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martedì 5 marzo 2024

Napoleon (Ridley Scott, 2023)

Napoleon (R.Scott, 2023)

Ne hanno parlato tutti, ma proprio tutti, per cui io arrivo qui come il fanalino di coda a dare il mio contributo (modesto) e il mio parere su questo film attesissimo, fischiato da tutte le parti, specie (e non solo) dagli storici, ma che comunque rimane l'opera di un gran cineasta: e sì, secondo me avrebbe potuto essere un gran bel film, se solo....

Ma andiamo con ordine. Quasi nessuno accenna mai ai lati positivi del film Napoleon, il kolossal da 2 ore e mezzo dedicato da Ridley Scott alla vita di Napoleone Bonaparte, ma in realtà i lati postivi ci sono e proprio dal punto di vista cinematografico. La parte migliore della pellicola è proprio quella tecnica: fotografia, scenografie, costumi; la ricostruzione dell'ambiente fine Settecento, inizi Ottocento è infatti di pregio e molte scene ricordano quadri. Si può discutere a non finire sugli errori storici della pellicola, ma indubbiamente, la presa di Tolone, l'episodio che consacra Bonaparte generale e lo proietta alla ribalta della vita politica e militare francese, oppure la stessa battaglia di Austerlitz, per quanto ricostruita in maniera errata, o l'imponente incoronazione (che riprende il celebre quadro di David), o anche certe scene di interni, come le feste di Joséphine, sembrano dei quadri coevi (e sicuramente li riprendono). Certo, anche in questo campo non manca qualche errore: per esempio, la casa di Joséphine, visibilmente, non è la celeberrima Malmaison, ma una villa inglese. Tuttavia, Napoleon è innanzitutto un film molto bello da vedere e che immerge in un' ambiance d'epoca riuscita; e questo anche se qua e là compaiono errori vistosi (come il famoso mirino sul fucile). Devo ammettere che, preparata da una marea di recensioni negative non me lo aspettavo e, nonostante tutto, sono uscita dal cinema, almeno su questo, piacevolmente sorpresa. 

Tuttavia, non si possono ignorare gli errori storici macroscopici (anche se mi sembra che su Youtube parecchi si siano improvvisati storici per l'occasione). E' perfettamente vero che abbondano: manca del tutto la campagna d'Italia, che ha consacrato Napoleone; la scena della battaglia delle Piramidi in cui vengono bombardate le piramidi stesse fa ridere i polli; Austerlitz, forse la più grande vittoria dell'imperatore, è completamente sballata, dato che non fu combattuta né in pianura, né sul ghiaccio, bensì Napoleone ebbe l'astuzia di attirare gli Austro-Russi nella nebbia del fondo valle per poi impadronirsi delle alture (da leggere assolutamente al riguardo la prima parte di Guerra e pace di Lev Tolstoj, la cui ricostruzione è accuratissima). Forse proprio perché è inglese, Scott si è difeso meglio nelle scene finali sulla battaglia di Waterloo: e si potrebbe continuare così per un pezzo. Però, a mio avviso, dato che questo è un film e non un documentario, gli errori singoli, circoscritti, ancorché gravi, possono dare meno fastidio di quanto si pensi: tutto sommato, se la parte tecnica e cinematografica, se la ricostruzione d'ambiente è credibile, passino anche certi errori specifici. Posso anche accettare che Napoleone sia presente alla decapitazione di Maria Antonietta - e per di più le hanno lasciato i capelli lunghi - se però questo si amalgama bene con il senso del film; e, in effetti, si potrebbe osservare che magari "idealmente" vi era presente; oppure, la resa artistica della battaglia di Austerlitz (con le trincee! Degne della I Guerra Mondiale), che trasforma in una scena impressionante e catastrofica un singolo episodio, cioè il fatto che alcuni Russi si siano avventurati sul lago ghiacciato formato da una diga, possiede comunque una riuscita indubbia.

Molti recensori si sono focalizzati sugli errori richiamati sopra e, tutto sommato, circoscritti ancorché grossolani. Il peggio però è altrove. Il vero problema di Napoleon consiste nella sua impostazione: per esempio, mi pare molto più grave che manchi del tutto la resa del gruppo di generali, da Murat a Bernadotte, passando per Masséna, Ney, Noailles, Joubert, Labadie (e si potrebbe andare avanti per un pezzo), generali che hanno combattuto con e per Napoleone: perché la vita militare è soprattutto vita di squadra, di corpo e tra questi generali c'era una comunione di intenti e un cameratismo di grande afflato per un film. Ricordo al confronto le scene in cui Christian Clavier, interprete della serie francese Napoléon del 2002, annunciava che la Grande Armata si metteva in marcia: tutt'un altro carisma. Allo stesso modo, mi sembra lamentabile che una sola scena venga dedicata alla popolarità dell'imperatore tra le sue truppe. Napoleone era Napoleone anche e soprattutto perché sapeva guadagnarsi la stima dei suoi soldati: e lo faceva passeggiando tra i bivacchi, all'incerta luce dei fuochi da campo, magari sedendosi accanto ai suoi sottufficiali e ricordando le grandi battaglie del suo passato: Marengo, Friedland, Wagram, Austerlitz, Eylau...Tutto questo manca, il che è dovuto sicuramente a una scelta precisa di Scott e del suo sceneggiatore David Scarpa (a meno che non compaia nella parte tagliata: il regista ha promesso la messa in commercio di una versione con director's cut da 4 ore e sono curiosa di scoprire che cosa ci si trovi di quello di cui lamento io qui la mancanza). 

Jean Tulard, in assoluto il maggiore storico di Napoleone vivente e, tra l'altro, appassionato di cinema, ha indicato poi un altro difetto vistoso della messa in scena: Joaquim Phoenix, l'attore protagonista, non cambia mai nel corso della vicenda ed è sempre lo stesso da Tolone a S.Elena, senza ingrigire o incicciottire nemmeno un po' (alla fine della sua vita, l'imperatore era decisamente meno snello che a Tolone, agli esordi della sua carriera). Potrei portare anche altri esempi, ma quanto ho finora indicato rivela qual è il problema fondamentale del film: l'impostazione di base. Si è detto che il film è concentrato sulla storia d'amore tra Napoleone e Joséphine e in effetti sembra che quello sia il taglio della vicenda, ma la cosa non mi convince; è vero che il protagonista compie delle sciocchezze inenarrabili per tornare da Joséphine (come abbandonare la campagna d'Egitto, un errore gravissimo della sceneggiatura, a mio modesto avviso), ma la storia "d'amore" è spesso descritta in toni a dir poco indecenti, nonostante che manchino delle scene in deshabillé; sembra riprendere un po' di dignità solo verso la fine. Capisco che le lettere della coppia erano spesso torride, però la selezione delle stesse poteva essere operata con intenti diversi: qui sembra che si voglia denigrare il più possibile la loro storia. Tra l'altro, pare che gli attori stessi, trascinati dal modus operandi di Scott, abbiano aggiunto delle scene di loro gusto, come lo schiaffo di Napoleone alla moglie (???). 

E qui arriviamo al punto cruciale della questione: qual è il ritratto che Ridley Scott voleva offrire di Napoleone? Qualcuno ha osservato che non sia affatto vero che Scott, da Inglese, volesse sminuire l'imperatore francese: e allora mi chiedo: ah noo? Perché, onestamente, mi pare che Scott abbia voluto presentare proprio un Napoleone grottesco, per nulla credibile. Certo, Ridley Scott possiede una sensibilità speciale per il grottesco, una delle sue cifre stilistiche. Però, diciamocela tutta: per la maggior parte delle scene del film, ci troviamo davanti un emerito cretino, che non sa neanche come fare la corte a Joséphine, che se ne rimane rigido e impalato come un manico di scopa nella sua uniforme, seduto davanti a lei senza saper che dire (e questo danneggia irrimediabilmente anche la recitazione di Joaquim Phoenix, che poi non assomiglia neanche al personaggio). E poi, quando si inseguono giocando a nascondino sotto il tavolo, oppure si tirano dei pezzi di cibo nel bel mezzo di un pranzo di famiglia...Ma c'è veramente bisogno di ritrarre un personaggio storico così? Dove sono le sue capacità strategiche? E l'ambizione con cui è arrivato dove è arrivato: Tutto ei provò, la gloria, maggior dopo il periglio, la fuga e la vittoria, la reggia e il triste esiglio: due volte nella polvere, due volte sull'altar. Così si esprimeva Manzoni, che, pur non essendo un entusiasta pro-napoleonico, sapeva però riconoscere il fascino esercitato dal personaggio e la sua grandezza: l'Ottocento ha conosciuto una fittissima letteratura pro e contro Napoleone, con i Tedeschi che lo vedevano quale un orco e gli altri che lo osannavano, proprio perché era comunque un personaggio fuori dal comune. A buon diritto, Tulard osservava che se Napoleone ha entusiasmato i contemporanei e i posteri, ciò è avvenuto perché è stato l'eroe per eccellenza, quello che ha realizzato i sogni più impervi, partendo dal basso, dal suo ruolo di piccolo aristocratico di provincia, e conquistando l'Impero, su quasi tutta Europa. Di tutto questo nel film di Scott non c'è neanche l'ombra. Proprio Ridley Scott che sa essere così epico, poi rinuncia del tutto all'epica per scendere nel grottesco: si veda ad esempio il finale con la morte dell'ex-imperatore, un finale che fa cascare le braccia. 

Certo, Napoleone può stare non solo antipatico, ma essere decisamente denigrato da chi appartiene alla parte avversa: fin dalle prime pagine di Guerra e pace Tolstoj (almeno attraverso la bocca dei suoi personaggi) lo qualifica come l'Anticristo e poi, in tutta una serie di scene che abbiamo analizzato con i miei studenti, lo descrive come il tipico tiranno, egocentrico, capriccioso, capace di ascoltare solo se stesso e di rinviare il povero Balasov, il rappresentante diplomatico russo, dopo non avergli lasciato praticamente spiccicare parola. Però, a parte il fatto che Tolstoj è ovviamente di gran lunga al di sopra di Ridley Scott, egli si può permettere questa descrizione negativa per due motivi di base: primo, è fedelissimo ai fatti e li ricostruisce con acribia di erudito, dopo aver condotto prolungate ricerche, quindi il suo Napoleone si vuole profondamente realistico; secondo, lo scrittore russo non sminuisce veramente l'imperatore, anzi, si rende perfettamente conto del pericolo che rappresenta. Intendo dire: non lo sottovaluta. E' un grande, ma un anticristo, un personaggio la cui volontà provoca tragedie e contro cui i Russi combattono letteralmente con le unghie e coi denti per difendere la loro patria fino all'ultimo respiro (vedere le pagine su Borodino al riguardo). Quello di Ridley Scott è invece, ripeto, un emerito cretino: e sono poche le scene in cui si salva (forse una è quella qui sotto, con Wellington, il suo vincitore di Waterloo).

In conclusione: la maggior parte dei recensori si sono concentrati sulle inesattezze, o sui grossolani errori storici; io mi scandalizzo molto di più per il quadro di insieme che è un vero e proprio tradimento della storia. Per questo ritengo che il film di Scott rappresenti un'ennesima forma di vendetta, la più perfida, degl'Inglesi contro l'Imperatore: non lo prende minimamente sul serio, anzi, lo presenta come un imbecille, uno che non è neanche in grado di fare la corte a sua moglie, che la insegue gattonando sotto il tavolo o che aspetta l'iniziativa di maman per avere un'amante e un figlio; per non parlare di quando abbandona le campagne militari per inseguire la fedifraga adultera. Così Napoleone sembra una marionetta e tutti coloro che hanno combattuto per o contro di lui niente di meno. Mi è venuto persino il dubbio che sotto sotto ci sia un po' dello spirito della Brexit (mah). Temo però che invece sotto ci sia lo spirito a dir poco molto disinvolto che negli ultimi decenni si è sviluppato contro la storia. La storia rappresenta il nostro principale termine di confronto per il presente: quando essa viene tradita in modo così clamoroso, la riflessione e l'insegnamento che ne possono emanare vanno del tutto perduti (come Cicerone sosteneva: Historia magistra vitae). E infatti, a parte le belle scene, non mi sembra che da questo film emerga alcun messaggio particolare (a differenza del Gladiatore, che invece possiede un suo significato, nonostante gli errori storici). Forse Scott (provo ad essere magnanima) voleva denigrare a priori la sete di potere e ridurne il suo latore al livello di una marionetta: però, onestamente, non si capisce. E' inutile poi che egli ripeta sprezzantemente ai suoi critici: "Fatevi una vita", quasi che fossero dei frustrati incapaci di comprendere l'arte o il linguaggio cinematografico. Non basta la forma: quando l'arte si svuota di contenuto, cosa rimane per le nostre giovani generazioni?

Per la mia recensione ho consultato le seguenti, che considero le più interessanti: 

Napoléon: l'historien Jean Tulard analyse le film de Ridley Scott, Synopsis.média https://www.youtube.com/watch?v=_WSL9lhVsyA 

Napoleon di Ridley Scott: un film indecente, un documento straordinario, Aldo Giannuli https://www.youtube.com/watch?v=VIA19HkL9nQ 

La recensione di Giannuli è molto valida perché sottolinea la "svalutazione di ogni profondità culturale" tipica del modello hollywodiano (cui in fin dei conti anche Scott aderisce). 

Napoleon di Ridley Scott, il film che aspettavamo o temevamo?, Pillole di storia. La biblioteca di Alessandria, https://www.youtube.com/watch?v=1H6RJznLaRw&t=156s 

Napoleon di Ridley Scott è solo "propaganda femminista" e pro-inglese come dice qualcuno?, La biblioteca di Alessandria https://www.youtube.com/watch?v=8PikcO4dNFU&t=2s 

sabato 5 settembre 2020

Il caso Paradine (The Paradine case, Alfred Hitchcock, 1947)

Il caso Paradine (The Paradine Case)

Ci sono autori che dovrebbero servire in pianta stabile ai corsi prematrimoniali. Uno, sicuramente, è Tolstoj; l'altro, anche se cinematografico, è Alfred Hitchcock. Non conosco approfonditamente la sua biografia, ma sospetto che abbia vissuto un'infanzia particolarmente dura; forse anche questo potrebbe avere sviluppato in lui un'attenzione inusitata ai problemi di coppia e di famiglia, che affronta in modo magistrale. In questo film, ingiustamente post-posto ad altri più noti dello stesso autore, la vita di coppia gioca un ruolo fondamentale: specie quando cominciano i guai. E i guai sono impersonati dalla nostra straordinaria Alida Valli.

Un quartiere elegante del West End di Londra. In una dimora raffinata, un sussiegoso cameriere avvicina la padrona di casa, una splendida Alida Valli (Mrs.Maddalena Anna Paradine), mentre questa sta suonando il piano (è proprio lei che suona: la Valli era di origine aristocratica e aveva ricevuto un'educazione consona; inoltre era poliglotta). L'atmosfera è soffusa e ricercata, dominata da un enorme ritratto del marito defunto della donna, il colonnello Paradine, che lei aveva sposato ormai cieco (i ritratti sono frequenti nei film hitchcockiani e possiedono una notevole pregnanza espressiva). Pochi istanti e il solito cameriere introduce presso la gentildonna un commissario di polizia e il suo aggiunto, che devono trarla in arresto proprio per l'omicidio del colonnello. Allora Maddalena si alza con grazia ad accoglierli, li intrattiene con l'eleganza di una vera signora e, sempre con la suprema compostezza e padronanza di un'autentica nobildonna, fa avvisare la servitù che non tornerà a casa per la cena e indossa la pelliccia per uscire dietro i poliziotti alla volta del carcere e, forse, del patibolo. 

Questo incipit straordinario, che per i fan di Alida Valli è diventato leggendario, apre un film che invece Hitchcock non amò molto e che, eppure, diresse benissimo. Non lo amò perché si ritrovò perennemente il produttore tra i piedi, David Selznick (sì, Selznick, quello di Via col vento; anzi, il Caso Paradine divenne un problema per gli studios perché era constato incredibilmente tanto quanto l'altro kolossal: pensate che venne costruita ex novo una replica del tribunale di Old Bailey di Londra). Selznick si era affezionato molto a questo progetto, anzi, troppo, tanto che la sceneggiatura la finì lui, dopo che ci avevano messo le mani vari altri, tra cui Alma Reville, la moglie di Hitchcock che lavorava regolarmente per lui come sceneggiatrice e non solo. E, finendo il copione, Selznick pensò bene anche a tagliare delle scene senza il consenso di Hitchcock. Ora, se pensiamo che, secondo il grande Alfred il film era già quasi fatto se la sceneggiatura era stata preparata a dovere, credo che il produttore non avesse trovato modo migliore per farsi odiare dal suo regista (che, difatti, lasciò poi la casa di produzione). In effetti, la sceneggiatura è buona, con numerosi colpi di scena e aperta ad approfondimenti psicologici, ma, a mio modesto avviso, non ha lo smalto di altre (ad esempio, Il sospetto oppure La finestra sul cortile, i cui primi minuti sono un capolavoro). Innanzitutto, il caso è fin troppo semplice: se il padrone di casa viene avvelenato e poco prima della sua morte è stato avvicinato solo dalla moglie e dal fidato cameriere, ammetteremo che, a meno di attribuire la colpa alle tappezzerie, non ci siano molte alternative per l'esito dell'indagine. Il finale, così, nonostante i colpi di scena (neanche tanto imprevedibili, però) risulta scontato. Anche sotto altri punti di vista, lo sviluppo della storia appare talora ovvio. Forse per questo, durante le riprese Hitchcock apparve a Gregory Peck, "annoiato" (bored). 

Ciononostante, le performances degli attori sono in gran parte ottime, alcune addirittura eccezionali, il che implica che furono eccellentemente diretti. Il protagonista, Gregory Peck, interpreta l'avvocato londinese Anthony Keane, chiamato a difendere la signora Paradine: Gregory Peck non ha molto dell'Inglese, è vero (sembra uscito dritto dritto da un college per giovani di buona famiglia del Nord Est USA, tutto sport e parrocchia), però trasmette egregiamente il ritratto di un uomo onesto, travolto da un'irrefrenabile attrazione per la sua cliente, attrazione che risulterà  fatale sia per il processo che per la sua lucidità di giudizio. Il cuore del dramma anzi risiede proprio qui: da un lato la faccia onesta e la buona volontà dell'avvocato, che si ostina a vedere quel che pensa lui, e la fresca sensibilità di sua moglie, magnificamente interpretata da Ann Todd; dall'altro, il fascino sofisticato ed enigmatico di Maddalena, algida e altera, elegantissima e regale come solo la Valli sapeva essere, e che, nonostante la purezza di linee del suo viso (cui sono dedicati dei primi piani mozzafiato) trasmette continuamente una sensazione di scarsa trasparenza, come se emanasse un ambiguo incantesimo e attirasse il povero Anthony con sé nelle sabbie mobili. Maddalena ha infatti un passato equivoco. La Valli fu bravissima a recitare, tanto più che arrivò sul set all'ultimo momento, non poté imparare la parte e le battute le venivano suggerite all'ultimo momento. Si noti un dettaglio: le scollature della Valli sono regolarmente asimmetriche: segno di qualcosa "che non quadra". 

Raramente Hitchcock ha saputo rendere sullo schermo una coppia affiatata come quella formata qui da Gregory Peck e Ann Todd: tra loro si sprigiona una chimica riuscitissima. Ma raramente il contrasto tra la loro coppia e il pericolo che viene dall'esterno è stato più azzeccato: solo una Maddalena misteriosa e maliarda poteva irretire un Gregory Peck privo di adeguate difese a fronte di una seduzione così sottile e avvolgente. 

Ma Maddalena non è solo questo. Porta anche il nome della peccatrice per antonomasia, quella che la società non può accettare: non è un caso se si chiama così anche la protagonista del sesto film sui comandamenti (Decalogo 6) di Krzystov Kieslovski (1990). Maddalena è straniera e nel film si percepisce una notevole ventata di xenofobia (a proposito: non mi è mai piaciuto che, per quanto Alida Valli sia la protagonista, nei titoli d'inizio venga ricordata per ultima e semplicemente come "Valli"). Straordinarie sono le scene iniziali in cui, prima di entrare in cella, la donna viene privata di tutti i suoi abiti e beni, manifestazione programmatica della spersonalizzazione cui porta il carcere. Infine, lei è  sola e nessuno la comprende davvero, neanche il suo avvocato, che pure vuole salvarla. Molto bella e sfumata l'interpretazione di Ann Todd, che presa da mille dubbi e paure, cerca di salvare il rapporto col marito, senza però perdere l'umanità verso la rivale. 


Ma ci sono varie altre interpretazioni di spessore nel film. Guardate, per esempio, il teso interrogatorio di André, il giovane cameriere, interpretato magnificamente dal noto attore francese Louis Jourdan: a mio avviso, è il cuore della pellicola. Oppure, Ethel Barrymore guadagnò una candidatura all'Oscar per il miglior ruolo femminile da non protagonista con poche scene, tra cui una magistrale, verso la fine, in cui mostra tutta la sua pietà e misericordia per Maddalena: la vera morale del film. A fronte di lei, il marito, il giudice Horfield che presiede il processo ed è interpretato dal grande Charles Laughton: cinico, godereccio e spregevole, impersona il prototipo del giudice indifferente alle sorti umane che si dipanano in aula davanti ai suoi occhi. Di lì a qualche anno Laughton avrebbe diretto uno dei grandi capolavori degli anni '50, La morte corre sul fiume (1955), che riprende molte atmosfere del cinema tedesco espressionista degli anni precedenti. 


L'interpretazione conferisce quindi profondità psicologica a una pellicola che però ha anche altre frecce al suo arco. Ho notato soprattutto la fotografia. Hitchcock si cimentava spesso in modo sperimentale in riprese originali: ad esempio, quando Keane lascia definitivamente l'aula, quest'ultima viene ripresa dal soffitto a picco; oppure, la camera ruota intorno a Maddalena quando in aula entra André, che passa intorno al suo posto. Ma ci sono varie altre riprese molto interessanti: per esempio, il dialogo di chiarimento tra Anthony e sua moglie Gay viene ripreso davanti al loro letto nuziale; in alcuni dialoghi, l'immagine è tagliata in due metà, con una illuminata e l'altra più in ombra, in corrispondenza significativa coi personaggi; in altre immagini, Gregory Peck, ma anche altri attori, sono inquadrati significativamente dietro delle sbarre o delle grate o addirittura dietro la ringhiera delle scale: segno di qualcosa di strano e indefinibile che rischia di imprigionarli. Perciò, alla fine ci si chiede forzatamente: perché Maddalena è così pericolosa per i protagonisti? Non sarà che attraverso di lei, "la straniera", gli altri esorcizzano limiti propri? Dove sbaglia Anthony Keane? Solo per il fatto di sentirsi attratto dalla sua cliente? Oppure si sente attratto da lei per qualche altro motivo? E che cosa dovrebbe fare dal punto di vista etico? La moglie stessa, Gay, non vuole che lui lasci il caso, perché la  morte di Maddalena, oltre che moralmente inaccettabile, perpetuerebbe in lui un sogno non realizzato. E poi: come si fa a rimanere fedeli davanti a una tentazione del genere? Il film non dà risposte a questi quesiti: però introduce il dubbio che la facciata "liscia" della buona società, che rigetta quel che non si attaglia fino in fondo ad essa, non sia poi tanto "liscia". Anche se Anthony e Gay sono brave persone con normali debolezze umane, sembra dirci Hitchcock, non è che intorno a loro altri, pronti a giudicare, sono però "marci dentro", come si dice di Maddalena?


PS. Se cercate il cameo con Hitchcock, lo trovate, rotondo come al solito, alla stazione che gira con un violoncello. E' uno strumento con cui si mostra anche in altri film. 

mercoledì 2 settembre 2020

La gente mormora (People will talk, Joseph Mankiewicz, 1951)


 La gente mormora (People will talk)

Questa commedia romantica è una piccola perla del cinema anni'50: quel cinema che i miei studenti ignorano del tutto e che, perciò, può essere molto gradevole riesumare. Inoltre, io adoro i film dell'epoca, specie le commedie e ancora di più se il protagonista è Cary Grant.

La gente mormora appartiene al genere della sophisticated comedy, la commedia brillante che, nata negli anni '30, dispone di alcuni ingredienti irrinunciabili: ambiente mondano ed attori eleganti (di solito corrispondenti alle élites del Nordest degli USA, a città come New York, Philadelphia, Boston ecc.), ironia che si volge spesso in vera e propria satira sociale, e, soprattutto, sceneggiature estremamente sofisticate e argute, che sembrano raccogliere il meglio della conversazione inglese ottocentesca e del suo wit. Il genere è proseguito ben oltre gli anni '30 e ha dato nuovi risultati negli anni '50. Il mostro sacro della sophisticated comedy era ovviamente Cary Grant, considerato una delle maggiori stelle del cinema hollywoodiano, ma (non a caso) inglese di nascita. E' straordinario come Cary Grant passi sostanzialmente invariato da un film all'altro (fino agli ultimi di Hitchcock): sempre elegante, misurato, lievemente ironico e ricco di humour. Dato che ci sono, posso consigliare qualche altro titolo che lo vede come protagonista: per Alfred Hitchcock ha interpretato autentici pilastri del cinema come Notorius, Il sospetto, Intrigo internazionale e il celeberrimo Caccia al ladro, con Grace Kelly; al di fuori dei thriller, consiglio caldamente Scandalo a Filadelfia, decisamente una sophisticated comedy, oppure l'impagabile Arsenico e vecchi merletti, o Un amore splendido, qui già recensito, o il divertentissimo Operazione sottoveste, in cui comanda uno sgangherato sottomarino che incrocia nel Pacifico durante la Seconda Guerra Mondiale e che viene dipinto di rosa (!). 

Ma torniamo a La gente mormora. Ambientato in una cittadina universitaria del Nordest, il film si apre con un sinistro figuro, il prof.Edwell (Hume Cronyn), con un muso (è il caso di dirlo) arcigno e ben poco raccomandabile, che intervista una governante zitella e dalla lingua biforcuta, pronta a rivelare nefandezze sul celebre dott.Noah Praetorius (Cary Grant), un clinico di fama di quella stessa università. Edwell accusa Praetorius di avere esercitato il ruolo di guaritore in una cittadina di campagna dello stesso Stato, ma cerca anche altri capi d'accusa, soprattutto in relazione all'assistente di Praetorius, Shunderson (Finley Currie). Praetorius è in realtà un ottimo medico, che riesce a guarire i suoi pazienti mettendoli soprattutto a loro agio a livello emotivo e psicologico e trattandoli con grande cura e dedizione. Durante una lezione una studentessa, Deborah Higgins (Jeanne Crain), sviene e, quando si presenta successivamente allo studio di Praetorius, questi le diagnostica una gravidanza. Disperata, Deborah tenta il suicidio, ma si ferisce solo di striscio: Noah cerca allora di curarla sia fisicamente, che psicologicamente e, quando lei scappa dalla clinica per tornare a casa, lui la segue col suo fido collaboratore Shunderson. Lo scopo del medico è  quello di parlare col padre della ragazza, Arthur (Sidney Blackmer), un buon uomo deluso e schiacciato dai fallimenti di una vita: senonché, ben presto Noah si rende conto che fra lui e Debbie c'è molto di più che il rapporto medico - paziente. Ma mentre la coppia scopre il suo amore, l'inchiesta del prof.Edwell va avanti e rischia di gettare il discredito sull'integerrimo professore...

Il lato migliore di questo film è la sceneggiatura. La gente mormora è un tipico film dal respiro teatrale, che non insiste tanto su scenografie, costumi, fotografia e parti tecniche, quanto su recitazione e sceneggiatura appunto, anche perché nasce da una piéce teatrale tedesca di Curt Goetz. Ma dietro la macchina da presa e la penna del copione, c'è un mostro sacro come Joseph Mankiewicz: per intenderci, il regista del kolossal Cleopatra, ma anche di capolavori come Eva contro Eva e Improvvisamente, l'estate scorsa. Era comunque anche uno dei migliori sceneggiatori di Hollywood: e qui lo dimostra in pieno. La sceneggiatura è un fuoco di fila di sentenze filosofiche ed esistenziali o di battute estremamente argute, raggiungendo il suo vertice in alcuni dialoghi: provo adesso a riprodurre qualche frase notevole. 

- Ha mai notato che il giorno muore in modo simile a molti uomini? Si batte fino all’ultimo attimo di luce prima di arrendersi alle tenebre (il dott.Noah alla sua infermiera, di sera). 


- Hai mai osservato, caro Shunderson, che i teschi ridono sempre? Ora, perché? Perché un uomo dovrà morire e poi ridere per l’eternità? (sempre il dott.Noah, poco prima di una lezione, davanti allo scheletro dell'aula di anatomia). 

- E’ un cane spaventato e infelice – Mali comuni a una gran parte dell’umanità (breve dialogo tra Shunderson, che è  riuscito ad ammansire il tremendo cane degli Higgins, e Noah). 

- Lei è un professore, è difficile far capire a voi la roba che non è sui libri: e il più di quel che succede nel mondo non è sui libri (la governante zitella dell'inizio con il prof.Edwell). 

- Sai qual è il tuo problema, Edwell? Non hai mai avuto un cadavere tutto tuo (il simpaticissimo prof.Lionel Parker, amico di Noah, al pessimo Edwell). 

Come si vede, Mankiewicz, quando scriveva, pensava indubbiamente a Shakespeare: difatti, il film è, in fin dei conti, una riflessione sulla vita, sulla morte e sul ruolo di chi cerca di salvare l'una e sconfiggere l'altra, cioè il medico. Grant è ora arguto, ora ricco di humour, ora malinconico, come si addice alla vicenda. A parte i due protagonisti, Cary Grant e Jeanne Crain (che, curiosamente, ebbe la parte perché la prima scelta, Anne Baxter, aspettava un bambino), ho notato in particolare la recitazione di Walter Slezak, l'amico Lionel Parker, cicciotto e simpaticissimo quando "litiga" con Noah (vedere la scena in cui suona il contrabbasso nell'orchestra dell'Università, infischiandosene bellamente della direzione del suo amico); oppure Finlay Currie, il misterioso Shunderson, sul quale tutti spettegolano, perché non si sa da dove venga, ma che ha la posa immobile e ieratica di un antico sapiente (o di un fantasma?). Non è un caso se l'attore interpretò anche il ruolo di S.Pietro in Quo vadis?  o del re mago Baldassarre in Ben Hur. 


Per comprendere il senso del film, però, bisogna riandare alla situazione degli USA all'epoca. Mankiewicz, con questa trama, intendeva alludere alla famosa "caccia alle streghe" lanciata alla fine degli anni '40 e durante gli anni '50 dal senatore del Wisconsin Joseph McCarthy, ovvero il maccartismo, cioè la caccia ossessiva dei nemici comunisti, temuta quinta colonna entro la compagine statale statunitense. La caccia al comunismo fu condotta con una ristrettezza di vedute e una paranoia tali da sfociare nell'idiozia: e la persecuzione che lancia Edwell contro Noah le assomiglia moltissimo. Ma non bisogna dimenticare che gli USA degli anni '50, per quanto ricchi, vincitori sul piano bellico e al loro massimo sviluppo, erano anche una società profondamente conformista: una società in cui tutto era previsto dalla nascita alla tomba e in cui l'uomo medio si alzava la mattina, andava a lavorare in una grande corporation, cui dedicava tutta la sua esistenza lavorativa e in cui tutti si uniformavano ai modelli proposti, tornava la sera a casa in una villetta identica a quella di decine di vicini e si conformava volonterosamente ai dettami della pubblicità. L'economia era guidata dalle grandi corporations che facevano dell'omogeneizzazione la loro strategia primaria. Dal punto di vista etico, guai a chi sgarrava: tanto che le ragazze che rimanevano incinte fuori dal matrimonio, sulla base di ideologie che in realtà niente a che fare avevano con la religione e che s'imparentavano piuttosto con il darwinismo sociale, erano considerate delle autentiche tarate mentali. Ecco come si spiega la disperazione di Debbie e il collegamento tra la sua situazione e quella di Noah. 


La densità dei dialoghi rinvia dunque a una profonda discussione sulla condizione umana, sulla vita e sulla morte, ma anche proprio sul fatto che "la gente mormora": la massa, che non pensa e si lascia omogeneizzare, è immediatamente pronta a lanciare le sue pietre sui geni che non comprende (Noah), su chi dimostra delle fragilità (Debbie e Shunderson), su chi non ha successo (Arthur). L'omogeneizzazione rende però mediocri e insulsi, meschini. Il cattivo della situazione, Edwell, è infatti un uomo gretto, un po' come il diavolo del Faust di Goethe, incapace di vedere il bene e la grandezza; non è "neanche degno di legare le scarpe al dott.Praetorius" (come dice Shunderson). Una lieve aura soprannaturale pare circondare il medico e il suo assistente, tanto che sembrano venire da un altro mondo; non posso escludere dei richiami evangelici. Il miracolo della vita, però, finisce per prevalere: e come canta il coro dell'università eseguendo Brahms, Gaudeamus igitur, "Allora, siamo felici". 

Lieber Prinz,
heute habe ich mit meinem Architeck ueber das neue Zuhause diskutiert. Ich moechte etwas sehr schoenes und bequemes vorbereiten, obwohl ich auch ersparen will. Und du? Du wirst Fernunterricht sicher halten, waehrend ich schon meinen Zurueckgang zur Schule vorbereite; Ich werde in Schulraum arbeiten und mit allen meinen Studenten. Das wird sicher kompliziert sein. Ich liebe dich. Du bist in meinen Herz, Passerotto...

sabato 29 agosto 2020

Il turista (The tourist; F.Von Donnersmarck, 2010)


Il turista (The tourist)

Questo è divenuto poco per volta, nel corso degli anni, uno dei miei film preferiti e si addice perfettamente all'atmosfera di fine vacanze. A Parigi, Elise Clifton Ward (Angelina Jolie), elegantemente vestita, si reca, col suo passo da modella, a far colazione a un caffè dietro il Louvre, mentre la pedina una squadra di poliziotti francesi. Durante la colazione, un corriere le porta una busta che lei legge e, prontamente, brucia - per la disperazione dei poliziotti e del capo dell'operazione, il detective Acheson di Scotland Yard, collegato da Londra. Quindi lei si alza, depone sul tavolo 20 euro e si allontana su suoi tacchi, riuscendo a seminare tutta la squadra (non è che i poliziotti francesi facciano qui una grande figura...). La sua meta successiva è la mitica Gare de Lyon dove prende...eh sì, non prende un TGV francese, ma un Eurostar italiano! Direzione Venezia. Come ordinatole nella lettera, si siede presso un uomo qualsiasi, un innocuo - e imbranato - turista americano, Frank Tupelo (Johnny Depp). 

Lo scopo della donna è quello di farlo passare per il suo amante ricercato, il fantomatico Alexander Pearce, che resterà una primula rossa per tutto il film e ha derubato un gangster con contatti in Russia, Reginald Shaw, frodando, per di più, il fisco inglese. Ecco perché l'Interpol, Scotland Yard e le polizie di ben 14 paesi cercano Pearce, che ha sedotto la bella Elise ed è scomparso con il malloppo. Così, a Venezia, si intrecciano i fili della caccia all'uomo: da una parte il detective Acheson (Paul Bettany), gli agenti italiani dell'Interpol, la nostra Guardia di Finanza, i Carabinieri, insomma, tutti alla ricerca di Pearce per tramite di Elise; dall'altro Shaw con i suoi gorilla russi, che vuole indietro il maltolto e fargli la pelle; e, in mezzo, il povero Frank, estraneo alla vicenda, che sembra sempre più goffo e imbranato e a cui, per il fatto di essere al posto sbagliato, nel momento sbagliato, ne capitano di tutti i colori...

Il film è un thriller di classe, piuttosto sofisticato, con accenti di commedia, nella linea dei film dedicati alle rocambolesche avventure dei ladri gentiluomini attivi nel jet-set (mi ricorda molto la serie degli Ocean's 11, 12, 13...oppure The Italian Job). Il regista, Florian Von Donnersmarck, è arrivato alla regia di questa pellicola dopo una prima rinuncia e una lunga serie di ordini, contrordini e assegnazioni ad altri: infine il lavoro gli è stato affidato perché era appena assurto a celebrità mondiale grazie al bellissimo Le vite degli altri, Oscar per il miglior film straniero 2007. Di recente ha diretto un altro magnifico film sulla storia tedesca, Opera senza autore, del 2018. Vale la pena soffermarsi un attimo su questo regista, perché in pochi anni è diventato una delle figure più carismatiche della cinematografia, non solo europea: è un gigante di 2,05  metri, discendente di una casata aristocratica tedesca di conti, nipote dell'abate emerito di Heilingekreuz (dove ha scritto la sceneggiatura de Le vite degli altri) e quasi mio perfetto coetaneo, dato che è nato esattamente 2 giorni dopo di me (ovviamente, i rapporti tra me e lui finiscono qui). E' talmente degno di considerazione che l'Università di Leeds gli ha consacrato un convegno nel 2012 e anche se parecchi critici hanno liquidato The Tourist come un film non perfettamente riuscito, in realtà i suoi lavori, compreso questo, appaiono molto ricchi e stratificati su più livelli. Difatti, The Tourist è un divertissement di classe. 

Von Donnersmarck ha rifatto da cima a fondo la sceneggiatura, il che si nota anche perché vi sono inserite numerose frasi nelle lingue che lui conosce: a parte la base in Inglese, ci sono parti in Francese, in Russo e, ovviamente, in Italiano (Von Donnersmarck è anche docente di Russo). A mio avviso, a parte qualche incongruenza minore, la sceneggiatura è ben riuscita, perché progredisce per colpi di scena ben calcolati e appare compatta e ben costruita; le incongruenze minori consistono nel fatto che, lo vedrete, alcuni personaggi che funzionano da deus ex machina tendono a comparire dal nulla (vi chiedete come facciano ad essere lì). Tuttavia, è una buona sceneggiatura, con numerosi tocchi di humour che mi ricordano vagamente certe parti di Hitchcock. Ovviamente, un film del genere non offre molte chances alla recitazione: onestamente, per quanto sappiano fare il loro mestiere, i due protagonisti non mi convincono del tutto. 

Johnny Depp fa a meraviglia il ruolo del goffo Americano perennemente tra i piedi, però non si amalgama veramente alla chimica del resto del film (in effetti, come ha notato qualcuno, non c'è molto affiatamento tra lui e la Jolie). Quanto ad Angelina Jolie, è bellissima, fa piacere vederla, è sempre elegantissima (le sue parures e toilettes sono uno dei valori aggiunti della pellicola), però fa in sostanza la bella statuina dall'inizio alla fine del film e sembra che abbia ingoiato un manico di scopa. Continuo a pensare che i produttori avrebbero dovuto insistere con la prima scelta, Charlize Theron. Se volete vedere un po' di recitazione, dovete osservare i personaggi di contorno: a me non dispiace Bettany, il detective antipatico e che ha fatto della cattura di Pearce la sua ossessione, ma varie figure minori risultano davvero credibili nel loro piccolo, come Bruno Wolkowitch, che interpreta il capitano Courson, a capo della squadra francese, oppure i nostri attori italiani. 

Difatti, per noi Italiani il film è doppiamente godibile e non solo per Venezia e per l'Eurostar: infatti, sullo schermo compare una lunga serie di attori nostrani. Nell'ordine: Alessio Boni, a capo della squadra Interpol italiana, affiancato da Daniele Pecci e Giovanni Guidelli; alla reception del celeberrimo Hotel Danieli, dove scende Elise Ward, troviamo Neri Marcoré - che in una scena gustosa, duetta con Johnny Depp al telefono, senza capire che l'altro ha dei killers in camera; e si noti che, a differenza della versione italiana, nell'originale inglese Johnny Depp tenta un abborracciato spagnolo, come fanno veramente gli Statunitensi in visita da noi. Poi, al mercato della frutta di Venezia, nelle vesti (manco a dirlo) di carabiniere, troviamo Nino Frassica; quindi, come colonnello alla caserma, Christian de Sica; infine, ricordo il sarto di Shaw, il nostro Renato Scarpa (il maggiore Lohengrin dei servizi segreti nel Ladro di merendine, serie di Montalbano). Fra gl'Italiani, non posso dimenticare Bruno Bilotta, a capo della squadra dei tiratori scelti (forse il GIS), Maurizio Casagrande, come cameriere e, ovviamente, Raoul Bova, che compare in un cameo al ballo. Per completare la serie degli attori noti, sul lato inglese compaiono, come chief detective inspector di Scotland Yard nientemeno che Timothy Dalton (che fa una gran bella figura) e, nel ruolo di un altro misterioso turista, Rufus Sewell. Il cattivo, infine, il gangster Reginald Shaw è interpretato da quello che era già il cattivo all'epoca di 007 Operazione piovra, Steven Berkoff. 

A parte Berkoff, avrete notato che nel cast abbondano gli attori belli. In effetti, esorto le fanciulle tra il mio pubblico a fare la prova: non ho mai visto in un film una tale congerie di uomini belli, ma veramente belli (non le facce slavate e passive di certe copertine o gli efebi adolescenziali che vanno tanto di moda oggi, ma proprio uomini, prestanti e di aspetto deciso, virile). Ho citato Alessio Boni, Daniele Pecci, Giovanni Guidelli, Raoul Bova, ma anche Paul Bettany, Timothy Dalton, Rufus Sewell; ma anche i poliziotti francesi, per quanto inefficaci (!), non scherzano. Provate la scena iniziale sull'Eurostar: Elise attraversa i primi vagoni della classe business e incontra una lunga serie di professionisti molto attraenti. Ovviamente, la realtà sugli Eurostar è ben diversa - anche in classe business: qui alcuni anziani che parlano dei loro acciacchi, là una famiglia con dei bambini pestiferi, ancora più in là un gruppo di amiche che spettegola a voce alta, facendosi sentire da tutto il vagone...

La cosa colpisce, comunque, anche perché l'unica donna che compare nel film è la Jolie. Vabbé, fa piacere, così come tutto il lato sontuoso della pellicola: ho citato il Danieli e le mises della protagonista, ma sono molte le scene che colpiscono, come quelle nella suite del Danieli (in realtà, alcune riprese sono state operate a Palazzo Querini Benzon e Palazzo Pisani Moretta), il magnifico ballo (alla Scuola Grande di Santa Maria della Misericordia) o le scene nell'appartamento finale, sull'Isola della Giudecca. Parallelamente, sono numerose le scene divertenti - come l'inseguimento del povero Frank in pigiama sui tetti di Venezia - o ricche di humour. Manca la frenesia adrenalinica di certi film di Hollywood e prevale l'eleganza, l'amore per la bellezza, il divertimento raffinato. Cito infine la bella fotografia, che dà il meglio di sé nelle suggestive riprese di Venezia la notte, o la colonna sonora, con squarci indovinati. Insomma, a mio avviso, The Tourist è un thriller riuscito, molto godibile e di classe, che lascia la voglia di essere rivisto. 

PS. Il paesaggio che si vede dai finestrini dell'Eurostar non è di certo quello che si ammira prima di arrivare a Venezia...


Mein lieber Prinz,
das ist einer meiner beliebten Films. Und das ist auch romantisch...Ich habe ihn noch einmal gesehen, als ich am Mittwoch nach Hause mit dem Zug zurueckgekommen bin: Ich frage mich, ob du ihn gesehen hast. Kennst du das Kino? Was liebst du? 
Hier hast du den link, wenn du es auf English sehen willst:


Ich liebe die Idee, meine beliebten Filme mit dir mitzuteilen...Und keine Sorge, wenn ich schoene Schauspieler bemerke, sie sind nicht mein Typ und der beste und schoenste bist immer du...Ich liebe dich...

martedì 10 marzo 2020

Salvo amato, Livia mia (A.Sironi - L.Zingaretti, 2020)



Salvo amato, Livia mia (A.Sironi - L.Zingaretti, 2020)

Una guardia giurata pedala tranquillamente fino a una villa e, mentre svolge il suo giro di sorveglianza, intravvede una figura furtiva che si defila tra la vegetazione…E’ Pasquale, il figlio di Adelina e vecchia conoscenza di Montalbano. Il cadavere di una ragazza, un’archivista molto competente, viene ritrovato, segnato da innumerevoli colpi di un’arma da punta, nell’archivio di Vigata: è Agata Cosentino, un’amica di Livia. Ma che cosa ci faceva all’archivio, chiuso per ferie e in via di ristrutturazione? Perché intorno al suo corpo mancano tracce di sangue, come se l’assassino avesse ripulito tutto?

Queste sono le prime scene di Salvo amato, Livia mia, la nuova puntata della serie del commissario Montalbano, sopravvissuta (è il caso di dirlo, il che ha risonanze inquietanti, dati i tempi che corrono) al regista Alberto Sironi, allo scenografo Luciano Ricceri (famoso per la scenografia di alcuni film di Ettore Scola o di kolossal come la serie Marco Polo) e, ovviamente, allo stesso autore, Andrea Camilleri, che ci ha lasciato l'anno scorso. Tuttavia, ritroviamo il cast e l’ambientazione cui siamo affezionati da anni in un episodio comunque di buona fattura e in continuità con quelli precedenti firmati da Sironi. Alla regia si è cimentato ora lo stesso protagonista, Luca Zingaretti.


Il primo aspetto che mi ha colpito è il rinvio della trama ad alcune vicende di cronaca italiana. Per chi ha un minimo di conoscenza della storia criminologica del nostro paese, è un’evidenza: il fatto che la vittima venga ritrovata in un luogo di lavoro deserto, chiuso per ferie, crivellata di colpi e senza la benché minima traccia di sangue intorno perché l’assassino ha fatto pulizia, rimanda inevitabilmente al tristemente famoso delitto di Via Poma (Roma, 1990, vittima Simonetta Cesaroni). Ma non sono questi gli unici richiami, a conferma del fatto che Camilleri, come ha spesso affermato, utilizzava veramente quel che leggeva sui giornali per costruire le proprie trame: può venire in mente un altro delitto celebre, quello di Garlasco (2006, vittima Chiara Poggi), anch’esso consumatosi nel silenzio assolato di una mattina estiva; oppure, ancora di più, il famoso “delitto della Cattolica”, rimasto irrisolto. La vittima, Simonetta Ferrero, laureatasi all’Università Cattolica, durante un giro di compere in centro a Milano poco prima delle vacanze (24 luglio 1971), aveva deciso di entrare nell’edificio della sua università in cerca di un bagno: ma qui aveva incontrato il suo assassino. Fu uccisa da un uomo di alta statura (come si poteva evincere dalla scena del delitto) con ben 33 coltellate. Rispetto però alla cronaca giudiziaria italiana, Camilleri (e, con lui, gli sceneggiatori) hanno il merito di porsi un problema che, spesso, non ci si pone nelle aule di tribunale: come ha fatto l’assassino a ripulirsi dal sangue prima di lasciare il luogo del delitto? Provate a seguire la cronaca e vi renderete conto che troppo spesso questo interrogativo non viene spontaneo agl’investigatori. Di certo, aggiungo io da casalinga, per lavare via il sangue basta strofinare sotto l’acqua corrente: però, lavare via quelle quantità di sangue, è comunque un affare serio, specie se uno ha paura di farsi scoprire ed ha poco tempo. Vedrete come Montalbano risolve la questione.


L’episodio è, come sempre, bello, godibile, ha sicuramente ritmo, però ho notato che l’intreccio è abbastanza debole, il che potrebbe derivare dal testo narrativo di base e non è una novità (per esempio, l’intreccio è poco curato anche ne L’altro capo del filo, del 2019): costruire un giallo o un thriller, lo so per esperienza diretta, è difficile, e non tutte le trame riescono a dare il massimo. Di solito, come qui, il principale stratagemma adottato per celare l’identità dell’assassino è quello di sviare l’attenzione dello spettatore da un personaggio, apparentemente poco appariscente: così, ho capito chi era l’assassino dopo 20 minuti dall’inizio. Ci sono poi vari spunti che non vengono sviluppati molto: il motivo dell’immigrazione sa un po’ di cliché, così come la presentazione di Caterina, l’amica della protagonista – secondo me, un omaggio al politically correct -; oppure, il motivo della denuncia sociale e l’allusione a traffici loschi rimane proprio un’allusione, ben lungi dall’approfondimento che ne venne dato nel famoso e splendido La gita a Tindari, un piccolo capolavoro da questo punto di vista. Lo stesso titolo, Salvo amato, Livia mia ha un legame abbastanza esteriore con la trama: insomma, come episodio manca un po’ della profondità, letteraria e umana, di altri, come (menziono a caso) il già citato La gita a Tindari, oppure Un covo di vipere, o il bellissimo Una faccenda delicata; ciò è imputabile soprattutto alla sceneggiatura. La serie del Commissario Montalbano rimane però una macchina ben rodata e che funziona, anzi, che fa sempre piacere ritrovare in primavera sulle reti Rai.


C’è però un motivo molto affascinante al centro della trama: l’archivio e, in particolare, quella misteriosa “sala delle memorie inutili”, in cui si trovano affastellati memoriali di cittadini ormai dimenticati di Vigata e in cui Salvo e i suoi devono compiere delle indagini. Come noterete, il motivo dell’archivio è funzionale allo scioglimento della trama a più livelli. Però, dobbiamo ricordare che i gialli di Camilleri sono, innanzitutto (e molto di più che per altri autori) soprattutto costruzioni letterarie. In Camilleri si trova spesso la fascinazione della narrazione, della trasmissione storica, delle memorie, del ricordo, della vita fatta letteratura: ne è un esempio magnifico Il cane di terracotta, ma anche Un diario del ‘43. Anche qui, l’archivio, con i suoi misteri e le sue memorie polverose, campeggia al centro della vicenda esercitando un fascino indiscusso. E a questo punto – e a vantaggio della mia attuale 5M, cui ho promesso dei collegamenti di questo episodio con i grandi autori di Letteratura Italiana – possiamo chiederci: quali sono i legami di Camilleri con i grandi della passata Letteratura Siciliana? Con Verga, con Pirandello?


La Letteratura Siciliana meriterebbe un capitolo a parte nella storia della nostra cultura italiana. Potremmo iniziare dai paesaggi della Sicilia, assolati, ampi e a perdita d’occhio, tra terreno ocra e stoppie giallastre, sotto un sole a picco, ma anche cosparsi di aranceti, fertili fattorie e giardini nascosti: i paesaggi in cui arranca, per esempio, il protagonista di Mastro Don Gesualdo di Verga per andare a visitare i suoi possedimenti. Ma la lezione raccolta da Camilleri dai suoi predecessori è, in particolare, formale. Lo strano impasto di italiano e siciliano dei romanzi di Camilleri – quello strano impasto che ha imposto nella lingua corrente termini come travagliare, accattare, gabbasisi ecc. – ha le sue radici nella lingua estremamente innovativa che Verga sperimentò nei Malavoglia: lui, a dire il vero, non si era spinto fin proprio al dialetto stretto, ma aveva creato un impasto di lingua italiana e lingua vernacolare davvero originale e che destò stupore nell’Italia in cui si stava diffondendo – almeno a scuola – la versione del fiorentino parlato un po’ artificioso dei Promessi sposi. Soprattutto, Verga aveva sfruttato modi di dire e proverbi, studiati sulle opere di Giuseppe Pitré, e si era calato nel lessico, nei giri di parole, nella mentalità dei suoi protagonisti, popolani siciliani, a dire il vero, molto lontani da lui, borghese di Catania inseritosi nelle capitali culturali del Nord Italia, Firenze e Milano. Questo, si sa, perché la sua opera, verista, doveva apparire come fatta da sé, un esempio di piena oggettività da cui l’autore doveva sembrare praticamente scomparso.


Ma l’autore, in realtà, non scompare mai. Difatti, il motivo in cui Camilleri risente di più sia dei suoi predecessori, sia della “sicilianità”, è o teatro, come si dice in Sicilia (con la t pronunciata quasi come una palatale, una c). Pirandello adorava il teatro: e si è fatto portatore di una filosofia in cui la realtà si scompone in “vita” e “forma”. La vita è quell’energia indefinibile che si sprigiona in ciascuno di noi: Pirandello era molto vicino, in questo, alle filosofie “vitalistiche” degl’inizi del secolo e credeva come a un flusso di energia, che però deve essere sempre ingabbiato in una “forma”, cioè un’apparenza cristallizzata, che ci permetta di manifestarci in società. E’ il dramma del Fu Mattia Pascal: lui prova a fuggire dalla prigione in cui si trova, una situazione invivibile in famiglia, fatta di liti e frustrazioni continue: ma non appena un morto viene preso per lui e lui potrebbe fuggire indisturbato, in realtà si accorge di non avere una “forma”, un’apparenza riconosciuta in società; non è registrato all’anagrafe, non ha coordinate, non ha niente che lo identifichi, insomma, non esiste. E così deve recuperare la sua vecchia forma, tornare al paese ligure da cui è fuggito e “risorgere”. Nella vita vera, però, non c’è più posto per lui: e allora si riduce a fare il bibliotecario. Nei termini della puntata di ieri sera, scrive le sue memorie, che vanno ad aggiungersi alle altre “memorie inutili” dell'archivio. Eppure, sembra obiettare Camilleri, quante storie affascinanti si celano tra la polvere di quelle “memorie inutili”! L’archivio di ieri sera potrebbe ricordare un po’ quello del finale del Fu Mattia Pascal, ma con una tonalità forse un poco più positiva, meno cimiteriale.


Tutta l’opera di Pirandello e, soprattutto, quella teatrale, è una cronaca della continua lotta tra vita e forma. Perciò è anche una riflessione sulle apparenze, da cui la vita spesso sgattaiola via; e basti pensare al suo Enrico IV, storia di un pazzo che crede di essere l’imperatore Enrico IV di Svevia, ma che rinsavisce, solo che non può dirlo, perché è rimasto imprigionato nel suo ruolo. E quindi il teatro pirandelliano è anche una meditazione sulla finzione. Il tema d’o teatro è onnipresente nelle vicende di Montalbano: è già “teatro” la parziale messinscena (alla lettera) per cui l’assassino cerca qui di far passare l’omicidio per un’aggressione sessuale; e il commissario si ritrova davanti in continuazione delle false apparenze. Ma, soprattutto -e in molti episodi – la soluzione del caso arriva regolarmente grazie a una grande performance attoriale del commissario, che fa un bluff, recita e, rischiando grosso (cosa impossibile da fare in una procedura vera), fingendo di sapere per certo quel che ha in realtà solo indovinato, spinge l’assassino alla confessione. Ma perché la deduzione, l’intelligenza non basta e, per risolvere i casi, ci vuole anche la finzione?


Il mondo della Sicilia di Verga, di Pirandello, anche di Sciascia e Camilleri, è un mondo molto pessimista e finanche fatalista. Sembra sempre che un’invisibile spada di Damocle, un destino avverso, siano sospesi sui personaggi. Sarà il sole che picchia, o sarà la memoria della tragedia greca: però, questi autori sono profondamente pessimisti. Verga, dopo avere descritto in modo magistrale le peripezie dei suoi vinti, i protagonisti della sua saga, persone povere come i Malavoglia, oppure in cerca di riscatto sociale come Mastro Don Gesualdo, dopo essersi immedesimato con i poveri, rinuncia a scrivere e si ritira in una sorta di esilio volontario, fuori dal mondo. Ed è un conservatore: ma non perché non si renda conto della condizione di coloro che ha descritto, ma perché, in modo sconsolato, è convinto che niente cambierà. Nel famoso Gattopardo di un altro grande scrittore siciliano, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, si dice: Bisogna che tutto cambi, perché tutto resti com’è”. A livello storico: la conquista dei Mille, l’arrivo di Garibaldi, l’annessione al Regno d’Italia, ha mutato le cose solo in superficie: la sostanza, i soprusi, permangono. Il fato è immobile. 
Disse Pirandello, nel discorso pronunciato in occasione della morte di Giovanni Verga:

Io sono nato in Sicilia e lì l’uomo nasce isola nell’isola e rimane tale fino alla morte, anche vivendo lontano dall’aspra terra natia circondata dal mare immenso e geloso.


 E ancora, disse della propria nascita:

Una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli d’un altipiano di argille azzurre sul mare africano…

Il bellissimo paesaggio notturno non nasconde la casualità di quel caddi, di un uomo che diceva di essere nato a Villa Caos (e non certo per caso) e che faticava a trovare un senso tra i dolori dell’esistenza, tra le forme impostegli e che lo imprigionavano (Raccattata dalla campagna la mia nascita fu segnata nei registri della piccola città situata sul colle…confesso che di tutte queste cose non mi sono fatta ancora né certo saprò farmi mai un’idea, continua nel suo frammento autobiografico: si noti come la sua vita fu raccattata e poi approdò all’anagrafe, segno della prigionia delle convenzioni sociali). Pirandello ha poi passato la vita a scomporre, con il meccanismo del metateatro, le vicende e i meccanismi teatrali delle pièces che portava sulla scena, a smontarle, in maniera ossessiva, incapace di apporvi un lieto fine. E, se ci pensate, neanche il Giorno della civetta di Leonardo Sciascia finisce bene. 


Avrete notato che, non di rado, il finale degli episodi di Montalbano è triste: non pochi assassini si tolgono la vita (un residuo della tragedia classica?); e, come ho osservato, anche quando Montalbano riesce ad assicurare il colpevole alla giustizia, deve fingere, recitare per farlo confessare. Teatro. Difatti. Questo però ci dice che il lieto fine, il ristabilire la giustizia, è qualcosa che può ottenere solo l’autore che, come una sorta di creatore nel suo piccolo mondo letterario, può realizzare quello che nella realtà troppo spesso non succede. Ariosto riusciva a dominare, da poeta, la realtà multiforme della vita, inserendola nell’ordine che lui intendeva. L’autore è, in letteratura, un demiurgo: crea una realtà. Quando recita, Montalbano diventa una specie di demiurgo (difatti, Livia gli ha rimproverato talora questo atteggiamento: di fare e disfare a suo piacimento, come se si sentisse un padreterno), un demiurgo che assicura la giustizia. Ma ciò va bene solo in letteratura, sembra implicare Camilleri. Per il resto, quel che rimane è la consapevolezza della crudeltà che ha tolto la vita a una ragazza buona. Nei delitti che citavo sopra, come spesso succede, le vittime erano tutte ragazze genuinamente buone, che spesso illuminavano il loro ambiente, come la vittima, Agata (= “buona” in greco) di questo episodio. Purtroppo, questo è vero. La vittimologia dice che la maggioranza delle vittime di omicidio è spesso implicata nel mondo della delinquenza oppure in situazioni pericolose, per cui è in partenza a rischio (a prescindere dalla loro etica: sia chiaro, nessuno merita però di fare una fine del genere). Ma poi esiste una discreta percentuale di persone genuinamente buone e pulite, senza alcun collegamento con un ambiente a rischio e la cui uccisione appare ancora più inverosimile e iniqua, assurda, se possibile, di quella di altri. Avrete notato che i delitti che ho citato sono, in gran parte, irrisolti: questa è la realtà che soggiace alla costruzione letteraria e che quest’ultima, infine, anche nel giallo migliore, non riesce a risolvere.



martedì 5 novembre 2019

Oltre la bufera (Marco Cassini, 2019)



Oltre la bufera (Marco Cassini, 2019)

C'è stata un'epoca, qui nel Ferrarese, in cui la rabbia dei braccianti infiammava le campagne e i socialisti, comprensibilmente, raccoglievano il favore della masse alla fame; contro di loro partivano allora le squadre nere, che, come uccelli del malaugurio, seminavano terrore e violenza a colpi di manganello e facevano ingollare litri di olio di ricino alle loro vittime. Non di rado, ci scappava il morto, come accadde in Piazza Castello. Era l'epoca in cui, per esempio, mia nonna Maria Cristina, allora di appena 25 anni, da sola nella casa di famiglia con 4 anziani allettati, 2 bambine sue e 4 della cognata ammalata, si chiudeva in casa la notte per il terrore, con tutte le bambine intorno, a pregare, mentre dal borgo vicino provenivano gli urli delle vittime pestate a sangue dai fascisti.


Era l'epoca della bufera del titolo, magnificamente indovinato, dell'ultima fatica di Marco Cassini e Stefano Muroni, "Oltre la bufera", film molto intenso sul ministero e il martirio di don Giovanni Minzoni, il sacerdote ucciso ad Argenta dai fascisti la sera del 23 agosto 1923. A Marco Cassini si deve la regia, attenta e curata; a Stefano Muroni, invece, l'interpretazione del protagonista, ma anche la motivazione, l'idea e una gran quantità di lavoro dietro le quinte, per assicurare il coronamento e il successo di quest'impresa; un'impresa che, nonostante i mezzi ridotti a disposizione, è riuscita a raggiungere meritatamente la platea nazionale e non ha nulla da invidiare, anzi, alle meglio foraggiate pellicole che hanno a disposizione le grandi possibilità fornite dai giganti della produzione cinematografica.  Questo per sottolineare il surplus d'impegno che un'iniziativa del genere deve avere richiesto e il discernimento con cui i mezzi a disposizione sono stati impiegati (lo si nota, ad esempio, dall'accortezza con cui è stata calibrata la scenografia).


Il film si apre col ritorno di don Giovanni Minzoni ad Argenta dopo la Prima Guerra Mondiale. Uomo di grande valore e coraggio, aveva servito nell'esercito come cappellano militare, ma era stato anche insignito di varie medaglie al valore per il suo ardimento sul campo e per come aveva guidato i suoi uomini all'attacco - ricordo per inciso che certi attacchi al nemico, sul fronte del Piave, terminavano spesso in una carneficina, specie quando gli uomini partivano all'attacco alla baionetta contro uno schieramento di mitragliatrici. Stefano Muroni, con la sua recitazione, riesce a conferire intenso spessore etico e forte rettitudine e dignità a questa figura, purtroppo non sufficientemente ricordata neanche qui a Ferrara: non conto più gli errori storici che ho udito in questi giorni di programmazione del film, segno che pochi ricordano chi era davvero don Minzoni. Invece, è stato forse la prima vittima illustre del fascismo, in quanto ucciso ben un anno prima del più noto Giacomo Matteotti (il deputato socialista di Fratta Polesine, fatto sparire tra il giugno e l'agosto del 1924, dopo le elezioni truccate che portarono il fascismo a stravincere). La pellicola non è propriamente costruita come un film storico, dato che possiede piuttosto un respiro teatrale, esaltato dai frequenti e intensi primi, se non anche primissimi piani, nonché dalla costruzione attenta, molto concettuale, dei dialoghi: la vicenda appare così condensata per sommi capi e, soprattutto all'inizio, si fatica un po' a orientarsi nel dettaglio degli avvenimenti storici, sospesi in modo generale nel biennio precedente la Marcia su Roma. Poi, il ritmo si accelera progressivamente, man mano che ci si avvicina alla conclusione.


Tuttavia, il succo della vicenda c'è, eccome, e rispetta nettamente i fatti storici. Il ritorno di don Minzoni dalla guerra; la sua amicizia con alcuni socialisti della zona; i dettagli della crisi modernista (come il particolare che i sacerdoti, allora, per rispetto della tradizione, non potevano andare in bicicletta!); l'incomprensione delle gerarchie ecclesiali, troppo attendiste col fascismo; l'uccisione, da parte dei fascisti, di un militante socialista di rilievo, massacrato a furia di botte nelle campagne; l'impegno religioso e sociale di don Minzoni, che moltiplicò le iniziative ad Argenta, dalla cooperativa femminile - frutto di uno squisito e inconsueto, anzi precocissimo interesse per la condizione femminile - agli scout cattolici, all'opera ricreativa per i giovani; il contrapporsi di queste iniziative a quelle ricreative fasciste; le minacce, le intimidazioni, la prossimità agli squadristi che organizzarono la spedizione punitiva di un celeberrimo gerarca ferrarese come Italo Balbo, il cui ruolo nella vicenda è sempre rimasto discusso. Gli assassini di don Minzoni furono sì processati (e poi amnistiati...) dopo la guerra, nel 1947, per omicidio preterintenzionale: in sostanza, avevano ucciso don Minzoni durante una spedizione punitiva che non mirava propriamente all'omicidio, ma che aveva passato il segno, finendo in un massacro. non è mai stato stabilito con chiarezza se Balbo, oggi sepolto nella nostra Certosa (non lontano da mio nonno, tra l'altro), fosse a conoscenza di ciò. Del resto, Balbo fu, probabilmente, il più intelligente e spregiudicato, forse anche il più capace tra i gerarchi fascisti della prima ora, tanto capace da suscitare la gelosia del Duce (e da fare une pessima fine in Libia). Ma era un fascista: nel film viene presentato come più prudente.


Un film del genere, di grande spessore contenutistico, etico e di genuina qualità, appare davvero utile, anzi necessario in questo periodo segnato sempre più da violenze e intolleranza di vario genere. La grande dirittura morale di don Minzoni, il suo ascendente, determinato e pacifico, sulle persone che lo circondavano e gli erano affezionate, costituisce l'ossatura intorno a cui si organizza la vicenda. Tra gli altri interpreti, vorrei ricordare soprattutto Piero Cardano, che interpreta l'antagonista fascista del sacerdote e che ben rappresenta il nucleo di violenza cieca dello squadrismo fascista: io lo ricordo nella puntata Champagne per uno della serie di Nero Wolfe, così come Davide Paganini, che qui interpreta uno degli amici socialisti di don Giovanni. Man mano che ci si avvicina alla fine, la vicenda riceve un'accelerazione  che non si limita solo al ritmo del film: è, soprattutto, un'intensificazione etica. Brilla in don Minzoni l'autenticità cristiana, il coraggio di dire "no", in modo netto, al male.

Ho voluto iniziare questa recensione ricordando alcuni fatti della storia della mia famiglia, perché la storia del nostro paese si è incarnata in profondità in quella delle nostre famiglie ed è bene che ciò alimenti la memoria; e questo, soprattutto a beneficio dei nostri ragazzi che, nella in una società sempre più vertiginosamente rapida, non riescono spesso a mantenere i contatti col passato. Anche la storia di don Minzoni, per noi di Ferrara, dovrebbe essere storia di famiglia. Ed è una storia che si apre verso il futuro e la vicenda successiva del nostro Paese. Così, l'idea di richiamare visivamente le stragi che lo hanno segnato a sangue è splendida, perché davvero don Minzoni è stato il primo (o tra i primi) di una lunga serie di morti, vittime dell'estremismo politico di ogni colore. Le scene finali in cui il sacerdote viene immolato sono davvero difficili da dimenticare.


Rettifica: nella prima versione di questa recensione avevo dato per buona la versione secondo cui il mandante dell'omicidio di don Minzoni sarebbe stato Italo Balbo. Molto gentilmente, Stefano Muroni mi ha comunicato che, in realtà, stando alle ricerche della produzione, non si è mai riuscito a stabilire la responsabilità di Balbo e che la famiglia ha sempre vinto tutte le querele in materia. Ringrazio quindi Stefano Muroni per la rettifica.