domenica 21 ottobre 2018

La rivincita degli "zebrotti", ovvero ragazzi - e adulti - intellettualmente plusdotati



La rivincita degli "zebrotti", ovvero ragazzi - e adulti - intellettualmente plus-dotati. 

Avete presente quell'allievo / a intelligente, persino brillante, che ha guizzi di acume cui gli altri non arrivano neanche con l'ascensore, ma a cui la scuola va stretta come un maglione passato in lavatrice a 90 gradi; perennemente sulle nuvole, su di un'altra linea d'onda, oppure col cervello in ebollizione e 100.000 idee e interessi, tra cui sembra saltellare come la cavalletta Flip; ipersensibile, preoccupato delle sorti del mondo intero (che vi chiede angosciato alle 8.30 di mattina, mentre state cercando disperatamente d'interrogare: "Ma come si fa a vincere la fame nel mondo?"; "E l'ebola? Come facciamo a battere l'ebola?"...); vagamente ribelle, magari persino irritante per certi colleghi, con tutte le sue domande destabilizzanti a mitragliatrice; spesso un po' isolato, incompreso come Leopardi a Recanati; che sembra leggervi dentro con un raggio laser incorporato, tanto che fin dall'asilo mandava in crisi maestra i genitori, eppure si perde ancora ad ammirare con sguardo candido le farfalle e i peluches?    


Ebbene, questo studente così speciale è il plus - dotato, un profilo di allievo - e poi di adulto - dalle qualità meravigliose, ma troppo spesso ignorato, specie in Italia: eppure, per quanto sia capace, ha bisogno di attenzioni specifiche, perché è una forza fragile (come sanno i miei ragazzi, questo è un ossimoro, efficace però). Jeanne Siaud - Facchin, psicologa francese specializzata sul soggetto, gli ha dedicato un bel libro, Troppo intelligenti per essere felici ? (Rizzoli, 2016, traduzione dell'originale francese del 2011) che rappresenta, per quel che so, l'unico testo in Italia sull'argomento (adulti compresi). Vediamo un po' di cosa si tratta.  

I plus - dotati (francese surdoués, inglese gifted) sono bambini, poi adulti, dall'intelligenza non tanto superiore (anche se il loro QI supera i 115 punti), quanto diversa. Rappresentano il 2% della popolazione e sono molto differenti dal classico "secchione": di solito la gente si aspetta che sia lui il più intelligente, ma so per esperienza che spesso i primi della classe sono solo molto diligenti e "adattativi" (talvolta neanche particolarmente brillanti). Anzi, non di rado intelligenza non fa rima con riuscita scolastica. Niente a che vedere, a dispetto del pregiudizio popolare, col nostro plus - dotato, che d'ora in poi chiamerò "zebrotto", come fa simpaticamente la Siaud Facchin stessa. E lei si arrabbia parecchio, perché gli zebrotti sono, regolarmente, degl'incompresi e soffrono molto. Premetto che, per illustrare il seguito, userò anche degli esempi tratti dalla mia esperienza, perché...sono una zebrotta anche io (come vari colleghi, del resto). E non è per niente facile.   


I plus - dotati hanno due caratteristiche principali, in realtà due facce della stessa medaglia, indissolubilmente intrecciate: 

Un'intelligenza diversa, super-veloce: in media, gl'impulsi viaggiano nel loro cervello a una velocità di 5 cm al secondo in più per ogni punto al di sopra del normale QI (mezzo metro in più per ogni 10 punti...degli Sputnik!). Per di più, le informazioni che arrivano così velocemente non vengono stoccate in una zona sola del cervello, ma un po' dappertutto: così vengono recepite tutte in contemporanea, col risultato che il nostro zebrotto fatica a selezionare le informazioni...e ci affoga dentro. 
Ipersensibilità, una "reattività emotiva costante, fonte di un'ansia diffusa". Proprio perché ha un cervello super-veloce, lo zebrotto è ipersensibile ed emotivo, anzi, la sua emotività fa strettamente parte della sua intelligenza: per così dire, "pensa col cuore" e tutti i suoi sentimenti appaiono decuplicati. Vive quindi le cose con un'intensità impensabile (e incomprensibile) per gli altri: anche un dettaglio vira alla tragedia (o, viceversa, all'estasi). Questo è collegato alla sua tipica iperestesia ("recettività sensoriale esacerbata"), che potrebbe essere dovuta a una sensibilità acuta dell'amigdala. Ciò rende più difficile alla corteccia prefrontale di controllare le emozioni e gestire il pensiero in sintonia. 


La Siaud - Facchin consiglia a ripetizione che gli zebrotti vengano adeguatamente valutati con una batteria di test, perché "la verità rende liberi": infatti, hanno un fortissimo bisogno di sapere chi sono. Spesso il loro comportamento, anche se sono bambini e adolescenti sanissimi, appare un po'differente e questo li fa sentire a disagio, persino in colpa. Così, se un bambino plus-dotato cresce senza essere riconosciuto per quello che è, rischia dei problemi seri, come vedremo: in particolare, il crollo dell'autostima, sensi di colpa, e persino blocchi emotivi o situazioni di ansia. Il pericolo maggiore per loro è proprio il crollo dell'autostima, perché il nostro zebrotto è ipercritico con se stesso: quindi, mentre possiede delle qualità meravigliose, pensa di non valere nulla, un po' come il brutto anatroccolo, che non sapeva di essere un cigno. Da notare: gli zebrotti sono gli ultimi a credere di essere plus - dotati e, anche quando cercate di convincerli che sono molto intelligenti, non ci credono (neanche davanti ai risultati del test nero su bianco). Solo sapere che si è plus - dotati permette di riconciliarsi con se stessi e di avere uno sguardo più realistico e positivo su di sé: di occupare la propria casella giusta, per così dire, e adeguarsi al proprio funzionamento. 


Dato che il discorso è lungo, lo proseguirò in altre puntate, in cui approfondirò gli aspetti cognitivi ed emotivi della personalità dello zebrotto, sempre sulla falsariga del libro di Jeanne Siaud - Facchin e di quello che ho sperimentato, anche come insegnante. 
(continua). 

Bibliografia: J.Siaud - Facchin, Troppo intelligenti per essere felici?, Milano, Rizzoli, 2016; ADF.

martedì 16 ottobre 2018

Titanic (1997)


Titanic (1997)


Perché scrivere una recensione del film Titanic a 20 anni dalla sua prima proiezione? Forse perché adesso è possibile apprezzarne le qualità ancora di più.
Ci siamo ritrovate una sera della settimana scorsa sprofondate in  una poltrona del cinema io e due mie allieve di 3N, Federica ed Emma: pronte a salire sulla "nave dei sogni", come la soprannominavano allora - ma anche a scenderne non appena si è visto un iceberg di prua. Come io stessa anni fa, ci siamo commosse ed entusiasmate - senza grande differenza tra me e loro - mentre una folla di ragazzine affascinate come noi seguiva dietro di noi. Non c'è che dire, il Titanic è un film da rivedere al cinema, dove ci si può "immergere", alla lettera, nella storia e nell'atmosfera del racconto.


Titanic è, senza dubbio, uno dei film più importanti e ben costruiti della storia del cinema. Undici Oscar - uno meritatissimo a James Cameron per la miglior regia, quindi miglior film, migliore fotografia, scenografia, costumi, montaggio, sonoro, montaggio sonoro, effetti speciali - per forza -, infine migliore colonna sonora e canzone, capolavoro del compianto James Horner - vinse poi dei Golden Globe e una pletora di altri premi. Tuttavia, è ricordato in particolare come un cult movie, sia per le spettacolari scene dell'affondamento - più di un'ora e mezza, la durata effettiva della tragedia in mare - sia per la storia d'amore tra i due protagonisti, Jack Dawson e Rose DeWitt Bukater. Perciò, a volte, l'aspetto tecnico viene lasciato un po' in ombra. Ma le sue qualità sono superlative.


Innanzitutto, Titanic è un racconto potente, una narrazione dal respiro epico. Fin dall'inizio, ogni scena ha un senso nel disegno complessivo e nulla è fuori posto: l'esordio con le finte immagini di repertorio della partenza della nave evocano un passato che non c'è più, mentre le successive sequenze del vero Titanic che giace sul fondo dell'Atlantico ed è stato esplorato da Ballard acquistano una straordinaria densità emotiva. Non sono solo immagini da documentario: evocano anch'esse la tragedia, il fasto scomparso tra le onde assieme a tanti sogni e vite umane. Le scene però profondamente coinvolgenti non si contano: io ricordo in particolare i preziosi piatti di porcellana che si infrangono al suolo cadendo dalla loro credenza, simbolo di un lusso andato in pezzi, così come tanti altri oggetti - i quadri acquistati da Rose a Parigi finiscono sott'acqua; le mie ragazze ricordano regolarmente la  madre che racconta una fiaba ai suoi bambini per farli addormentare prima che muoiano tutti sul transatlantico che affonda; splendida è la rapidissima scena in cui i coniugi Strauss, i proprietari del grande magazzino Macy's, si abbracciano tremanti sul letto della loro cabina, mentre l'acqua entra a fiotti. Infatti, la loro storia è molto nota: essi rinunciarono a salvarsi per rimanere insieme e lasciarono il posto sulla scialuppa - e persino una pelliccia contro il freddo - alla loro giovane cameriera.


E poi le belle scene sulla celeberrima orchestra del Titanic, che suona fino alla fine con eroismo, intonando come ultimo pezzo un inno religioso; lo sconcerto dell'ingegnere Andrews, che, affranto per non avere progettato una nave più sicura, attende la morte assorto davanti alla pendola della sala da pranzo di prima classe; oppure il capitano Smith, che, praticamente sotto shock, si ritira nel castello di prua, finché l'acqua non lo invade. Sono tante, tantissime, le storie raccontate in quella globale del transatlantico: ogni morte viene narrata con rara profondità umana. Per me, una delle scene più sconvolgenti, quasi dantesca, è quella finale, in cui l'unica scialuppa che è tornata indietro si trova a vagare vuota e al buio tra i cadaveri delle persone assiderate nell'acqua gelida. Questa volta ho rivalutato persino la storia d'amore tra Rose e Jack, che vent'anni fa mi era sembrata troppo artificiale, perché veramente breve: dura la lunghezza del viaggio del transatlantico (dall'11 alla notte del 15 aprile 1912). In realtà, non solo una storia d'amore era necessaria al cuore del film e non si poteva che inventarla - e come andare a turbare la memoria delle vittime vere? -, ma la storia di Rose e Jack adempie pure a varie funzioni, tra cui una strutturale.


Che una ragazza di prima classe si innamori di un giovane di terza, permette uno spaccato integrale della vita della nave: nei loro andirivieni, i due protagonisti attraversano e ci mostrano tutto, dalla prua, alle stive, fino al locale caldaie. E lo stesso avviene durante l'affondamento, quando, per vari motivi, i due innamorati sono costretti a vagare ai piani bassi, che si stanno ormai riempiendo d'acqua. Questo spaccato, però, permette anche considerazioni sociali più profonde: il naufragio del Titanic è, anche e soprattutto, una tragedia provocata dall'arroganza umana e dall'ingiustizia. La fedelissima ricostruzione di J.Cameron insiste molto sull'iniquità che porta alla morte buona parte dei passeggeri poveri della terza classe. Il tutto è coronato dalla magnifica recitazione di Kate Winslet - che ricevette una candidatura all'Oscar - e Leonardo di Caprio, senza dimenticare le decine di altri attori, molti inglesi, di solito somigliantissimi alle vittime vere. Tra questi, vorrei ricordare Kathy Bates, perfetta nei panni del'"inaffondabile" Molly Brown, e Gloria Stuart, che interpreta Rose da vecchia.


La ricostruzione storica è stata minuziosissima, quasi maniacale; pochi i difetti: una certa tendenza manichea nel ritratto di Cal Hawkey, il fidanzato di Rose, davvero un po' troppo cattivo per essere credibile, o dei ricercatori  a caccia del Titanic, eccessivamente interessati ai soldi; anche Rose, all'inizio, sembra davvero troppo emancipata (ce la vedete una ragazzina diciassettenne della puritana Philadelphia a discettare su Freud?). Un'imprecisione seria riguarda la morte del  primo ufficiale Murdoch, che non si sparò, come mostrato nel film. Per il resto, la pellicola è di una precisione storica stupefacente; inoltre, le qualità tecniche del film sono davvero rare. La scenografia di Peter Lamont deve essere costata molte fatiche, così come gli effetti speciali di Robert Legato; bellissimi i costumi edoardiani di Deborah Lynn Scott, così come ho apprezzato molto il sonoro - ascoltate i rumori sinistri dentro la nave durante l'affondamento e capirete perché. In ogni caso, rivedendolo ci si rende conto che la regia di Cameron deve avere affrontato delle difficoltà tecniche eccezionali: molte scene, girate in acqua e in condizioni molto difficili, sono davvero più ardue di una qualsiasi scena di battaglia.


Titanic è una storia che coinvolge e rapisce: quello che il cinema dovrebbe essere. Eppure, lascia anche un messaggio molto positivo. "Credo che la vita è un dono" afferma Jack a pranzo con Rose e alcuni ricchi della prima classe: e le scene del film sottolineano questo concetto più volte. La storia d'amore tra Jack e Rose è bella anche perché lui le dona la vita: "mi ha salvato in tutte le maniere possibili" riflette lei da anziana. Jack le ha insegnato a vivere una vita diversa dalla rigida etichetta cui era abituata, le ha donato la libertà e, infine, le ha donato la vita. Se "le grandi acque non possono spegnere l'amore, né i fiumi travolgerlo", questa storia d'amore, anche se inventata, evoca il dono più completo, quello che tutti vorrebbero ricevere.

sabato 6 ottobre 2018

Fiaba d'amore a S.Pietroburgo


Fiaba d'amore a S.Pietroburgo


Questa fiaba è ambientata in una città splendida, affacciata sul Mar Baltico: S.Pietroburgo, costruita tra i ghiacci dal potente zar Pietro I più di tre secoli fa. Migliaia di prigionieri furono trasferiti in condizioni disumane a lavorare all’estremo Nord per l’edificazione della nuova capitale russa e migliaia vi morirono. Sulle loro ceneri si eresse però la “Venezia del Baltico”, un misto di armonia neoclassica italiana, soavi colori pastello, luccicante sciacquio dei canali e morbida luce del Nord, che si posa leggera e obliqua sugli splendidi edifici fin nelle lunghe, chiare notti estive dell’Artico.



A S.Pietroburgo, tanto tempo fa, su di una panchina affacciata sulla Neva e sul panorama della magnifica città, tutte le sere era possibile scorgere seduta una minuta figura di donna. Era bruna e rimaneva sulla panchina ad aspettare, senza muoversi, lo sguardo perso sull'acqua; in inverno pareva fissare il candido, vaporoso volteggiare dei fiocchi di neve sopra la Neva, la cattedrale dei santi Pietro e Paolo e il ponte della Trinità; in estate rivolgeva lo sguardo al pulviscolo dorato della luce serale che ammantava le cupole delle cattedrali e il Palazzo d'Inverno. Aspettava per un’ora, tra le 10.00 e le 11.00 di sera, poi si alzava sospirando e scivolava via in silenzio. Proprio come i protagonisti delle Notti bianche di Fedor Dostoevskij, che si ritrovavano a parlare su di una panchina nelle lunghe “notti bianche”, chiare, luminose, di S.Pietroburgo, anche lei pareva obbedire a un appuntamento segreto. Ma attendeva sempre sola. Solo i gabbiani che volavano e stridevano al di sopra della Neva potevano conoscere il suo segreto.



Chi aspettava la misteriosa sconosciuta? La giovane donna attendeva il suo amore, ma si trattava di un’attesa molto particolare. Mentre fissava le acque turchine della Neva, assieme agli stridi dei gabbiani, frammenti di un passato radioso parevano riemergere dall’acqua e dai ricordi: risa e scherzi sui gradini dell’Università, sguardi timidi e dolci che s’incrociano tra gli scaffali dei libri e sopra volumi polverosi; la trepidazione che precede un incontro tanto desiderato, quanto istantaneo ed effimero, stretto dalla tirannia delle convenienze; labbra che si schiudono al sorriso, ma non riescono a pronunciare altro delle migliaia e migliaia di parole di cui il cuore trabocca. Lei lo ricordava così, alto, slanciato tra i suoi libri, con l’aria sempre assorta, aureolato dal tepore della cultura; così alto, così energico nel passo, eppure così tenero, quasi fanciullesco nell’incarnato roseo, che s’imporporava lievemente quando la vedeva e chinava il capo, per riservatezza.



Quei ricordi così dolci costituivano una sorta di nicchia tiepida nel gelo dell’inverno nordico; una nicchia ricavata entro la crudele marea della storia che li assediava da ogni parte. Lei infatti lo aveva conosciuto alla Facoltà di Diritto, quella che, all’epoca, sotto Stalin, veniva definita dai poliziotti dell'NKDV la “facoltà delle cose inutili”: le leggi, il diritto, erano cose inutili perché, tanto, sotto uno Stato totalitario in cui il capriccio del dittatore porta allo sterminio milioni di persone, in cui si fissano quote per l’arresto e la fucilazione dei “nemici del popolo”, in cui l’economia si appoggia al lavoro dei gulag e milioni di contadini sono condannati alla morte per fame, a cosa servono i diritti? Visinskij, il procuratore generale dello Stato, quello che ordiva per Stalin i processi farsa del “Grande Terrore”, lo aveva detto chiaramente: a cosa servono le prove in un processo? Basta la confessione, e confessione ottenuta sotto tortura.



Per questo, la facoltà di Diritto sotto Stalin era inutile. Eppure lei l’aveva frequentata, per i suoi libri e la sua biblioteca, anche se studiava altrove. E così lui. Mentre intorno a loro succedeva tutto questo e incombeva la scure dell’apocalisse, l’idillio era germogliato nei loro cuori. Inconfessato, inconfessabile: nutrito di sguardi e di tepidi sorrisi; lieve e vulnerabile come i petali di un anemone assediato dall’inverno. L'anemone: il fiore del vento e dell'attesa. Mentre il sole tramontava placido dietro ai tetti di S.Pietroburgo in un mare di fuoco, lei ricordava quei giorni dei loro primi incontri come i più belli della propria vita: e le si scioglieva ancora il cuore a pensare a lui, a quanto era bello, gentile, intelligente, a quanta bellezza e amore i suoi occhi le avevano comunicato pur nel pudore della loro giovanile timidezza.



E poi era arrivata la marea, la tempesta. Anche per loro. Per una sciocchezza, lei non ricordava neanche cosa, tanto si era trattato di qualcosa di insignificante, anche lui era stato incriminato; e lei si era ritrovata al di fuori di tutta la barbara trafila, a guardare terrorizzata senza capire: false accuse, tortura, processo, condanna e poi la scomparsa. Da un giorno all’altro, lui era scomparso. Chissà dove lo avevano mandato. A lei era rimasta solo l’attesa. L’attesa e la tortura dell’incertezza. Nel dolore lancinante provocato dal vuoto e dalla paura per lui – che cosa gli era successo? Chi si occupava di lui? Come mangiava? Chi lo teneva al caldo? – non le era rimasto altro che pregare. Pregava inginocchiata davanti alla sfolgorante iconostasi di una chiesa riaperta durante la guerra: fissava i volti, astratti e paradisiaci, delle icone, rivelatori di un’altra dimensione, così radiosa, così splendente, apparentemente così lontana dalle miserie di quaggiù, eppure così vicina ad esse per misericordia, e pregava. Pregava che lui stesse bene.



Era cominciata allora la lunga attesa: l’attesa così meravigliosamente immortalata da Konstantin Simonov nella sua più bella poesia d’amore:

Aspettami ed io tornerò,
ma aspettami con tutte le tue forze.
Aspettami quando le gialle piogge
Ti ispirano tristezza,
aspettami quando infuria la tormenta,
aspettami quando c’è caldo,
quando più non si aspettano gli altri,
obliando tutto ciò che accadde ieri.
Aspettami quando da luoghi lontani
Non giungeranno mie lettere,
aspettami quando ne avranno abbastanza
tutti quelli che aspettano con te.


                                            Amore e Psiche di A.Canova si trova all'Ermitage

Aspettami ed io tornerò,
non augurare del bene
a tutti coloro che sanno a memoria
che è tempo di dimenticare.
Credano pure mio figlio e mia madre
Che io non sono più,
gli amici si stanchino di aspettare
e, stretti intorno al fuoco,
bevano vino amaro
in memoria dell’anima mia…
Aspettami. E non t’affrettare
A bere insieme a loro.



Aspettami ed io tornerò
Ad onta di tutte le morti.
E colui che ormai non mi aspettava,
dica che ho avuto fortuna.
Chi non aspettò non può capire
Come tu mi abbia salvato in mezzo al fuoco
Con la tua attesa.
Solo noi due conosceremo
Come io sia sopravvissuto:
tu hai saputo aspettare
semplicemente come nessun altro.


Questa poesia era stata composta da uno scrittore e corrispondente di guerra per i soldati dell’Armata Rossa tra cui viveva e che affrontavano tutti i giorni il fuoco nemico: solo l’amore li poteva salvare dalla morte. Tuttavia, essa poteva adattarsi a ogni forma di attesa e, quindi, anche a lei: in estate, in inverno, mentre ormai più nessuno lo aspettava e tutti pronunciavano le frasi saccenti e vuote della rassegnazione, quando ormai ogni speranza pareva vana, lei continuava ad aspettare. Anche lei aveva deciso di aspettare con tutte le sue forze, cioè di avere fede. Fede in lui, fede in Dio, che glielo avrebbe salvato: e per questo, da anni, fedelmente, si recava tutte le sere su quella panchina, luogo, tanto tempo prima, del loro primo, unico appuntamento d’amore.


E lui, ora lo sapeva, da poco era tornato. Era tornato veramente. Vivo. Eppure, preferiva non vederla. Dapprincipio, per lei fu traumatico: lui era, da poche settimane, di nuovo a S.Pietroburgo, ma non intendeva vederla; così una conoscenza comune le aveva riferito. Lei aveva provato a cercarlo, perché sperava di parlargli: ma inutilmente. Di nuovo, un’altra conoscenza comune le aveva riferito, in via del tutto riservata, che, a suo parere, lui era troppo segnato dalla sua prigionia, schiacciato dal peso dei ricordi amari; per questo preferiva non vederla. Per lei ciò aveva significato un dolore enorme e l’incomprensione più totale: tanto pregare, tanto attendere sulla loro panchina, tanto sperare e ora che lui era tornato, vivo, non la voleva vedere! Perciò lei, all’inizio, era sprofondata in una cupa tristezza.



Poi, aveva capito. I romanzi ci hanno abituato agli ostacoli più banali nelle storie d’amore: familiari, motivi d’interesse, divisioni sociali. Ma i veri ostacoli all’amore vengono da dentro. Quando due creature sono state ripetutamente ferite dalla vita o dall’odio altrui, si ripiegano su stesse, si rivestono di paura e vergogna, si sentono incapaci di amare ancora. Le creature ferite rischiano di rimanere da sole; il male divide e annienta. Anche nello splendido Padiglione cancro di Solženitsyn, il protagonista Oleg non incontra più la ex-fidanzata, una volta che entrambi sono usciti dal gulag, perché il gulag ha scavato tra loro un abisso; e, analogamente, si sente incapace di ritornare ad amare. Quel muto abisso la prigionia di lui aveva scavato tra loro: non meno profondo e invalicabile di quello che tracciavano le autorità quando riferivano alle famiglie: “Dieci anni senza diritto di corrispondenza”, il che copriva semplicemente d’un velo omertoso un’esecuzione.


Tuttavia, dopo la prima crisi di sconforto, lei decise di non perdersi d’animo. E continuò ad aspettare. Inseguirlo sarebbe stato controproducente; attirarlo a sé non poteva. Allora, proprio come è detto nella poesia, decise di aspettare, aspettare con tutte le sue forze, di aspettare come nessun altro. E così lei lo avrebbe salvato dal fuoco, ad onta di tutte le morti: e lui sarebbe tornato da lei. Aspettare così significa credere, avere fede, nutrire la speranza, perché risorgere dall’ombra della morte è possibile e ritornare nella luce della resurrezione può accadere; sperare così non significa ignorare superficialmente le difficoltà, bensì, proprio perché se ne è coscienti, profondere tutte le proprie energie per superarle. Alla fine, lei ne era sicura, la sua attesa avrebbe vinto; lui non era tipo da arrendersi e non si sarebbe mai arreso, purché lei continuasse ad amarlo; era forte, ma dal suo amore avrebbe tratto ancora più forza. E lei avrebbe cucinato per lui la pasta al forno, gli avrebbe profumato la biancheria e deposto un bacio sulla fronte mentre dormiva. Lei lo amava come non mai e desiderava soltanto rivedere il suo volto, pulito e fanciullesco, per carezzarlo dolcemente sulla guancia. Perché l'amore fa miracoli.



Solo l’amore riporta alla vita. Come dice la poesia Attesa di Raymond Carver:

C’è una casa di tronchi
Con il tetto di tavole, a sinistra.
Non è quella che cerchi.
E’ quella appresso,
subito dopo una salita. La casa
dove gli alberi sono carichi
di frutta. Dove flox, forsizia e calendula
crescono rigogliose. E’ quella
la casa dove, in piedi sulla soglia,
c’è una donna
col sole nei capelli. Quella
che è rimasta in attesa
fino ad ora.
La donna che ti ama.
L’unica che può dirti:
“Come mai ci hai messo tanto?”
ADF



Note
1) La facoltà delle cose inutili è il titolo del capolavoro di Jurij Dombrovskij, pubblicato nel 1978 e denuncia autobiografica dello stalinismo; l'autore fece un continuo andirivieni tra carceri e gulag. Nel romanzo, il titolo è però riferito alla Facoltà di Diritto di Mosca. 
2) Si noti che la chiesa ortodossa ricevette qualche garanzia da Stalin per opportunismo del dittatore solo durante la guerra. 
3) La prassi dell'NKDV era di mantenere segrete le esecuzioni e di fornire alle famiglie come unica, laconica spiegazione: "Condannato a dieci anni senza diritto di corrispondenza".

Il conte Ugolino e gli orrori della storia 2. La storia di S.Massimiliano Kolbe

Il conte Ugolino e gli orrori della storia 2. La storia di S.Massimiliano Kolbe

Dopo l'incubo della caccia infernale, Ugolino si risveglia e trova a circondarlo una realtà ancora più atroce: i suoi figli (Gaddo, Uguccione, e i nipoti Anselmuccio e Nino), dormendo, chiedono del cibo nel sonno. E lui, impotente, non può fare niente per aiutarli. Quando si svegliano, essi attendono con ansia l'arrivo del pasto: e, invece, come unica risposta alle loro invocazioni, odono che la porta della torre viene inchiavardata definitivamente: i colpi di martello sulla porta equivalgono ai colpi su di una bara (la chiave fu poi gettata da Ruggieri in Arno affinché non venisse più trovata; del resto, Ruggieri odiava Ugolino perché questi aveva fatto condannare a morte suo nipote). La risposta di Ugolino è l'implosione completa: guarda i figli senza essere in grado di replicare, tanto è lo smarrimento che prova, a tal punto che si sente divenire pietra (io non piangea, sì dentro impetrai, v.59).


C'è un verbo che ricorre spesso, nel racconto, in varie forme flesse (poliptoto): piangere. Ugolino non riesce a piangere, ma piangono i figli, per cui, egli, per non aggravare ulteriormente la loro situazione, tace; un silenzio tremendo, che dura tutto un giorno; il sole, la luna, le intemperie passano e Ugolino resta immobile, come se il dolore immane lo avesse trasformato in pietra. L'unico momento di cedimento è al v.57, quando il conte, per la disperazione, si morde le mani; ma i figli interpretano il suo gesto, di rabbia, di pena, come un gesto ispirato dalla fame. Allora i figli supplicano il padre di sopravvivere nutrendosi di loro (vv.61-63: si noti la metafora del rivestire le membra di carne e dello spogliarle). E' un disperato atto di amore, estremo come estrema è la situazione: qualcosa del genere avvenne nel famoso caso dei sopravvissuti delle Ande, i giovani della squadra di rugby uruguayana Old Christians Club, precipitati con un volo charter sulle Ande il 13 ottobre 1972 e che sopravvissero anche nutrendosi dei corpi dei compagni morti. Qualcuno dei morenti esortò infatti i sopravvissuti a nutrirsi di loro per sopravvivere. Vennero ritrovati in 16 il 23 dicembre successivo, dopo 71 giorni passati a più di 3.000 metri, tra il ghiaccio, a varie decine di gradi sottozero e in condizioni di denutrizione spaventose.
Ugolino e i suoi, invece, non furono salvati. Il conte rimane ancora impietrito nei giorni seguenti, finché non vede i suoi figli morirgli davanti uno ad uno: ultimo rimane lui, a brancolare, ormai accecato, sui cadaveri e a invocarne il nome disperatamente, perché non sa, nella sua cecità e disperazione, che sono già morti: questa è la scena immortalata dalla scultura di Rodin.

                                                Ricostruzione del volto del conte Ugolino 

L'ombra del cannibalismo aleggia su tutta la vicenda del conte Ugolino, non a caso: è logico che, tra l'odio e il ghiaccio infernali, al fondo degl'inferi, il sommo poeta situi come argomento portante l'ultimo confine dei tabù umani, lo sconvolgimento più totale dell'etica. Si tratta di un tabù tanto tremendo che i sopravvissuti delle Ande chiesero l'assoluzione a papa Paolo VI (per quanto difficilmente potessero essere considerati colpevoli). Il racconto di Dante si chiude con una celebre reticenza: poscia, più che 'l dolor, poté il digiuno, frase ambigua, che può significare sia la morte per fame, sia che Ugolino, per la disperazione, si diede al cannibalismo. Nel 2001 le ossa del conte e dei familiari sarebbero state ritrovate nella tomba situata nella chiesa di S.Francesco a Pisa, cappella dei Della Gherardesca; secondo il prof.F.Mallegni, direttore del laboratorio di Paleoantropologia umana dell'Università di Pisa, si trattava di 5 scheletri, uno, di un anziano sui 70-75 anni, privo di denti, due di quarantenni e infine altri due scheletri di ventenni (Ugolino, i figli e i nipoti; per le due coppie di scheletri il DNA può provare che erano fratelli). L'esame del DNA ha rivelato un genoma compatibile al 98% con quello dei discendenti Della Gherardesca, mentre analisi effettuate entro il 2002 avrebbero provato l'assenza dalle ossa di tracce di zinco, segno del consumo di carne nel periodo antecedente il decesso. Invece, le ossa rivelano un prevalere di magnesio, indice di un periodo di inedia a pane e acqua e di malnutrizione poco prima della morte. L'appartenenza delle ossa è stata messa in discussione nel 2008, ma i dati sono ragionevolmente sicuri.


Tuttavia, il cannibalismo rimane il punto più basso della negazione della civiltà, la massima degradazione dell'essere umano, che, a quel punto, viola non soltanto la solidarietà elementare rispetto ai suoi simili, ma rende icasticamente anche la massima perversione e crudeltà: l'assenza totale di carità, per cui l'uomo divora il suo simile. Non è un caso se il cannibalismo fu una delle conseguenze dello stalinismo: a partire dal 1928, ma soprattutto nel 1931-32, il dittatore mise in pratica la sua "soluzione" al problema costante dell'approvvigionamento sulla base della convinzione che i contadini, infingardamente, nascondessero le granaglie; e, quindi, la "soluzione" significò inviare nelle campagne dei funzionari governativi che, come le cavallette, rapinavano ai contadini anche l'ultimo chicco di grano, anche le riserve contro la carestia conservate nello jam, la buca adibita a questo. La grande "carestia di Stalin", che provocò almeno 5 milioni di morti, è considerato il suo crimine più orrendo, perché lui, a differenza di altri dittatori che se la prendono con altri, annientò i suoi. Le regioni più colpite furono le terre nere delle fertilissime steppe del Sud della Russia e dell'Ucraina, dove, non a caso, si moltiplicarono gli episodi di cannibalismo. Ancora negli anni '90 fu giustiziato in Russia un serial -killer, colpevole di decine di delitti e che aveva compiuto anche questo: non sapeva che suo fratello era stato cannibalizzato dai vicini durante la carestia ed, evidentemente, riproduceva quanto la sua famiglia aveva subito. Non è un caso se il grande Aleksander Solzenitsyn, nel suo splendido romanzo Padiglione cancro, definisce Stalin "il Cannibale". Cannibalismo significa soprattutto che tra gli esseri umani non c'è più amore e che gli uni divorano gli altri: è su questa metafora che Truman Capote ha costruito il dramma Improvvisamente, l'estate scorsa, divenuto poi un celebre film di J.Mankiewicz con Elizaberh Taylor e Montgomery Clift.


In fin dei conti, da che mondo è mondo, cibo = amore. La prima cosa che desidero fare, per le persone che amo, è di solito cucinare per loro. A un livello molto più alto, c'è chi, anche in situazioni in cui ormai sembra che prevalga il "cannibalismo", sa farsi ostia e donare amore. E' il caso di padre Massimiliano Kolbe, la cui storia mi piace condividere con i miei studenti.
Padre Kolbe, francescano, era prigioniero ad Auschwitz nel 1941, quando il campo era ancora riservato ai Polacchi (gli Ebrei arrivarono alla fine dell'anno, in quello che poi divenne Auschwitz B; padre Kolbe era nella sezione A). Alla fine di luglio del 1941, nel blocco 14A fuggì un prigioniero e, immediatamente, gli aguzzini nazisti organizzarono una rappresaglia: dieci altri sarebbero morti al suo posto, nel bunker della fame (le esecuzioni non avvenivano più per fucilazione per non sprecare i proiettili). Costretti ad aspettare in piedi, sotto il cocente sole di luglio, la decisione del comandante, i prigionieri videro poi l'SS Fritzsch scegliere a caso dieci di loro: Dieser...dieser....dieser...L'ultimo condannato, Francesco Gajowniczek, si mise ai singhiozzare: - Mia moglie, i miei poveri bambini! Non li rivedrò più!- Allora, con calma, padre Massimiliano si fece avanti e, vincendo la paura della morte per fame, si offrì di prendere il suo posto; incredibilmente, Fritzsch accettò.
Fu così che Francesco fu salvo: nel 1982 era in piazza S.Pietro per la beatificazione di padre Kolbe; padre Massimiliano invece fu rinchiuso insieme agli altri nel bunker della fame, assistendoli uno per uno nella morte e rasserenandoli con la preghiera e con amore. Morì per ultimo, come aveva chiesto pregando, per una puntura di acido fenico il 14 agosto 1941, vigilia dell'Assunzione. Al posto della fame e dell'odio, per cui gli esseri umani si divorano gli uni gli altri, aveva vinto l'amore.


Bibliografia
Dante Alighieri, Divina Commedia. Inferno, cur. G.Giacalone, Roma, Signorelli, 1988.
O.Chlevnjuk, Stalin. Biografia d'un dittatore, Milano, Mondadori, 2016.
Padre L.Kluz, Kolbe e il comandante. Due uomini, due mondi, Bologna, Edizioni dell'Immacolata, 2001.

Qui il link del sito dedicato alla tragedia delle Ande
http://www.viven.com.uy/571/eng/default.asp

La storia come riportata (egregiamente) dalla Wikipedia italiana.
https://it.wikipedia.org/wiki/Disastro_aereo_delle_Ande

Il sito di S.Francesco di Pisa, con un'accurata relazione della storia del conte e delle indagini scientifiche sulla sua tomba:
http://www.sanfrancescopisa.it/la-tomba-del-conte-ugolino-della-gherardesca/

Articolo di Archeologia viva sui dubbi relativi all'appartenenza delle ossa presunte del conte Ugolino
http://www.archeologiaviva.it/2976/ugolino-della-gherardesca-cronaca-di-una-scoperta-annunciata/


domenica 30 settembre 2018

Il conte Ugolino e gli orrori della storia


Il conte Ugolino e gli orrori della storia

La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a' capelli
del capo ch'avea di retro guasto...


                                                       Ugolino e i suoi figli di J.-B.Carpeaux

"La fame fisiologica sofferta sulla terra sembra adeguarsi e continuarsi in logica sequenza nella fame psicologica di cui non sembra mai pago nell'aldilà, inestinguibile quasi come il suo dolore..." così si esprime G.Giacalone nel suo bel commento alla Divina Commedia sul conte Ugolino, celeberrimo protagonista del XXXIII canto dell'Inferno, uno degli ultimi personaggi a comparire sulla scena infernale. Al conte Ugolino ha dedicato alcuni superbi gruppi statuari il grande scultore Auguste Rodin, frutto del suo lavoro di una vita alle Porte dell'Inferno, sugli stipiti delle quali egli raffigurò vari episodi della cantica (come Paolo e Francesca, poi divenuti Il bacio). Altri artisti che hanno rappresentato la tragedia del conte morto assieme ai suoi di fame sono Charles Lobbedez, nel 1856, e lo scultore Jean-Baptiste Carpeaux, nel 1862.


                                                  Charles Delacroix, Dante e Virgilio agl'inferi

Ma chi era il conte Ugolino? Ugolino della Gherardesca, potente feudatario ghibellino, possedeva vasti territori presso Pisa e in Sardegna. D'accordo con il genero guelfo Giovanni Visconti e il di lui figlio Nino, fece prevalere la fazione guelfa a Pisa (orrore per un ghibellino), impadronendosi così del potere sulla città nel 1275: questo è il tradimento per cui è punito nell'Antenora, fra i traditori della patria. Nel 1284, dopo che Genova aveva sbaragliato Pisa nella famosa battaglia navale della Meloria, per indebolire e spaccare la coalizione avversaria egli cedette alcuni suoi castelli a Lucca e Firenze. Quella invece fu l'accusa di tradimento rivoltagli dai nemici e a cui Dante non crede (cfr. vv.84-85): dopo la pace con Genova nel 1288, il capo del partito ghibellino pisano, l'arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini finse di allearsi col conte per farne cacciare Nino Visconti, che non andava più d'accordo col suo parente; era solo una manovra per riprendere il potere e, difatti, il conte stesso fu esiliato. Ma venne poi richiamato dall'arcivescovo con il pretesto menzognero di nuove trattative: e fu allora che venne arrestato e condannato alla tremenda morte per fame nella Torre della Muda, nel 1289, assieme a due figli e due nipoti. Ruggieri ha tradito Ugolino e Ugolino ha tradito Nino Visconti e i ghibellini; i due sono condannati a scontare la loro pena assieme, ma Ruggieri, in più, ad essere roso in eterno da colui che ha fatto morire di fame. "Egli rode all'infinito quel teschio, un dolore infinito rode lui" (cfr. D'Ovidio, Nuovi studi danteschi).

                                                         Il conte Ugolino di A.Rodin

Il canto comincia con alcuni versi resi molto rapidi e incalzanti da una lunga successione di enjambements (vv.1-6); appena comincia a parlare, Ugolino ricorda il suo "disperato dolor", che lo opprime in eterno per la morte crudele dei suoi cari. Eppure, qualcosa di ancora più potente lo spinge a ricordare proprio quel dolore: il desiderio di vendetta e l'odio contro Ruggieri, perché appena lui parlerà, il vescovo traditore ne riceverà infamia. E così comincia un monologo straziante, in cui né Dante né Virgilio interloquiscono mai: è come se Ugolino fosse preso da una tale rabbia e da una tale disperazione, che va avanti a ruota, incapace di fermarsi e sordo a qualsiasi commento. E' come se fosse imprigionato ancora nella Muda, chiuso nella sua angoscia. Non gli importa nemmeno sapere chi è Dante: capisce che è fiorentino, quindi della sua stessa terra di Toscana, e questo gli basta, perché, sicuramente, da Toscano, Dante sa quello che gli è successo e conosce per esperienza la ferocia delle faide che insanguinano quelle città. Il suo tono è urlato: non a caso, ai vv. 40-42, grida una dura domanda retorica a Dante, reo apparentemente di non mostrare ancora una sufficiente commozione davanti alle sventure della famiglia condannata a morte: se non piange per questo, per cosa potrà mai piangere allora? Sembra quasi che Ugolino sia rinchiuso spiritualmente nell'odio e nella disperazione, che non ammettono requie, e psicologicamente in quella "visione a tunnel", che caratterizza chi è nel pozzo fondo dei suoi problemi e non riesce a vedere alcuna via d'uscita.


Ugolino tralascia la narrazione, per così dire, politica dei fatti che lo hanno portato alla condanna a morte e si focalizza sulla parte ignota, ingiustamente dimenticata e più orrida: quel che successe nella Torre della Muda dopo, mentre lui e i suoi aspettavano la morte. Qui Dante tocca uno dei vertici della sua arte, in grado di rendere la sofferenza di milioni di vittime lungo tutto l'arco della storia, fino ai lager e ai gulag. Difatti, come ripeto spesso ai miei studenti, anni fa, a Firenze, quando frequentai brevemente una scuola di recitazione, appresi che il direttore, un attore che aveva lavorato con Fellini, stava organizzando uno spettacolo in cui giustapponeva proprio la lettura dei versi danteschi a testimonianze su Auschwitz e l'Olocausto: il passo del conte Ugolino vi faceva la parte del leone.

Il lettore è introdotto sapientemente nel crepuscolo della cella in cui languono i cinque attraverso il "breve pertugio", la finestrella che è rimasta per loro unico ponte con l'esterno e che permette loro di vedere uno spiraglio di sole: solo da quella luce essi possono indovinare che sono passati 5 mesi ("lune", metonimia). Ed ecco, dall'angoscia onirica in cui essi vegetano, sorgere, suggestivo ed evocatore, un sogno, un incubo. Nessuno viene loro a dire che moriranno: il sogno lo rivela, assieme al sinistro giro di chiavistello che inchiavarda la porta della Torre una volta per tutte al momento in cui avrebbe dovuto invece essere consegnato il cibo (v.46). Anche questa attesa nell'incertezza è lancinante: ai miei studenti ricordo che questo succede ancora ai condannati a morte in Giappone, che ignorano la data dell'esecuzione, così come succedeva in Francia fino al 1981, anno dell'abolizione. La notte in cui alla prigione arrivava la notizia che il presidente della Repubblica aveva rifiutato la grazia, i secondini stendevano un tappeto di feltro fuori della cella del condannato, che dormiva ancora ignaro; quindi si avvicinavano in punta di piedi e scalzi, aprivano la porta senza far rumore e lo placcavano sulla branda per evitare una sua qualsiasi reazione. Il poveretto si svegliava così di soprassalto e apprendeva che era giunta la sua ultima ora. Queste scene orrende sono egregiamente riportate nel film di André Cayatte Nous sommes tous des assassins, del 1952.


Il sogno di Ugolino (condiviso suggestivamente anche dai suoi figli e nipoti, v.45) è una magnifica riedizione del motivo della "caccia infernale". Ripeto qui quanto ho ricordato, anche in questo blog, più volte: la caccia infernale è un motivo folklorico medievale, che deriva dai miti pagani, specie germanici e celtici, secondo cui gli dei andavano a caccia nella foresta la notte con i loro guerrieri. Diventati gli dei dei demoni, nel Medioevo era diffusa la credenza che il diavolo andasse a caccia di vite e anime nella foresta (luogo selvatico e della paura per definizione) durante la notte: e solo le anime pure potevano scorgerlo. In sostanza però, caccia infernale significa più in generale, specie in queste opere letterarie, che un essere demoniaco dà la caccia a un essere umano. Purtroppo, esiste chi lo ha fatto sul serio: i nazisti del campo di Mauthausen si divertivano a lanciare i loro cani contro i prigionieri (in questo caso non Ebrei), pratica sadica che chiamavano Hundeskuss, "il bacio del cane".
Nel sogno di Ugolino, lui e i figli sono rappresentati da una famiglia di lupi, con alle costole l'arcivescovo Ruggieri (un uomo di Dio nella parte del demonio!), assieme alle famiglie nobili di Pisa e ai levrieri. Si noti l'elenco dei cognomi aristocratici al v.32 e il climax di aggettivi al v.33, che rendono l'affanno della corsa; il sogno si interrompe quando le cagne azzannano le vittime, ormai spossate e incapaci di fuggire. (continua).

Crostata golosa di pesche e cioccolata della 5O - The tart with peaches and chocolate of 5O


Crostata golosa di pesche e cioccolata della 5O


Ho inventato questa torta, che è una variante della mia torta di pesche, su richiesta della 5O quando, a giugno, ci siamo salutati dopo 5 anni di lavoro insieme. E' stata una scena epica: io mi sono commossa e ho lasciato l'aula fa uno scroscio di applausi, cui si è unita anche la 5M dall'aula accanto, tanto che le bidelle si chiedevano cosa stesse succedendo. Questa è la torta che ho portato a entrambe le classi. 

Ingredienti

Pastafrolla
Si veda la mia ricetta al seguente link:
http://annaritamagri.blogspot.it/2016/06/pasta-frolla-versione-scientifica.html)

Alcune pesche (fresche o sciroppate)
100 - 150 gr. di farina di mandorle
Biscotti secchi (a piacere)
Due cucchiai di zucchero
Liquore Amaretto

Crema di cioccolata gianduia "Pernigotti" qb


Preparare la pastafrolla come specificato nella mia ricetta, quindi stedere la pasta e inserire il disco nello stampo imburrato e infarinato. Lasciar cuocere per 10 minuti in forno a 180 gradi (con i fagioli o anche un piatto di Arcopal resistente alle alte temperature dentro, per evitare che il fondo si sollevi); quindi estrarre dal forno e lasciare raffreddare.

Quando il disco di pasta è abbastanza freddo, spalmatelo con la crema di cioccolata gianduia, infine, versate nella torta il ripieno di pesche così preparato: sbucciate le pesche (magari dopo averle passate in acqua bollente per 1 minuto, così l'operazione diventa molto più facile e rapida), oppure usate quelle sciroppate; in media servono 4 pesche per torta. Quindi, tagliatele a pezzi e mescolatele con lo zucchero, la farina di mandorle, il liquore e i biscotti sbriciolati (se volete aggiungerli). Infine, passate la torta in forno per altri 25 - 30 minuti circa, facendo attenzione che i bordi di pasta non si scuriscano.

Tutti mi dicono che è deliziosa...


The tart of peaches and chocolate of 5O

I invented this cake, which is a variant of my peach-pie, upon request of my 5th O, when we said goodbye to each other, in June, after five years' work together. It was an epic scene: I was touched, andI left my classroom with applause; even the 5th M joined from the near classroom, so that janitors wondered what was going on. This is the cake I brought to both of the classes. 

Ingredients

Pastry
See my recipe at the following link:
http://annaritamagri.blogspot.it/2016/06/pasta-frolla-versione-scientifica.html)

Some peaches (fresh or in syrup)
100-150 gr. of almond flour
Cookies (to taste)
Two tablespoons of sugar
Amaretto liqueur

Gianduia chocolate cream "Pernigotti"


Prepare the pastry as specified in my recipe, then lay down the dough and place it in a buttered and floured mold. Cook it for 10 minutes in the oven at 180 degrees (with beans or even an Arcopal dish, resistant to high temperatures, inside, just to prevent the bottom of the mold from rising up); then, take it out from the oven and let it cool.

When the dough is quite cold, spread the gianduia chocolate cream on it, then pour the peach filling into the cake; prepare the filling like that: peel the peaches (maybe, after boiling them in hot water for one minute, so that the operation becomes easier and faster), otherwise, use those in syrup; on average, 4 peaches per cake are needed. Then cut them into pieces and mix them with sugar, almond flour, liqueur and crumbled cookies (if you prefer to add them). Finally, put the cake into the oven for another 25-30 minutes, making sure that the edges of the dough don't darken.

Everyone says it's delicious...



martedì 4 settembre 2018

Torta al limone (mia)


Torta al limone

Ecco qui una torta squisita per il rientro a scuola e il ritorno del blog!


Ingredienti
gr. 170-180 di farina setacciata
gr. 120 di fecola
gr. 250 di zucchero
gr. 250 di burro
3 uova
un pizzico di sale
1 grosso limone
1 bustina di lievito

Crema pasticcera

Vedi link: http://annaritamagri.blogspot.com/2015/12/crema-pasticcera.html


Il burro deve essere lasciato fuori dal frigorifero per un'ora ad ammorbidirsi. Mescolare il burro e lo zucchero per creare una crema soffice; quindi aggiungere i tuorli d'uovo. Infine, aggiungere le farine e il lievito setacciati: ho lasciato una quantità di farina oscillante (170-180 gr.) perché bisogna capire sul momento quanta farina aggiungere ed evitare che il composto sia troppo liquido. Infine, aggiungere la scorza grattugiata e il succo di limone e i chiari d'uovo (cui si deve aggiungere un pizzico di sale) montati. Mettere in forno caldo (180 gradi) per un'ora: per evitare che la superficie scurisca, abbassare verso la fine la temperatura a 150 gradi.

Quando la torta è cotta, lasciare raffreddare per una decina di minuti, quindi tagliare a metà (attenzione: l'impasto con il burro tende a sbriciolarsi) e farcire con la crema pasticcera, infine spolverare con lo zucchero a velo. Come è buona per la colazione....



Lemon cake

Here is a delicious cake for the return to school and the return of the blog!

Ingredients

g. 170-180 of sieved flour
g. 120 of starch
g. 250 of sugar
g. 250 of butter
3 eggs
a pinch of salt
1 big lemon
1 sachet of baking powder


Custard

See link: http://annaritamagri.blogspot.com/2015/12/crema-pasticcera.html

The butter should be left an hour out of the refrigerator to soften. Mix the butter and the sugar to get a soft cream; then add the egg yolks. Finally, add the sifted flour, starch, and yeast: I left the amount of flour at taste (170-180 gr.) so you see how much flour you need to avoid that the dough is too liquid. Finally, add the grated rind and lemon juice and the egg whites (with a pinch of salt). Place the cake in the hot oven (180 degrees) for one hour: to prevent the surface from darkening, you may lower the temperature to 150 degrees towards the end.

When the cake is baked, let it cool for about ten minutes, then cut it in halves (attention: the dough with butter tends to crumble) and fill it with the custard, then sprinkle it with icing sugar. How good it is for breakfast...