Salvo amato, Livia mia (A.Sironi - L.Zingaretti, 2020)
Una guardia giurata pedala tranquillamente fino a una villa e, mentre svolge il suo giro di sorveglianza, intravvede una figura furtiva che si defila tra la vegetazione…E’ Pasquale, il figlio di Adelina e vecchia conoscenza di Montalbano. Il cadavere di una ragazza, un’archivista molto competente, viene ritrovato, segnato da innumerevoli colpi di un’arma da punta, nell’archivio di Vigata: è Agata Cosentino, un’amica di Livia. Ma che cosa ci faceva all’archivio, chiuso per ferie e in via di ristrutturazione? Perché intorno al suo corpo mancano tracce di sangue, come se l’assassino avesse ripulito tutto?
Queste
sono le prime scene di Salvo amato, Livia mia, la nuova puntata della
serie del commissario Montalbano, sopravvissuta (è il caso di dirlo, il che ha
risonanze inquietanti, dati i tempi che corrono) al regista Alberto Sironi,
allo scenografo Luciano Ricceri (famoso per la scenografia di alcuni film di
Ettore Scola o di kolossal come la serie Marco Polo) e,
ovviamente, allo stesso autore, Andrea Camilleri, che ci ha lasciato l'anno scorso. Tuttavia, ritroviamo il cast
e l’ambientazione cui siamo affezionati da anni in un episodio comunque di
buona fattura e in continuità con quelli precedenti firmati da Sironi. Alla
regia si è cimentato ora lo stesso protagonista, Luca Zingaretti.
Il primo
aspetto che mi ha colpito è il rinvio della trama ad alcune vicende di cronaca italiana.
Per chi ha un minimo di conoscenza della storia criminologica del nostro paese,
è un’evidenza: il fatto che la vittima venga ritrovata in un luogo di lavoro
deserto, chiuso per ferie, crivellata di colpi e senza la benché minima traccia
di sangue intorno perché l’assassino ha fatto pulizia, rimanda inevitabilmente
al tristemente famoso delitto di Via Poma (Roma, 1990, vittima Simonetta
Cesaroni). Ma non sono questi gli unici richiami, a conferma del fatto che
Camilleri, come ha spesso affermato, utilizzava veramente quel che leggeva sui
giornali per costruire le proprie trame: può venire in mente un altro delitto
celebre, quello di Garlasco (2006, vittima Chiara Poggi), anch’esso consumatosi
nel silenzio assolato di una mattina estiva; oppure, ancora di più, il famoso “delitto
della Cattolica”, rimasto irrisolto. La vittima, Simonetta Ferrero, laureatasi
all’Università Cattolica, durante un giro di compere in centro a Milano poco
prima delle vacanze (24 luglio 1971), aveva deciso di entrare nell’edificio
della sua università in cerca di un bagno: ma qui aveva incontrato il suo
assassino. Fu uccisa da un uomo di alta statura (come si poteva evincere dalla
scena del delitto) con ben 33 coltellate. Rispetto però alla cronaca
giudiziaria italiana, Camilleri (e, con lui, gli sceneggiatori) hanno il merito
di porsi un problema che, spesso, non ci si pone nelle aule di tribunale: come
ha fatto l’assassino a ripulirsi dal sangue prima di lasciare il luogo del
delitto? Provate a seguire la cronaca e vi renderete conto che troppo spesso
questo interrogativo non viene spontaneo agl’investigatori. Di certo, aggiungo io da
casalinga, per lavare via il sangue basta strofinare sotto l’acqua corrente:
però, lavare via quelle quantità di sangue, è comunque un affare serio,
specie se uno ha paura di farsi scoprire ed ha poco tempo. Vedrete come
Montalbano risolve la questione.
L’episodio
è, come sempre, bello, godibile, ha sicuramente ritmo, però ho notato che l’intreccio è abbastanza
debole, il che potrebbe derivare dal testo narrativo di base e non è una novità
(per esempio, l’intreccio è poco curato anche ne L’altro capo del filo,
del 2019): costruire un giallo o un thriller, lo so per esperienza
diretta, è difficile, e non tutte le trame riescono a dare il massimo. Di
solito, come qui, il principale stratagemma adottato per celare l’identità dell’assassino
è quello di sviare l’attenzione dello spettatore da un personaggio,
apparentemente poco appariscente: così, ho capito chi era l’assassino dopo 20
minuti dall’inizio. Ci sono poi vari spunti che non vengono sviluppati molto:
il motivo dell’immigrazione sa un po’ di cliché, così come la
presentazione di Caterina, l’amica della protagonista – secondo me, un omaggio
al politically correct -; oppure, il motivo della denuncia sociale e l’allusione
a traffici loschi rimane proprio un’allusione, ben lungi dall’approfondimento
che ne venne dato nel famoso e splendido La gita a Tindari, un piccolo
capolavoro da questo punto di vista. Lo stesso titolo, Salvo amato, Livia
mia ha un legame abbastanza esteriore con la trama: insomma,
come episodio manca un po’ della profondità, letteraria e umana, di altri, come
(menziono a caso) il già citato La gita a Tindari, oppure Un covo di
vipere, o il bellissimo Una faccenda delicata; ciò è
imputabile soprattutto alla sceneggiatura. La serie del Commissario
Montalbano rimane però una macchina ben rodata e che funziona, anzi, che fa
sempre piacere ritrovare in primavera sulle reti Rai.
C’è però
un motivo molto affascinante al centro della trama: l’archivio e, in particolare,
quella misteriosa “sala delle memorie inutili”, in cui si trovano affastellati
memoriali di cittadini ormai dimenticati di Vigata e in cui Salvo e i suoi
devono compiere delle indagini. Come noterete, il motivo dell’archivio è funzionale
allo scioglimento della trama a più livelli. Però, dobbiamo ricordare che i
gialli di Camilleri sono, innanzitutto (e molto di più che per altri autori)
soprattutto costruzioni letterarie. In Camilleri si trova spesso la
fascinazione della narrazione, della trasmissione storica, delle memorie, del
ricordo, della vita fatta letteratura: ne è un esempio magnifico Il cane di
terracotta, ma anche Un diario del ‘43. Anche qui, l’archivio, con i
suoi misteri e le sue memorie polverose, campeggia al centro della vicenda esercitando
un fascino indiscusso. E a questo punto – e a vantaggio della mia attuale 5M,
cui ho promesso dei collegamenti di questo episodio con i grandi autori di
Letteratura Italiana – possiamo chiederci: quali sono i legami di Camilleri con
i grandi della passata Letteratura Siciliana? Con Verga, con Pirandello?
La
Letteratura Siciliana meriterebbe un capitolo a parte nella storia della nostra
cultura italiana. Potremmo iniziare dai paesaggi della Sicilia, assolati, ampi
e a perdita d’occhio, tra terreno ocra e stoppie giallastre, sotto un sole a
picco, ma anche cosparsi di aranceti, fertili fattorie e giardini nascosti: i
paesaggi in cui arranca, per esempio, il protagonista di Mastro Don Gesualdo
di Verga per andare a visitare i suoi possedimenti. Ma la lezione raccolta
da Camilleri dai suoi predecessori è, in particolare, formale. Lo strano impasto
di italiano e siciliano dei romanzi di Camilleri – quello strano impasto che ha
imposto nella lingua corrente termini come travagliare, accattare, gabbasisi
ecc. – ha le sue radici nella lingua estremamente innovativa che Verga
sperimentò nei Malavoglia: lui, a dire il vero, non si era spinto fin
proprio al dialetto stretto, ma aveva creato un impasto di lingua italiana e
lingua vernacolare davvero originale e che destò stupore nell’Italia in cui si
stava diffondendo – almeno a scuola – la versione del fiorentino parlato un po’
artificioso dei Promessi sposi. Soprattutto, Verga aveva sfruttato modi
di dire e proverbi, studiati sulle opere di Giuseppe Pitré, e si era calato nel
lessico, nei giri di parole, nella mentalità dei suoi protagonisti, popolani
siciliani, a dire il vero, molto lontani da lui, borghese di Catania inseritosi
nelle capitali culturali del Nord Italia, Firenze e Milano. Questo, si sa,
perché la sua opera, verista, doveva apparire come fatta da sé, un
esempio di piena oggettività da cui l’autore doveva sembrare praticamente scomparso.
Ma l’autore,
in realtà, non scompare mai. Difatti, il motivo in cui Camilleri risente di più
sia dei suoi predecessori, sia della “sicilianità”, è o teatro, come si
dice in Sicilia (con la t pronunciata quasi come una palatale, una c).
Pirandello adorava il teatro: e si è fatto portatore di una filosofia
in cui la realtà si scompone in “vita” e “forma”. La vita è quell’energia
indefinibile che si sprigiona in ciascuno di noi: Pirandello era molto vicino,
in questo, alle filosofie “vitalistiche” degl’inizi del secolo e credeva come a
un flusso di energia, che però deve essere sempre ingabbiato in una “forma”,
cioè un’apparenza cristallizzata, che ci permetta di manifestarci in società. E’
il dramma del Fu Mattia Pascal: lui prova a fuggire dalla prigione in
cui si trova, una situazione invivibile in famiglia, fatta di liti e
frustrazioni continue: ma non appena un morto viene preso per lui e lui
potrebbe fuggire indisturbato, in realtà si accorge di non avere una “forma”,
un’apparenza riconosciuta in società; non è registrato all’anagrafe, non ha
coordinate, non ha niente che lo identifichi, insomma, non esiste. E così deve
recuperare la sua vecchia forma, tornare al paese ligure da cui è fuggito e “risorgere”.
Nella vita vera, però, non c’è più posto per lui: e allora si riduce a fare il
bibliotecario. Nei termini della puntata di ieri sera, scrive le sue memorie,
che vanno ad aggiungersi alle altre “memorie inutili” dell'archivio. Eppure, sembra obiettare
Camilleri, quante storie affascinanti si celano tra la polvere di quelle “memorie
inutili”! L’archivio di ieri sera potrebbe ricordare un po’ quello del finale del Fu
Mattia Pascal, ma con una tonalità forse un poco più positiva, meno
cimiteriale.
Tutta l’opera
di Pirandello e, soprattutto, quella teatrale, è una cronaca della continua
lotta tra vita e forma. Perciò è anche una riflessione sulle apparenze, da cui
la vita spesso sgattaiola via; e basti pensare al suo Enrico IV, storia
di un pazzo che crede di essere l’imperatore Enrico IV di Svevia, ma che
rinsavisce, solo che non può dirlo, perché è rimasto imprigionato nel suo
ruolo. E quindi il teatro pirandelliano è anche una meditazione sulla finzione.
Il tema d’o teatro è onnipresente nelle vicende di Montalbano: è già “teatro”
la parziale messinscena (alla lettera) per cui l’assassino cerca qui di far passare
l’omicidio per un’aggressione sessuale; e il commissario si ritrova davanti in
continuazione delle false apparenze. Ma, soprattutto -e in molti episodi – la soluzione
del caso arriva regolarmente grazie a una grande performance attoriale del
commissario, che fa un bluff, recita e, rischiando grosso (cosa
impossibile da fare in una procedura vera), fingendo di sapere per certo quel
che ha in realtà solo indovinato, spinge l’assassino alla confessione. Ma
perché la deduzione, l’intelligenza non basta e, per risolvere i casi, ci vuole
anche la finzione?
Il mondo
della Sicilia di Verga, di Pirandello, anche di Sciascia e Camilleri, è un
mondo molto pessimista e finanche fatalista. Sembra sempre che un’invisibile
spada di Damocle, un destino avverso, siano sospesi sui personaggi. Sarà il
sole che picchia, o sarà la memoria della tragedia greca: però, questi autori
sono profondamente pessimisti. Verga, dopo avere descritto in modo magistrale
le peripezie dei suoi vinti, i protagonisti della sua saga, persone
povere come i Malavoglia, oppure in cerca di riscatto sociale come
Mastro Don Gesualdo, dopo essersi immedesimato con i poveri, rinuncia a
scrivere e si ritira in una sorta di esilio volontario, fuori dal mondo. Ed è
un conservatore: ma non perché non si renda conto della condizione di coloro
che ha descritto, ma perché, in modo sconsolato, è convinto che niente
cambierà. Nel famoso Gattopardo di un altro grande scrittore siciliano,
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, si dice: Bisogna che tutto cambi, perché tutto resti com’è”. A livello storico: la conquista dei Mille, l’arrivo di
Garibaldi, l’annessione al Regno d’Italia, ha mutato le cose solo in
superficie: la sostanza, i soprusi, permangono. Il fato è immobile.
Disse
Pirandello, nel discorso pronunciato in occasione della morte di Giovanni
Verga:
Io
sono nato in Sicilia e lì l’uomo nasce isola nell’isola e rimane tale fino alla
morte, anche vivendo lontano dall’aspra terra natia circondata dal mare immenso
e geloso.
Una
notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna
d’olivi saraceni affacciata agli orli d’un altipiano di argille azzurre sul
mare africano…
Il
bellissimo paesaggio notturno non nasconde la casualità di quel caddi,
di un uomo che diceva di essere nato a Villa Caos (e non certo per caso) e che
faticava a trovare un senso tra i dolori dell’esistenza, tra le forme
impostegli e che lo imprigionavano (Raccattata dalla campagna la mia nascita
fu segnata nei registri della piccola città situata sul colle…confesso che di
tutte queste cose non mi sono fatta ancora né certo saprò farmi mai un’idea,
continua nel suo frammento autobiografico: si noti come la sua vita fu raccattata
e poi approdò all’anagrafe, segno della prigionia delle convenzioni sociali).
Pirandello ha poi passato la vita a scomporre, con il meccanismo del
metateatro, le vicende e i meccanismi teatrali delle pièces che portava
sulla scena, a smontarle, in maniera ossessiva, incapace di apporvi un lieto
fine. E, se ci pensate, neanche il Giorno della civetta di Leonardo Sciascia finisce bene.
Avrete
notato che, non di rado, il finale degli episodi di Montalbano è triste: non pochi
assassini si tolgono la vita (un residuo della tragedia classica?); e, come ho
osservato, anche quando Montalbano riesce ad assicurare il colpevole alla
giustizia, deve fingere, recitare per farlo confessare. Teatro. Difatti. Questo
però ci dice che il lieto fine, il ristabilire la giustizia, è qualcosa che può
ottenere solo l’autore che, come una sorta di creatore nel suo piccolo mondo
letterario, può realizzare quello che nella realtà troppo spesso non succede.
Ariosto riusciva a dominare, da poeta, la realtà multiforme della vita,
inserendola nell’ordine che lui intendeva. L’autore è, in letteratura, un demiurgo:
crea una realtà. Quando recita, Montalbano diventa una specie di demiurgo
(difatti, Livia gli ha rimproverato talora questo atteggiamento: di fare e
disfare a suo piacimento, come se si sentisse un padreterno), un demiurgo che assicura la giustizia. Ma ciò va bene solo in
letteratura, sembra implicare Camilleri. Per il resto, quel che rimane è la
consapevolezza della crudeltà che ha tolto la vita a una ragazza buona. Nei
delitti che citavo sopra, come spesso succede, le vittime erano tutte ragazze
genuinamente buone, che spesso illuminavano il loro ambiente, come la vittima,
Agata (= “buona” in greco) di questo episodio. Purtroppo, questo è vero. La
vittimologia dice che la maggioranza delle vittime di omicidio è spesso
implicata nel mondo della delinquenza oppure in situazioni pericolose, per cui è
in partenza a rischio (a prescindere dalla loro etica: sia chiaro, nessuno
merita però di fare una fine del genere). Ma poi esiste una discreta
percentuale di persone genuinamente buone e pulite, senza alcun collegamento con un ambiente a rischio e la cui uccisione appare
ancora più inverosimile e iniqua, assurda, se possibile, di quella di altri. Avrete
notato che i delitti che ho citato sono, in gran parte, irrisolti: questa è la
realtà che soggiace alla costruzione letteraria e che quest’ultima, infine,
anche nel giallo migliore, non riesce a risolvere.
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