzare la tragedia, proponendo degli eroi sconfitti o passivi), eppure egli continua a percepirne il fascino. Napoleone, salito dalla mediocrità della nobiltà di provincia al rango di grande generale prima, poi di capo di Stato e infine di imperatore - un imperatore che aveva conquistato mezza Europa - è stata forse l'ultima grande figura eroica della nostra letteratura europea.   


Difatti, l'eroismo suscita oggigiorno (purtroppo, verrebbe da dire) una certa diffidenza, anche perché l'esperienza storica ne ha presentato le contraddizioni e debolezze. Napoleone, con le sue eccezionali imprese, ha dato involontariamente occasione a una letteratura ottocentesca vastissima, ora di elogio - si pensi, oltre a Manzoni, all'ode Lui di Victor Hugo - ora di esecrazione, come mostrano molti romantici tedeschi che lo paragonano a una specie di orco. Manzoni e Tolstoj hanno risolto alla loro maniera la contraddizione tra grandezza ed esiti ferali della sua azione: Manzoni lo ha fatto inchinare alla croce (al disonor del Golgota, come afferma lui, riscattandolo), mentre Tolstoj ha spinto il suo bisturi fino in fondo in un'analisi spietata del grande uomo, che è anche un tiranno capriccioso e un ego smisurato, considerato dai Russi nientemeno che l'anticristo. Eppure....Manzoni ci ha azzeccato. Se Tolstoj, nel suo spassionato, implacabile realismo, aveva ragione da vendere, Manzoni ha indovinato, perché Napoleone, in punto di morte, si è davvero riavvicinato alla fede. In conclusione, l'eroe vero deve avere grandi ideali ed essere integro. 

Molto interessante la meditazione presentata dal card. Giacomo Biffi in occasione del bicentenario della morte di Napoleone, il 5 maggio 2021: 

Napoleone Bonaparte e la fede. Vinto anche da Dio, https://www.avvenire.it/agora/pagine/napoleone-vinto-anche-da-dio


lunedì 14 giugno 2021

"La primavera hitleriana", di Eugenio Montale


La primavera hitleriana di Eugenio Montale

La Primavera hitleriana di Eugenio Montale è una lirica decisamente difficile, appartenente alla raccolta più ardua del poeta, La bufera e altro (1956): si tratta dell'opera in cui lo stile di Montale raggiunge il vertice della concentrazione e dell'ermetismo, addensando una serie di metafore e analogie di non sempre facile comprensione. Il titolo fa riferimento alla visita di Hitler a Firenze del maggio 1938, occasione che si rivelò in seguito esiziale per l'Italia, dato che spianò la strada all'alleanza militare e politica tra fascismo e Terzo Reich; come osservavano giustamente i miei studenti che hanno presentato in classe la lirica dopo averci svolto una ricerca sopra (Simone, Matteo e Leonardo), il titolo può essere inteso anche come un ossimoro, perché il nazismo è sicuramente agli antipodi di una realtà attraente e dolce come la primavera (in particolare, quella primavera, nella splendida Firenze dai ricordi rinascimentali). Il testo è suddiviso in lasse di versi liberi e fu concluso nel 1946, quando ormai era chiaro quanto letale fosse stato l'invasamento per il nazionalsocialismo. 


Folta la nuvola bianca delle falene impazzite
turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette,
stende a terra una coltre su cui scricchia
come su zucchero il piede; l'estate imminente sprigiona
ora il gelo notturno che capiva
nelle cave segrete della stagione morta,
negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai. 


La prima lassa esordisce con un'anastrofe che ricorda certi incipit leopardiani (Folta la nuvola bianca, come Dolce e chiara è la notte e senza vento): i primi versi presentano i lungarni, con la loro popolazione di falene bianche, riunite in una nuvola (metafora) intorno ai lampioni delle "spallette"; le farfalline muoiono a ripetizione, tanto da costituire una sorta di tappeto sul terreno, che scricchiola come lo zucchero (similitudine). Qualcuno ha individuato in queste "falene" i volantini di carta che imperversavano durante la visita del Fuehrer; in ogni caso, le "falene impazzite" che muoiono perché si bruciano al contatto con i lampioni da cui sono inesorabilmente attratte, fanno pensare alla folla in delirio per i dittatori e attratta, nella più piena incoscienza e follia, dalla morte che essi portano. Quanto alla similitudine dello zucchero, questo è un elemento amato da Montale: esso ritorna in alcune similitudini anche ne La bufera (brucia ancora/ una grana di zucchero nel guscio/ delle tue palpebre), forse anche perché il suono duro della doppia c rinvia a quelle "rime petrose" dantesche cui il nostro poeta sembra essersi ispirato spesso per sottolineare la durezza di certe situazioni tipiche del Novecento. Del resto, qui lo zucchero assume un valore ambiguo. 


I versi proseguono affermando che l'estate lascia emergere paradossalmente il freddo che era contenuto (capiva ha qui un significato intransitivo) nelle buie cantine dell'inverno: il gelo non mi sembra casuale e mi fa pensare a quello che domina Cocito, al fondo dell'Inferno dantesco. In sostanza, questa estate, profanata dalla visita del Fuehrer, lascia emergere quanto di peggio era finora nascosto nel segreto delle coscienze umane: le cave segrete della stagione morta fa rabbrividire, perché evoca tutto un mondo oscuro, buio e contrassegnato dal gelo di morte, celato nelle anime delle persone in tempi "normali", ma pronto a esplodere all'occasione. Quel gelo, stranamente e contraddittoriamente, abitava anche negli orti (cioè nei giardini) che da Maiano scavalcano a questi renai:  i giardini di Maiano (amena località presso Fiesole, quindi uno dei punti più paradisiaci della collina fiorentina) potrebbero evocare i paesaggi più dolci della città, qualcosa di molto lontano da quel gelo: e invece, inequivocabilmente, anch'essi se ne fanno ricetto, essi che scavalcano a questi renai, cioè raggiungono la sabbia delle rive dell'Arno. Si noti l'uso intransitivo del verbo scavalcare, secondo modalità che forzano il lessico proprie della poesia espressionista (per esempio, di Clemente Rebora). Quindi, neanche l'armonia paradisiaca del vertice della cultura di Firenze basta più davanti alla catastrofe umana incombente: e non è possibile non percepire una nota amara nei renai, la sabbia accumulata presso il fiume. Ricordiamo che i fiumi e l'acqua in Montale di solito non manifestano un significato positivo: l'Arno è lo stesso che anni dopo avrebbe sommerso i ricordi di Montale e di sua moglie nella splendida L'alluvione ha sommerso il pack dei mobili di Satura (Xenia 2,14). 


Da poco sul  corso è passato a volo un messo infernale
tra un alalà di scherani, un golfo mistico acceso
e pavesato di croci a uncino l'ha preso e inghiottito,
si sono chiuse le vetrine, povere
e inoffensive benché armate anch'esse
di cannoni e giocattoli di guerra, 
ha sprangato il beccaio che infiorava
di bacche il muso dei capretti uccisi,
la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue
s'è tramutata in un sozzo trescone d'ali schiantate,
di larve sulle golene, e l'acqua seguita a rodere
le sponde e più nessuno è incolpevole.  


Nella seconda lassa viene evocata più direttamente la visita di Hitler: è descritto come un messo infernale appena passato sulla via principale e i versi si attardano a descrivere efficacemente l'atmosfera esaltata di queste messe in scena, con l'auto del dittatore che sfreccia tra gli scherani, cioè, con  un'efficace metafora, tra i sicari, i nazisti e fascisti al suo soldo; essi innalzano le loro ovazioni (i famosi alalà di memoria fascista) e formano, con la loro folla, una sorta di golfo mistico acceso, cioè l'immagine del dittatore viene risucchiata in un mare di bandiere con la svastica e di folla presa da una sorta di delirio mistico (si noti la forte analogia del golfo o anche l'ipallage di mistico, aggettivo che non si riferisce tanto al golfo, quanto al delirio e all'invasamento di queste folle, già pronte a uccidere per il dittatore). 


E' un giorno di festa, quindi i negozi sono chiusi e così anche le vetrine; con un ossimoro, Montale osserva che esse sono povere / e inoffensive benché armate anch'esse: nella quotidianità dei negozi più banali (la macelleria, la giocattoleria) compaiono già i sintomi di una violenza montante, perché i giocattoli esposti sono spesso armi in piccolo; oppure, ancora più tremenda è l'immagine della macelleria (significativamente definita con il termine beccaio decisamente più dispregiativo) che espone i capretti decorati con bacche di ginepro. Forse è un'analogia un po' lontana, però mi viene in mente quella norma ebraica secondo cui non è lecito bollire agnelli e capretti nel latte, perché non è giusto bollire un piccolo nel latte della madre; questa norma che denota una squisita sensibilità può far comprendere, all'opposto, quanto sia feroce l'immagine di miti capretti uccisi ed esposti senza alcuna remora. 


Poi alcuni versi terrificanti: la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue...Quello che fa rabbrividire è quell'ancora. Il fortissimo ossimoro miti carnefici fa  pensare che la massa di gente semplice e per lo più ignara non si è ancora macchiata le mani di sangue, ma è ben pronta (per ignoranza, per ferocia, per dabbenaggine, per meccanismo del capro espiatorio ecc.) a farlo. Già sagra possiede un significato negativo qui, che declassa la festa in un'atmosfera di crassa trivialità; poi essa diventa con un'altra metafora un sozzo trescone, cioè un'immonda tregenda, crudele e volgare. Ritorna l'immagine iniziale delle falene che si schiantano al suolo, ora rappresentate dalla metonimia delle ali spezzate o dalle larve che vegetano nei pressi della riva del fiume. E poi:
...e l'acqua seguita a rodere
le sponde e più nessuno è incolpevole.
L'acqua in Montale è di solito negativa: per esempio in Mediterraneo, il poemetto suddiviso in 9 parti degli Ossi di seppia, il mare rappresenta la violenza della vita. Se qui il fiume corrode le rive, ciò non dice niente di buono. L'acqua continua la sua opera distruttiva: e più nessuno è incolpevole (terribile litote, non a caso formulazione del tutto negativa), perché ormai tutti sono coinvolti in quell'atmosfera da tregenda evocata sopra e scatenata dall'arrivo del messo infernale; tutti partecipano, tutti festeggiano, tutti paiono del tutto dimentichi e ciechi a fronte dell'orrore che si avvicina. Non siamo lontani dalla denuncia allibita di Hannah Arendt contro la "banalità del male", all'epoca del processo Eichmann. Del resto, tutte le epoche (anche la nostra, come dimostra la mancanza di logica e razionalità esplosa negli ultimi tempi) sono pronte per questi assurdi autodafé. 


Tutto per nulla, dunque? - e le candele
romane, a San Giovanni, che sbiancavano lente
l'orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii
forti come un battesimo nella lugubre attesa
dell'orda (ma una gemma rigò l'aria stillando
sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi
gli angeli di Tobia, i sette, la semina
dell'avvenire) e gli eliotropi nati
dalle tue mani - tutto arso e succhiato
da un polline che stride come il fuoco
e ha punte di sinibbio..

All'esordio della nuova lassa, il  poeta si pone allora una domanda angosciata: tutto per nulla? Cioè, tutto ciò che di bello e valido lui ha vissuto, non conta niente davanti a questi orrori? A questo punto, Montale rievoca una sera ben diversa che lui aveva passato con Clizia, la sua donna - angelo: ricorda i fuochi d'artificio (le candele romane) della festa del patrono fiorentino, S.Giovanni Battista (24 giugno), una data molto amata a Firenze; quei fuochi sbiancavano... /l'orizzonte (anche qui il verbo viene impiegato con una forzatura, applicato a oggetti e non a visi e, per di più, con un senso transitivo che di solito non ha). Montale ricorda anche i pegni, sicuramente d'amore, i lunghi addii, tutto l'immaginario amoroso che lui ha sicuramente vissuto nella breve estate del 1933 in cui incontrò la donna ispiratrice di Clizia, la famosa Irma Brandeis. Con lei visse una storia d'amore molto intensa e, purtroppo, breve. I lunghi addii, paradossalmente, esprimevano tanto amore da apparire (metafora o analogia molto azzardata) quasi un battesimo, un inizio, una consacrazione (mentre la catastrofe e l'orda, cioè i malvagi, incombevano). 


Nella parentesi il poeta inserisce l'immagine, molto bella, di una stella cadente - una gemma rigò l'aria, si noti la preziosa metafora - , che stilla (altro verbo usato in modo un po' atipico), cioè porta sui lidi, sulle sponde dove si trova Clizia, una serie di segni positivi: Montale fa riferimento ai sette angeli di Tobia, quando in realtà Tobia, nell'omonimo libro della Bibbia, era stato accompagnato dall'arcangelo Raffaele, uno però dei sette arcangeli che stanno sempre di fronte al trono dell'Altissimo. Con un'altra metafora tutto ciò è definito semina dell'avvenire: poi il poeta menziona i girasoli, che rinviano al senhal, il nome rivelatore di Clizia, e al mito omonimo. Clizia, che amava il Sole e che poi ne fu abbandonata...Clizia che, secondo quanto racconta Ovidio, si ammalò d'amore perché il Sole la ignorava e digiuna si nutriva solo di rugiada e di lacrime, vivendo solo in attesa del passaggio del dio....Clizia che infine si trasformò in girasole, per poter contemplare sempre il volto dell'amato... (cfr. Metamorfosi 6,256-70). 


Forse vale la pena segnalare che questi versi sottintendono la forza salvifica dell'amore: il riferimento a Tobia tradisce il ricordo della storia del protagonista di questo libretto biblico, che partì per la Media e, accompagnato dall'arcangelo Raffaele, fu aiutato in molte maniere e consigliato di sposare Sara; quest'ultima, lontana appartenente alla sua stessa schiatta, non riusciva mai a sposarsi, perché il diavolo ammazzava tutti i suoi promessi (evidentemente, ben poco meritevoli). Solo l'amore puro di Tobia la salvò dalla vergogna e dalla solitudine. Di converso, Clizia è l'immagine dell'amata che si strugge e immola per amore: ma la sua storia immette quasi una sfumatura triste nel motivo dell'amore salvifico, perché lei si consuma senza che il Sole veramente la ricambi. Forse la Clizia montaliana è anche immagine del fallimento dell'amore, dell'amore incompreso: è noto che Montale non le rivelò dapprima di avere già intessuto una relazione con Mosca, Drusilla Tanzi, per poi barcamenarsi in modo deludente tra le due, finché Irma Brandeis non poté più visitare l'Italia a causa delle leggi razziali del 1938 e lo lasciò. Montale lo sapeva bene, Clizia era immagine anche dell'amore che non era stato accolto, né compreso come si meritava: nel senso, ami così tanto, dai tutta te stessa, e poi tutto questo non conta niente...


                    Oh la piagata 
primavera è pur festa se raggela
in morte questa morte! Guarda ancora
in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
che il non mutato amor mutata serbi,
fino a che il cieco sole che in te porti
si abbacini nell'Altro e si distrugga
in Lui, per tutti. Forse le sirene, i rintocchi
che salutano i mostri nella sera
della loro tregenda, si confondono già
col suono che slegato dal cielo, scende, vince - 
col respiro di un'alba che domani per tutti
si riaffacci, bianca, ma senz'ali
di raccapriccio ai greti arsi del sud...

La primavera è detta piagata (ipallage: le piaghe sono sicuramente quelle degli uomini), ma diventa, metaforicamente, una festa, perché raggela in morte questa morte: abbiamo visto che il gelo è immagine montaliana e dantesca, ma questa volta il gelo, paradossalmente, grazie all'amore di Clizia diventa "morte per la morte" (sarebbe un poliptoto). Clizia, nonostante l'incomprensione, può ancora guardare in alto speranzosamente, perché lei custodisce dentro di sé, nonostante i mutamenti cui la vita l'ha obbligata, il non mutato amor: sono sempre più convinta che la strofa precedente riveli una sfumatura di incomprensione per l'amore di Clizia, ma proprio questa incomprensione fa sì che la fedeltà di lei risalti ulteriormente: l'amore vero non viene mai meno. Anzi: Clizia non è solo girasole, lei porta in sé il Sole (e ricordiamo che nelle Scritture e nella tradizione cristiana, il Sole rappresenta Dio), cioè è "cristofora", portatrice di Cristo. 


Quel sole è, con un ossimoro (l'ennesimo) cieco, nel senso che è abbacinante, oppure che risente della sofferenza e della cecità degli esseri umani intorno a Clizia; ma quel sole è destinato a disciogliersi e fondersi in quello di Dio (la maiuscola è esplicita), in estremo sacrificio per gli altri. Clizia, così, portatrice di Dio e di tutto ciò che di bello esiste, si immola per tutti. E negli ultimi versi, Montale si abbandona alla speranza che le acclamazioni e i suoni di giubilo (sirene, rintocchi) intonati in onore del messo infernale, dei mostri nella sera, si perdano invece tra suoni di tutt'altro genere. A mio avviso, qui Montale fa riferimento al rintocco soave della campana che nel mito antico della danza macabra disperdeva i demoni del sabba ai primi chiarori dell'alba. La sinestesia vede l'alba "respirare": è come se tornasse la vita. Domani quest'alba di speranza tornerà per tutti, ai greti arsi del sud, cioè per le rive che la canicola ha disseccato col suo calore torrido (altra metafora di spietatezza). Senz'ali di raccapriccio, cioè senza resti di crudeltà o efferatezza, arriverà l'aurora: si noti come le ali vengano qui citate ancora e rinviino alle falene vittime dell'atmosfera di esaltazione dittatoriale descritta sopra. Al termine di questa poesia, si affaccia così un'alba nuova di speranza. 

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domenica 16 maggio 2021

"Le acque alte" di Eugenio Montale

 

"Le acque alte" di Eugenio Montale

Mi sono inginocchiato con delirante amore
Sulla fonte Castalia
Ma non un filo d’acqua rifletteva
La mia immagine.
 
Non ho veduto mai
Le acque dei piranha. Chi vi s’immerge
Torna alla riva scheletro scarnificato.
 
Eppure
Altre acque lavorano con noi,
per noi, su noi con un’indifferente
e mostruosa opera di recupero.
Le acque si riprendono
Ciò che hanno dato: le asseconda il loro
Invisibile doppio, il tempo; e un flaccido,
gonfio risciacquamento ci deruba
da quando lasciammo le pinne per mettere fuori gli arti,
una malformazione, una beffa che ci ha lasciato gravidi
di cattiva coscienza e responsabilità.

                                                       Le Cinque Terre, patria di E.Montale

Parve che la ribollente zavorra su cui mi affaccio,
rottami, casse, macchine ammassate
giù nel cortile,
la fumosa colata che se ne va
per conto suo e ignora la nostra esistenza,
parve che tutto questo fosse la prova del nove
che siamo qui per qualcosa un trabocchetto o uno scopo.
 
Parve, non pare…In altri tempi scoppiavano
Castagne sulla brace, brillava qualche lucignolo
Sui doni natalizi. Ora non piace più
Al demone delle acque darci atto che noi
Suoi spettatori e correi siamo pur sempre noi.
                                    (da Diario del ’72)

                                                         Tempesta di notte, Aivasovksij

Questa poesia di Eugenio Montale appartiene all’ultimo periodo del poeta, quello che inizia con la raccolta Satura (1971), un mélange di argomenti e stili vari, come allude il titolo; Satura, infatti, era il nome del genere letterario latino per eccellenza, la satira, caratterizzata fin dall’età arcaica dall’estrema varietà (non a caso, il termine deriva da satura lanx, il “piatto pieno” offerto nelle cerimonie agli dei). Varietà tematica, varietà stilistica, ma, soprattutto, un tono basso, dimesso, prosastico, in linea con la satira antica, sembra contrassegnare questo nuovo periodo montaliano, da quando il poeta appare sempre più disilluso di fronte alla marea di volgarità che incombe sulla cultura europea a causa del consumismo. Questo stile, sostanzialmente, non cambia nelle raccolte successive, fra cui, appunto, Diario del ’72.

Nel dattiloscritto originale del 1°/1/1972, questa poesia aveva ricevuto come titolo primitivo (e molto espressivo) Diluviale, allusione a una catastrofe incombente e all'antico diluvio. Difatti, essa insiste per tutta la sua lunghezza, che consta di versi liberi molto irregolari (un caso?), sull’immagine dell’acqua. Spesso lo dimentichiamo, ma  l’acqua è un elemento non solo salutare, legato alla freschezza, in grado di dissetare e purificare, ma anche minaccioso: già negli Ossi di seppia, Montale aveva dedicato un intero poemetto, suddiviso in 9 parti, a Mediterraneo, allegoria della durezza dell’esistenza. Qui il poeta gioca sul motivo dell’acqua per presentare delle immagini affini a quelle più terribili dell’elemento acquatico: l’acqua come diluvio, come massa inarrestabile e vorticosa, l’acqua metafora di una difficile condizione dell’esistenza, sempre più difficile dacché gli esseri umani si lasciano irretire dal miraggio dell’accumulo, del materialismo e del consumismo. Così non stupisce che, verso la fine, l’acqua diventi tristemente anche l'onda inquinata che si trascina dietro cumuli di spazzatura, come avviene del resto di vedere sempre più spesso. Ma andiamo per ordine.


Caos. Genesi di I.Aivasovskij
Nei primi 4 versi il poeta afferma di avere provato a rispecchiarsi, novello Narciso, nella fonte Castalia: preso da un delirante amore, probabilmente per la poesia, egli ha cercato così la propria immagine in quella che gli antichi consideravano la fonte di Apollo, datrice del dono della poesia, la sorgente che scaturiva tra le rocce Fedriadi nei pressi del tempio di Delfi e che, pare, era stata in origine una fanciulla amata dal dio. Eppure, in quell’acqua l’io lirico non si ritrova: il parallelo con Narciso lascia intendere che la sua pretesa era eccessiva, forse inutilmente vanitosa; il poeta, che ama di solito ironizzare sulle proprie velleità poetiche, si ritrova così, come al solito, alla casella d’inizio, privo di un’identità (quell’identità che non ha mai trovato e che lui ricavava, come afferma spesso negli Xenia, i componimenti dedicati alla moglie Drusilla, da un dono di lei). Tutto sommato, però, non gli è andata così male: lui non è stato neanche vittima dell’estremo opposto descritto nella seconda strofa, le acque dove i temibili piranha scarnificano ogni preda che incrociano. Modestamente, l’io lirico si ferma in mezzo, in una condizione forse di mediocrità.

Al centro della poesia, però, egli evoca altre acque che lavorano con noi, / per noi, su noi: sembrano le acque dell’Oceano, quello che, nell’antica mitologia greca circondava la terra e che altro non era se non l’estremo margine dell’abisso e del caos primordiale; sono le acque che evocano l’opera inesorabile della natura e del tempo, indifferenti agli esseri umani (qui si avverte forse un alito di Leopardi), quelle che si riprendono / ciò che hanno dato, cioè le onde che trasformano instancabilmente l’ambiente e gli esseri, erodendo, lisciando, ingoiando, assorbendo e riassorbendo, espressione dell’opera indifferente e mostruosa dell’universo. Questo lento, ma inesorabile flusso e riflusso, che tutto divora, è sia con noi, cioè ci accompagna nella vita, sia per noi, dato che, a volte, ce ne possiamo persino avvantaggiare, ma anche su noi: cioè ci sommerge. E sempre siamo in procinto di essere risucchiati anche noi, fin da quando abbiamo assunto la  condizione umana e ci siamo ritrovati corredati di arti invece che di pinne, lasciando la situazione animale e, soprattutto, acquatica. Forse, pare dire Montale nel suo cupo scetticismo, sarebbe stato meglio se fossimo rimasti con le pinne: la condizione umana gli appare una malformazione, una beffa, per cui siamo gravidi di responsabilità, perché siamo esseri dotati di consapevolezza, ma, purtroppo, anche di cattiva coscienza. Tanto ci pare promesso, tanto poco, anche per colpa nostra, riusciamo a raggiungere. 

                                                                    L'onda di I.Aivasovkij

La strofa successiva, anch’essa volutamente irregolare, ci presenta invece un flusso continuo di immondizia, che coinvolge il cortile della casa del poeta: è una delle tante immagini della spazzatura  che diventano, nei versi di Montale, simbolo della disfatta esistenziale del II Dopoguerra, quando comincia a prevalere un miope materialismo; un bel parallelo può essere Xenia II,14, L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili, ispirata all’alluvione di Firenze del 1966. Questo flusso che scorre del tutto incurante degli esseri umani (rottami, casse, macchine ammassate) dapprincipio doveva essere un segno positivo: di cosa? La prova del nove / che siamo qui per qualcosa. 

La poesia di Montale cerca sempre o la verità o il senso dell’esistenza: se pensiamo che la sua poetica era basata, negli anni ’30, sul correlativo oggettivo, cioè presentava in poesia oggetti che, alla maniera di T.Eliot, dovevano evocare pensieri ed emozioni, appare particolarmente triste il fatto che la poesia del Montale più tardo si trasformi in una ribollente zavorra di oggetti, un caos dell’assurdo, privo di un qualsiasi senso. E’ il naufragio della vita e della lirica: un poeta recente, Giorgio Linguaglossa, ha persino accusato Montale di avere aperto la via, con il suo stile tardo, aperto alla banalità del quotidiano e scettico, all’attuale crisi della poesia. Gli oggetti erano, una volta, “segno”: ai tempi delle Occasioni (1939), potevano essere la scintilla che porta scritto “più in là”, come sosteneva proprio lui in passato; ma ora tutto appare un possibile trabocchetto. E’ triste che, in fondo al verso, un trabocchetto o uno scopo siano messi sullo stesso piano, come se lo scetticismo, infine, prevalesse.

                                                                  L'onda di I.Aivasovkij

La forte anafora
parve rievoca il verbo che, una volta, nello Stilnovo, aveva il significato di manifestazione pressoché divina: Tanto gentil e tanto onesta pare, diceva Dante di Beatrice; ma Beatrice portava a Dio e Ne rappresentava la grazia. Montale ha amato lo Stilnovo e la promessa insita in esso di un “oltre” più luminoso. Ma ora parve, non pare…Il tempo delle rivelazioni sembra finito. In passato c’era una qualche luce, c’era la possibilità di un dono: il secondo verso di quest’ultima strofa evoca l’atmosfera semplice degl’inverni di campagna, quando si mettevano le castagne ad abbrustolire sulla brace e si accendevano i lumini di Natale (si noti la costruzione a chiasmo, che pone le luci delle braci e del verbo brillare al centro). Ora il demone delle acque, quel che forse Leopardi avrebbe chiamato “Arimane”, cioè l’entità impersonale e indifferente che sembra presiedere all’universo in cui vaghiamo, risucchiati senza una meta, il demone delle acque non ci vuole più riconoscere per quel che siamo. 

L’ultimo verso sigla la difficile ricerca di un’identità sicura, uno dei tormentoni di Montale: e anche se noi siamo spettatori e correi del caos mondano, non possiamo ritrovare un rispecchiamento, né un riconoscimento in quel demone delle acque, così come, all’inizio, l’io lirico non si riconosceva nella sorgente Castalia. L’anello si chiude e l’essere umano si ritrova in un’inesorabile condizione di alterità rispetto al mondo: né le acque della preziosa fonte Castalia, né il flusso caotico che tutto divora possono rispecchiarlo. Nonostante lo scetticismo, nonostante l’agnosticismo che proibisce a Montale di sperare – tanto che diventa, al termine della sua esistenza, sempre più dubbioso e pessimista – egli implicitamente sottolinea questa dignità irriducibile degli esseri umani, che, da quando hanno gli arti e non le pinne, hanno compiuto un salto gigantesco, specie in termini di responsabilità, rispetto al resto del cosmo inconsapevole. Mistero stupendo e tremendo a un tempo. Forse la speranza in Montale si ritrova non tanto nell’esterno dell’essere umano, trascinato dall’inesorabile rapina del tempo e dell’esistenza, quanto nel suo intimo, che pur sempre trascende il flusso caotico che tutto trascina.


lunedì 24 agosto 2020

Capri, la bellezza che sorge dal mare...

Capri, la bellezza che sorge dal mare...

Capri, regina di roccia,
nel tuo vestito
color amaranto e giglio
vissi sviluppando
la felicità e il dolore, la vigna
piena
di splendenti grappoli
che conquistai sulla terra,
il tremulo tesoro
di fragranza e di chioma,
lampada zenitale, rosa allargata,
favo del mio pianeta.


Sbarcai d'inverno. 
Il suo abito di zaffiro
l'isola conservava ai suoi piedi,
e nuda sorgeva nel suo vapore
di cattedrale marina. 
Era di pietra la sua bellezza.
In ogni frammento della sua pelle
rinverdiva
la primavera pura
che nascondeva nelle fenditure
il suo tesoro....


Questi versi sognanti costituiscono l'esordio di una vera e propria ode che Pablo Neruda dedicò all'isola di Capri, Chioma di Capri, durante il suo soggiorno qui, tra il 1952 e il 1953 e poi pubblicata  nella raccolta L'uva e il vento, edita nel 1954. Il poeta, comunista, si era rifugiato in Italia a causa di contrasti col governo cileno e qui aveva scoperto innumerevoli meraviglie, finché non era approdato a Napoli e, infine, a Capri; si innamorò di questa splendida isola e qui ebbe anche la gioia di sapere che la sua amata Matilde era rimasta incinta. 
E' straordinario come quest'isola, che davvero sembra sorgere dalle onde azzurre del Mediterraneo come, nel mito antico, la dea Afrodite, comunichi una profonda, solare voglia di vivere. Credo che pochi luoghi sappiano coniugare in maniera altrettanto magica bellezza naturale, paesaggio e architettura pittoreschi, sole, cielo, mare, arte, cultura e persino il meglio delle vetrine! Approfitto di questa pagina per condividere alcune impressioni dopo la visita di oggi, pagina che costellerò delle mie fotografie. 


Capri è veramente un piccolo mondo a sé. E' un incanto semplice, che nasce dalle sue stradine tortuose, orlate di ville e villette dal candore immacolato, sommerse da un verde lussureggiante, da chiome di buganvillee, glicini, oleandri, villette immancabilmente annunciate da piastrelle colorate che ne indicano il titolo, magari accompagnato da un motto. Qui ne presento due, una più caratteristica, l'altra più "devota" - si ricordi che siamo in terra di marittimi e la devozione è letteralmente l'ultima spiaggia quando il mare fa paura...Ma molti portoncini sono dei piccoli capolavori. Per esempio, osservate quello, rallegrato da meloni gialli e pomodori datterini appesi ad asciugare, ma doverosamente adorno della sua piastrella - non si legge molto bene, ma il motto è Capri, l'isola dei sogni...Ogni scorcio è un piccolo capolavoro. 


Molte di queste ville sono, inoltre, interessanti anche a livello architettonico. I muri di pietra, i graticci di canne che proteggono i terrazzi, le ringhiere in ferro battuto, i colori pastello trasformano ogni angolo in un preannuncio di un piccolo Eden insulare. E, tra uno scorcio e l'altro, si aprono panorami mozzafiato. 
Dopo una lunga, tortuosa salita a piedi attraverso le viuzze che si dipanano come fili di un magico labirinto tra i moli della Marina Grande e la celebre piazzetta, sono finalmente arrivata a quest'ultima. L'atmosfera qui è la consueta, allegra caciara - un po' meno internazionale, forse, dato che, con le restrizioni in corso, ho notato che molti turisti hanno un accento campano e, quindi, si sono orientati verso il "turismo di prossimità". Ma non mancano gli stranieri, specie anglosassoni. Il distanziamento sociale è un pio auspicio, comunque quasi tutti indossano la mascherina (o almeno ci provano, col caldo che fa). 


Io sudavo a più non posso e le varie misurazioni di temperatura sul traghetto e in albergo mi avevano edotto quanto al fatto che la mia temperatura stava precipitando a picco - 35,3, poi addirittura 35 -: inutile dire che mi sentivo piuttosto deboluccia. Ho colto allora l'occasione al volo per "consolarmi" con qualche pasticcino della tradizione partenopea. Nella celebrazione della bellezza locale, i dolci rivestono un ruolo primario e questa foto fa onore a uno dei bar prossimi a piazzetta Umberto I. 


Dopo questa sana pubblicità e dato che, nel frattempo, le mie energie erano risalite, ho deciso di andare a visitare uno dei luoghi più suggestivi, "mitici" di Capri: Villa Lysis, la dimora fatta erigere nel 1905 dal conte Fersen. Prima però faccio una breve digressione, poiché essa si trova poco al di sotto di un'altra villa, forse ancora più celebre e da me visitata anni fa: Villa Iovis, dove, più di 2000 anni fa visse e morì l'imperatore Tiberio (deceduto nel 36 d.C.). Ricordo ancora i giganteschi serbatoi d'acqua in muratura e i resti, davvero ciclopici, di quella che doveva essere una villa imponente, arroccata su di uno sperone roccioso in vista del mare. Dicono che da quelle rupi Tiberio abbia fatto precipitare più di un personaggio scomodo o vittima della sua diffidenza: di certo, come disse qualcuno una volta (non ricordo chi): "Si ritira nelle isole chi ha fatto naufragio sul continente". In effetti, Tiberio aveva un carattere molto difficile e diffidente, non si sentiva mai al sicuro, aveva passato anni nascosto a Rodi, tanto da rischiare di cadere in disgrazia presso il patrigno Augusto, per poi fuggire da Roma quando già era imperatore e ritirarsi a Capri. 


Da qui, nell'ottobre del 31, inviò la fatidica lettera al Senato, con la quale comunicava a distanza al nobile consesso di eliminare il suo prefetto del pretorio, e fino ad allora favorito, Seiano. Immaginatevi l'effetto terrorizzante di un ordine del genere, emanato da un assente che, però, ha nelle sue mani l'esercito, la guardia del pretorio ecc. Nel giro di un giorno (il 18 ottobre) Seiano, che intendeva forse fare le scarpe a Tiberio, fece una pessima fine. Anni fa dedicai uno studio alla personalità di questo imperatore e diagnosticai che tutto induceva a credere fosse affetto da una forma di paranoia (la paranoia di Kretschmer). Presentai lo studio a una conferenza a Vilnius, Lituania, con cui l'università di Friburgo all'epoca collaborava: mi spiace per i miei lettori, ma l'intervento (redatto in francese), fu poi tradotto in lituano, per cui non so quanti lo leggeranno. In ogni caso, ricordo il bel complimento di un archeologo della Sorbona, secondo cui il mio Tiberio "pareva vivo": mi consigliò di redigere una vera e propria biografia. Prima o poi, forse, completerò il lavoro. 


Tiberio ha lasciato dietro di sé un ricordo sinistro, di nefandezze e crudeltà, in parte enfatizzate da biografi come Svetonio, ma, temo, non troppo. Anche il conte Fersen si rifugiò in quel luogo lontano da tutto per sfuggire a una terribile condanna emanata dalla giustizia francese - corruzione di minore - e lasciò intorno alla sua villa un'aura di scandalo con una vita piuttosto dissoluta: basti pensare che la villa possiede anche una "camera dell'oppio", di cui Fersen era assiduo consumatore. Fu proprio l'uso di stupefacenti misti ad alcool che lo portò alla morte, probabilmente voluta, nel 1923. Lo sguardo dei suoi ritratti fotografici rivela la pesantezza interiore del dandy raffinatissimo, ma che non ha mai trovato un senso definitivo alla propria esistenza, la tristezza profonda di chi si trascina dietro qualcosa di irrisolto. Tuttavia, la villa pare scrollarsi di dosso tutto questo. Si tratta di una piccola, elegante costruzione che unisce lo stile neoclassico ai mosaici dorati cari alla Secessione Viennese, le ceramiche a greche alle ringhiere in stile liberty. Un connubio davvero felice. Il Comune di Capri ne è venuto in possesso nel 2015 e, per il momento, ha fatto restaurare la struttura: le sale sono in gran parte vuote o ospitano un mobilio ridotto all'essenziale. 


Chissà dove sono finiti i magnifici pezzi che adornavano la villa all'epoca del suo padrone? Come dicevo alla volontaria che accoglie i turisti, ci vorrebbe un mecenate che li ritrovasse. Dandy e poeta, il conte Fersen discendeva da un ramo della stessa famiglia che aveva dato nel Settecento i natali al famoso amante di Maria Antonietta. La sete di bellezza e di solitudine lo hanno spinto fin qui, gli hanno fatto amare l'arte e la cultura; ma quando si arriva a Villa Lysis (così chiamata dal nome di uno dei personaggi del Simposio di Platone), si arriva in una Capri molto diversa da quella di Piazzetta Umberto I. E' un po' come la meta di un pellegrinaggio. Le stradine che vi conducono sono insolitamente vuote e silenziose, rispetto ad altre  parti dell'isola; la natura è al  massimo del suo splendore, ogni scorcio suggerisce quiete, luce, armonia. Camminare verso Villa Lysis è stata un'esperienza meravigliosa di per sé, grazie a cui mi sono imbevuta della luce del sole, della freschezza dell'ombra dei tanti cespugli fioriti, dell'azzurro del cielo. Infine, quando sono arrivata alla villa vera e propria, circondata dal magnifico giardino della Gloriette (si veda la prima foto), mi si sono aperti dinnanzi paesaggi indimenticabili. 


Qualsiasi sia stato il destino del suo proprietario, nella purezza delle sue linee e nell'incanto della natura che la circonda, pare che questa villa aiuti a riconciliarsi con se stessi. 
Si dice che chi contempla il tramonto del sole nel cielo di Capri dall'alto dello splendido belvedere di Villa Lysis, potrebbe avere la fortuna di scorgere un particolare riflesso verde nei raggi del sole che declina: e questo privilegio confermerebbe al fortunato che potrà cambiare in meglio la sua esistenza. Questa la leggenda: però è straordinario che Capri riesca a inculcare la voglia e la gioia di vivere. Persino i lussuosi negozi di via Roma e via Camarelle, si armonizzano magicamente con l'insieme: laddove le sontuose vetrine di Bulgari, Cavalli e Prada appaiono non di rado un'imposizione nei centri storici di alcune nostre città d'arte (penso ad esempio a Firenze e all'effetto patinato, non genuino, che le conferiscono), a Capri, invece, s'intonano al resto. Forse perché l'isola è divenuta una meta delle élites europee durante la Belle Epoque e lo stile liberty si è sposato felicemente con l'atmosfera solare e mediterranea delle viuzze capresi; però, è anche vero che qui abbondano molti negozi di pregiate produzioni locali, dalle ceramiche adorne dei caratteristici limoni, ai tipici abiti bianchi di pizzo, dai coralli, ai miei profumi preferiti, i Carthusia, la cui tradizione risale all'arte antica dei certosini e al loro giardino dei semplici. Qui tutto è talmente bello...Anche senza acquistare, già ammirare le vetrine è un regalo per l'anima. 


Concludo, citando una poesia che il nipote di Pablo Neruda, Rodolfo Reyes, ha voluto dedicare qualche anno fa (aprile 2017) all'isola amata da suo nonno. Cito soltanto alcuni versi: s'intitola Capri, isola bella. 

La fragranza dei fiori
profuma ogni angolo delle tue stradine,
che sono sospese come rondini rocciose,
e ogni colore, cambia con la pioggia,
permettendo al sole di impreziosire di rubino
le tue acque verde smeraldo, formando
un amalgama di pietre preziose (...)


Oh!...Isola capricciosa dell'Eden, staccata dal Paradiso,
che la Madre Roccia ha consentito di lasciare
Alle cure dei suoi tre faraglioni guerrieri, 
e a cantare dell'incanto delle sue sirene. 

Ti ricorderò per sempre,
in ogni goccia di pioggia,
in ogni profumo di fiori
all'alba della mia primavera,
Capri, isola dell'amore. 


Le poesie di Neruda e di suo nipote Reyes in links locali:

mercoledì 4 dicembre 2019

La monaca di Monza e la sua storia



La monaca di Monza e la sua storia

Non tutti sanno che Manzoni si è sbagliato a collocare la monaca di Monza nel 1628: la vicenda, infatti, narrata da Giuseppe Ripamonti nella sua Storia patria (senza data, per non offendere la famiglia) è anteriore di una ventina d'anni o poco più; e pensare che Manzoni ebbe, prima del 1840, la possibilità di consultare il faldone originale del processo, concessogli dall'allora arcivescovo di Milano Carlo Gaetano Gaysruick. Quegli atti furono poi secretati dalla curia e messi a disposizione degli studiosi, pensate, solo dall'arcivescovo G.B.Montini nel 1957: il futuro papa Paolo VI. Del resto, la splendida ricostruzione della vicenda nei capp.9 e 10 dei Promessi sposi, risente della moda del romanzo "gotico", cioè nero, di fine Settecento: moda che aveva dato la vita, ad es., alla Monaca di Diderot (1780). E pensate che, sull'onda del successo dei Promessi sposi, nel 1829 il toscano Giovanni Rosini pubblicò un suo romanzo, intitolato La monaca di Monza; per scriverlo, chiese ripetutamente consiglio a...Giacomo Leopardi, che all'epoca era in Toscana e che, quindi, se lo ritrovava perennemente tra i piedi. 


Ma chi era veramente la monaca di Monza? 
Virginia de Leyva, al secolo Marianna (1575-1650), proveniva da una famiglia dell'alta nobiltà spagnola; suo padre, don Martino de Leyva, che aveva combattuto a Lepanto, rimasto vedovo dopo la morte per peste della madre di Marianna, Virginia Maria Marino, si risposò in Spagna e, come succede purtroppo non solo nelle fiabe, dimenticò la figlia primogenita, "sbolognata" ad una zia rigida e, pare, bigotta. A differenza di quanto racconta Manzoni, Marianna non fu mandata in convento perché era la minore e perché così si doveva salvaguardare l'eredità del primogenito, al contrario: il  padre destinò l'eredità (anche della madre di Virginia!) ai figli di secondo letto (tre maschi e una femmina) e la ragazza si ritrovò scalzata a un livello di serie B, per cui fu destinata al monastero quando aveva solo 16 anni. Ricordiamo questo dettaglio della giovanissima età in cui entrò in religione. 


Una volta in convento, il monastero delle Umiliate Benedettine di Santa Margherita di Monza, Marianna assunse da religiosa il nome della madre, riflesso di una cocente nostalgia per una grande tenerezza perduta: era infatti rimasta orfana di madre quando aveva solo un anno, nel 1576. La ragazza si ritrovò però a far parte di quella generazione di monache che stavano subendo sulla propria pelle la stretta della clausura dopo il Concilio di Trento. Il Concilio aveva sancito infatti che la clausura dovesse tornare ad essere stretta, a fronte di decenni - se non secoli - in cui era stata applicata in forma molto più blanda, date anche le numerose monacazioni forzate. Quando le monache si ritrovarono chiuse in convento a forza, non mancarono numerosi suicidi. Questo era, del resto, un argomento di diatriba continua tra Venezia e la curia romana: a Venezia c'era una concezione insolitamente larga e accondiscendente della clausura, dato che le figlie di parecchi patrizi veneziani, che non intendevano spendere per dotarle, venivano "schiaffate" in convento, ma ciò presupponeva che venissero trattate in modo più accomodante; Roma, invece, esigeva vocazioni genuine e la clausura stretta. Suor Virginia che - pare - era molto bella, non tardò a innamorarsi del famoso "Egidio", nella realtà, Giampaolo Osio, scapestrato rampollo di una famiglia aristocratica della zona e che abitava accanto al monastero. 


Suor Virginia, che era maestra delle educande, si rese conto che l’Osio ne insidiava qualcuna, reato passibile di una grave punizione; peggio, l'Osio uccise per rappresaglia l'amministratore di cui suor Virginia si serviva per amministrare Monza, G.Molteni. La suora avrebbe allora fatto arrestare l'Osio se non fosse intervenuta - in modo molto discutibile - per conto della famiglia Osio la stessa madre superiora, che le impose di revocare l'ordine per obbedienza: e suor Virginia dovette obbedire. Alla fine suor Virginia accondiscese a incontrare Giampaolo (siamo nel giugno 1598), il quale voleva ringraziarla. Secondo la confessione scritta successiva, la monaca si vide recapitare da quel momento in poi doni e, secondo lei, oggetti che convogliavano un maleficio, con la connivenza di un prete locale, don Paolo Arrigone; così, in settembre lei accondiscese a incontrare l'Osio una notte con la complicità di suor Benedetta Homati e suor Ottavia Ricci. La religiosa riferì in seguito di essere stata violentata, cosa, a mio avviso, del tutto possibile; di sicuro, suor Virginia divenne succube di Giampaolo Osio e nella loro relazione la violenza rivestiva un posto notevole. Come stupirsene se di violenza era stata intessuta tutta la vita familiare della monaca?


Cominciò così una tresca protrattasi per 9 anni, durante i quali o Giampaolo entrava in convento di nascosto travestito da suora (!), oppure suor Virginia si recava nella casa vicina. 
Dalla relazione nacque una bambina, Alma Francesca Margherita, e anche un altro figlio, morto sul nascere; la bambina fu poi allevata dai parenti dell’Osio. Suor Virginia, del resto, era continua vittima dei rimorsi; la religiosità era allora più punitiva di oggi, meno misericordiosa, la predicazione molto incline a insistere sulla morte e i novissimi (cioè le realtà ultime), specie il giudizio e l’inferno; perciò, per una suora come lei non priva di una sua religiosità, la relazione con Osio deve essere stata intessuta di numerosi conflitti interiori e sensi di colpa acutissimi. Prova ne è che la monaca scaraventava regolarmente nel pozzo del monastero il doppio delle chiavi approntate per Giampaolo appositamente da un fabbro compiacente. Le chiavi si accumularono poco per volta in fondo al pozzo – ma la relazione non finiva. La svolta fu, però, come indica del resto il Manzoni, l’omicidio.


Nel 1606, una conversa - cioè una suora che non aveva la preparazione necessaria per essere corista, per cantare l’ufficio in coro, di solito adibita ai servizi nel convento e, in quel caso, al servizio della monaca - una tal Caterina di Meda, durante una lite con suor Virginia minacciò di rivelare tutto al monsignore che sarebbe stato inviato dalla curia in occasione del successivo capitolo delle suore, capitolo in cui si doveva eleggere la superiora e durante il quale la monaca sperava di essere scelta: e l’Osio, evidentemente, la soppresse, alla presenza di altre 5 monache, colpendola con il piede di un arcolaio, quindi ne trasportò il cadavere in casa sua. Qui lo seppellì, salvo la testa che, una volta tagliata, egli gettò in un pozzo. Dettaglio riportato anche da Manzoni: fu aperta una breccia nel muro del convento per far credere che Caterina, poco incline alla vocazione religiosa, fosse scappata. 
Ma questo omicidio cominciò ad attirare un’attenzione negativa sul monastero, tanto che se ne resero “necessari” altri: quello dello sventurato fabbro, Cesare Ferrari, che forgiava continuamente i doppi delle chiavi, nonché quello del farmacista, Rainierio Roncino, che aveva servito alla monaca ripetutamente degl’intrugli abortivi. Lo speziale fu ucciso al secondo tentativo: ma la tresca e le sue nefaste conseguenze erano diventate ormai palesi. Perciò, mentre lo Stato di Milano se ne interessava e arrestava Osio una prima volta, cominciò a indagare anche l'autorità religiosa.


Il 25 novembre 1607 la monaca fu arrestata dal vicario criminale della curia e trasferita a forza nel monastero delle Benedettine di S.Ulderico a Milano: suor Virginia, ormai fuori di sé, accolse il superiore letteralmente a spada sguainata. L’Osio, che era riparato in convento, si diede allora alla fuga con suor Benedetta e suor Ottavia – detto per inciso, non è che lui si fermasse alla monaca di Monza, anzi; coinvolgeva nelle sue tresche anche queste altre suore. Mal gliene incolse, dato che suor Benedetta fu gettata da Osio nel pozzo – il pozzo è l'altro grande protagonista di questa storia -, mentre suor Ottavia, evidentemente in assenza di pozzi, fu percossa col calcio dell'archibugio e gettata nel fiume Lambro. Si salvò però fingendosi morta, e sopravvisse giusto il tempo di rendere testimonianza di quanto successo, morendo il successivo 26 dicembre; suor Benedetta fu ritrovata invece due giorni dopo viva (sempre nel pozzo, che, per inciso, era quello dove era stato gettato anche il capo di Caterina, a Velate). Negli stessi giorni fu infine arrestato il disgustoso don Pietro Arrigone, che aveva approfittato della situazione per condurre una sua tresca personale con un'altra monaca. Le indagini proseguirono a stento: sempre fuori di sé, suor Virginia tentò più volte il suicidio mentre era reclusa, mentre il senato di Milano fece confiscare i beni della famiglia Osio per far uscire Giampaolo dall'ombra: questi, difatti, fu condannato all'impiccagione e alla confisca di tutti i i suoi beni il 25 febbraio 1608. La sua casa venne rasa al suolo e, al suo posto, eretta una "colonna infame" a futura memoria, né più né meno come quella che seguì i processi agli untori e di cui Manzoni ha tracciato la storia nella Storia della colonna infame. Osio, attirato con la promessa dell'asilo in una trappola nella casa di un amico, il conte Lodovico Taverna, fu infine ucciso a bastonate nel 1609 (dopo che aveva confessato i suoi peccati, precauzione notevole).


La sentenza di suor Virginia e delle altre monache avvenne solo dopo quella di Osio, il 17 ottobre 1608; prima furono torturate col sistema dei "sibilli" (schiacciamento delle dita, la tortura riservata alle donne) allo scopo che confermassero la loro confessione; poi tutte condannate alla reclusione perpetua, suor Virginia nel convento delle Convertite di santa Valeria a Milano, un istituto per le prostitute pentite, sito vicino a S.Ambrogio. Fu però graziata 13 anni dopo, nel 1622, 13 anni che aveva passato in una cella di 1,80 x 3 (esattamente come le celle del braccio della morte odierno negli USA): fu graziata perché il cardinale Federico Borromeo si era convinto del suo pentimento. E credo che questo fosse sincero: il cardinale le affidò infatti il compito di assistere per lettera delle consorelle in crisi. 


In effetti, negli anni '60, il professor M.Marchesan, geniale fondatore della psicologia della scrittura - una vera e propria scienza della scrittura, impiegata per formare i super-periti, riconosciuti nei tribunali di mezzo mondo - operò un'analisi approfondita della grafia della "Signora" mediante suoi scritti distribuiti su di un ampio arco di tempo. Dall'analisi emerse che suor Virginia sarebbe stata "una buona madre di famiglia", non certo una suora, e un suo fondamentale equilibrio, vanificato però durante la tresca con l'Osio. Quanto alla sua responsabilità penale, ella si sentiva vittima di una forte ingiustizia, provava una forte attrazione per la vita sessuale ed era molto sensibile all'argomento della sua bellezza sacrificata - si noti la straordinaria coincidenza delle pagine di Manzoni con questi tratti -; in generale, lei avrebbe avuto diritto a varie attenuanti, considerato soprattutto che si trovava in uno stato di coazione continua. Al termine della segregazione ella mostrava segni di agitazione dovuta alla repressione. Soprattutto, Marianna avrebbe avuto bisogno di libertà, per espandersi armoniosamente nell'ambiente a sua disposizione, specie a livello affettivo ed artistico. Compromessa questa libertà, la sua etica andò a rotoli. E qui, vale la pena di ricordare che la monacazione forzata risaliva all'epoca in cui aveva solo 16 anni. Le è stata rovinata la vita. 


Tutto ciò permette di inquadrare meglio la problematica della mancanza di rispetto, il nocciolo della manipolazione relazionale attraverso le cui lenti ho provato più volte, sul blog ed a scuola, a considerare la storia della monaca di Monza. Tutta la sua vita è stata attraversata dalla mancanza di ascolto e rispetto: da quando le davano le bambole vestite da monaca per operarle una sorta di lavaggio del cervello, a tutta la sua educazione, a quando la rinchiusero nel mese di prova in cui avrebbe dovuto gustare il mondo prima di prendere definitivamente il velo, dalle moine con cui la trattarono a quando cedette alla monacazione, fino alla relazione con Osio - Egidio - che non è stata una bella storia d'amore, ma qualcosa di molto simile alle relazioni patologiche di cui sono vittime troppe donne oggi (con tanto di femminicidio finale). Gertrude - suor Virginia non ha mai avuto il diritto di esistere per quel che era, come dimostra l'analisi della sua grafia; non stupisce che sia stato così anche con quello che diceva di amarla, o che lei si sentisse vittima di un maleficio. Persino Manzoni la ritiene parzialmente responsabile, perché, osserva, lei avrebbe potuto essere, se avesse contato sulla fede, una monaca contenta. Ma lei si agitava sotto il giogo, il che peggiorò la sua situazione. Per certi versi è vero: ciò corrisponde al senso di ingiustizia rilevato in lei dal prof.Marchesan; senza contare che il suo amor proprio, sostiene lo scrittore, la induceva a una sorta di complicità sotterranea coi suoi aguzzini, che solleticavano il suo orgoglio, e Marchesan ha rilevato spinte narcisistiche nella sua grafia. Manzoni però, un po' troppo giansenista, dimentica le circostanze attenuanti: l'effetto destabilizzatore della violenza sulla sua psiche e il fatto che lei avesse, al momento di farsi suora, solo 16 anni. Credo che si sia trovata al centro di una spirale e che nessuno, ma proprio nessuno, le abbia teso una mano affettuosa, almeno fino alla grazia del cardinal Borromeo: anche quella giunta dopo una lunga, draconiana, forse eccessiva, punizione. 


Curiosità: esistono delle somiglianze tra la vicenda di suor Virginia de Leyva e quella della quasi coetanea suor Lucrezia Buonvisi, di Lucca, città che Manzoni del resto, così come suo nonno, Cesare Beccaria, conosceva bene. Tra l'altro, questa Lucrezia aveva forti legami con Ferrara: la sua famiglia era addirittura in corrispondenza con Torquato Tasso, che sovveniva! Si noti però che lei si fece suora per sfuggire alla cattura dopo che era stata complice dell'omicidio del marito.
Per la sua storia rinvio al bell'articolo di Elena Pierotti, Lucca e la sua "monaca di Monza": Lucrezia Buonvisi, al link: