Fiaba d'amore a S.Pietroburgo
Questa
fiaba è ambientata in una città splendida, affacciata sul Mar Baltico:
S.Pietroburgo, costruita tra i ghiacci dal potente zar Pietro I più di tre
secoli fa. Migliaia di prigionieri furono trasferiti in condizioni disumane a
lavorare all’estremo Nord per l’edificazione della nuova capitale russa e
migliaia vi morirono. Sulle loro ceneri si eresse però la “Venezia del
Baltico”, un misto di armonia neoclassica italiana, soavi colori pastello,
luccicante sciacquio dei canali e morbida luce del Nord, che si posa leggera e
obliqua sugli splendidi edifici fin nelle lunghe, chiare notti estive dell’Artico.
A
S.Pietroburgo, tanto tempo fa, su di una panchina affacciata sulla Neva e sul
panorama della magnifica città, tutte le sere era possibile scorgere seduta una
minuta figura di donna. Era bruna e rimaneva sulla panchina ad aspettare, senza
muoversi, lo sguardo perso sull'acqua; in inverno pareva fissare il candido,
vaporoso volteggiare dei fiocchi di neve sopra la Neva, la cattedrale dei santi Pietro e Paolo e il ponte della Trinità; in estate rivolgeva lo
sguardo al pulviscolo dorato della luce serale che ammantava le cupole delle cattedrali e il Palazzo d'Inverno. Aspettava per un’ora, tra le 10.00 e le 11.00 di sera, poi si
alzava sospirando e scivolava via in silenzio. Proprio come i protagonisti
delle Notti bianche di Fedor Dostoevskij,
che si ritrovavano a parlare su di una panchina nelle lunghe “notti bianche”,
chiare, luminose, di S.Pietroburgo, anche lei pareva obbedire a un appuntamento
segreto. Ma attendeva sempre sola. Solo i gabbiani che volavano e stridevano al
di sopra della Neva potevano conoscere il suo segreto.
Chi
aspettava la misteriosa sconosciuta? La giovane donna attendeva il suo amore,
ma si trattava di un’attesa molto particolare. Mentre fissava le acque turchine
della Neva, assieme agli stridi dei gabbiani, frammenti di un passato radioso
parevano riemergere dall’acqua e dai ricordi: risa e scherzi sui gradini
dell’Università, sguardi timidi e dolci che s’incrociano tra gli scaffali dei
libri e sopra volumi polverosi; la trepidazione che precede un incontro tanto
desiderato, quanto istantaneo ed effimero, stretto dalla tirannia delle
convenienze; labbra che si schiudono al sorriso, ma non riescono a pronunciare
altro delle migliaia e migliaia di parole di cui il cuore trabocca. Lei lo
ricordava così, alto, slanciato tra i suoi libri, con l’aria sempre assorta,
aureolato dal tepore della cultura; così alto, così energico nel passo, eppure
così tenero, quasi fanciullesco nell’incarnato roseo, che s’imporporava
lievemente quando la vedeva e chinava il capo, per riservatezza.
Quei
ricordi così dolci costituivano una sorta di nicchia tiepida nel gelo
dell’inverno nordico; una nicchia ricavata entro la crudele marea della storia che li
assediava da ogni parte. Lei infatti lo aveva conosciuto alla Facoltà di
Diritto, quella che, all’epoca, sotto Stalin, veniva definita dai poliziotti dell'NKDV la “facoltà delle
cose inutili”: le leggi, il diritto, erano cose inutili perché, tanto, sotto
uno Stato totalitario in cui il capriccio del dittatore porta allo sterminio
milioni di persone, in cui si fissano quote per l’arresto e la fucilazione dei
“nemici del popolo”, in cui l’economia si appoggia al lavoro dei gulag e milioni
di contadini sono condannati alla morte per fame, a cosa servono i diritti?
Visinskij, il procuratore generale dello Stato, quello che ordiva per Stalin i
processi farsa del “Grande Terrore”, lo aveva detto chiaramente: a cosa servono
le prove in un processo? Basta la confessione, e confessione ottenuta sotto
tortura.
Per
questo, la facoltà di Diritto sotto Stalin era inutile. Eppure lei l’aveva
frequentata, per i suoi libri e la sua biblioteca, anche se studiava altrove. E così lui. Mentre intorno a loro succedeva tutto questo e
incombeva la scure dell’apocalisse, l’idillio era germogliato nei loro cuori.
Inconfessato, inconfessabile: nutrito di sguardi e di tepidi sorrisi; lieve e
vulnerabile come i petali di un anemone assediato dall’inverno. L'anemone: il fiore del vento e dell'attesa. Mentre il sole
tramontava placido dietro ai tetti di S.Pietroburgo in un mare di fuoco, lei
ricordava quei giorni dei loro primi incontri come i più belli della propria
vita: e le si scioglieva ancora il cuore a pensare a lui, a quanto era bello,
gentile, intelligente, a quanta bellezza e amore i suoi occhi le avevano comunicato
pur nel pudore della loro giovanile timidezza.
E
poi era arrivata la marea, la tempesta. Anche per loro. Per una sciocchezza, lei non
ricordava neanche cosa, tanto si era trattato di qualcosa di insignificante,
anche lui era stato incriminato; e lei si era ritrovata al di fuori di tutta la
barbara trafila, a guardare terrorizzata senza capire: false accuse, tortura,
processo, condanna e poi la scomparsa. Da un giorno all’altro, lui era scomparso. Chissà
dove lo avevano mandato. A lei era rimasta solo l’attesa. L’attesa e la tortura
dell’incertezza. Nel dolore lancinante provocato dal vuoto e dalla paura per
lui – che cosa gli era successo? Chi si occupava di lui? Come mangiava? Chi lo
teneva al caldo? – non le era rimasto altro che pregare. Pregava inginocchiata davanti
alla sfolgorante iconostasi di una chiesa riaperta durante la guerra: fissava i
volti, astratti e paradisiaci, delle icone, rivelatori di un’altra dimensione, così radiosa, così splendente, apparentemente così lontana dalle miserie di quaggiù, eppure così vicina ad
esse per misericordia, e pregava. Pregava che lui stesse bene.
Era
cominciata allora la lunga attesa: l’attesa così meravigliosamente immortalata
da Konstantin Simonov nella sua più bella poesia d’amore:
Aspettami ed io tornerò,
ma aspettami con tutte le
tue forze.
Aspettami quando le
gialle piogge
Ti ispirano tristezza,
aspettami quando infuria
la tormenta,
aspettami quando c’è
caldo,
quando più non si
aspettano gli altri,
obliando tutto ciò che
accadde ieri.
Aspettami quando da
luoghi lontani
Non giungeranno mie
lettere,
aspettami quando ne
avranno abbastanza
Aspettami ed io tornerò,
non augurare del bene
a tutti coloro che sanno
a memoria
che è tempo di
dimenticare.
Credano pure mio figlio e
mia madre
Che io non sono più,
gli amici si stanchino di
aspettare
e, stretti intorno al
fuoco,
bevano vino amaro
in memoria dell’anima
mia…
Aspettami. E non
t’affrettare
Aspettami ed io tornerò
Ad onta di tutte le
morti.
E colui che ormai non mi
aspettava,
dica che ho avuto
fortuna.
Chi non aspettò non può
capire
Come tu mi abbia salvato
in mezzo al fuoco
Con la tua attesa.
Solo noi due conosceremo
Come io sia sopravvissuto:
tu hai saputo aspettare
semplicemente come nessun
altro.
Questa
poesia era stata composta da uno scrittore e corrispondente di guerra per i
soldati dell’Armata Rossa tra cui viveva e che affrontavano tutti i giorni il
fuoco nemico: solo l’amore li poteva salvare dalla morte. Tuttavia, essa poteva
adattarsi a ogni forma di attesa e, quindi, anche a lei: in estate, in inverno,
mentre ormai più nessuno lo aspettava e tutti pronunciavano le frasi saccenti e
vuote della rassegnazione, quando ormai ogni speranza pareva vana, lei continuava ad aspettare. Anche lei
aveva deciso di aspettare con tutte le sue forze, cioè di avere fede. Fede in
lui, fede in Dio, che glielo avrebbe salvato: e per questo, da anni,
fedelmente, si recava tutte le sere su quella panchina, luogo, tanto tempo prima,
del loro primo, unico appuntamento d’amore.
E
lui, ora lo sapeva, da poco era tornato. Era tornato veramente. Vivo. Eppure,
preferiva non vederla. Dapprincipio, per lei fu traumatico: lui era, da poche
settimane, di nuovo a S.Pietroburgo, ma non intendeva vederla; così una
conoscenza comune le aveva riferito. Lei aveva provato a cercarlo, perché
sperava di parlargli: ma inutilmente. Di nuovo, un’altra conoscenza comune le
aveva riferito, in via del tutto riservata, che, a suo parere, lui era troppo segnato
dalla sua prigionia, schiacciato dal peso dei ricordi amari; per questo
preferiva non vederla. Per lei ciò aveva significato un dolore enorme e
l’incomprensione più totale: tanto pregare, tanto attendere sulla loro
panchina, tanto sperare e ora che lui era tornato, vivo, non la voleva vedere!
Perciò lei, all’inizio, era sprofondata in una cupa tristezza.
Poi,
aveva capito. I romanzi ci hanno abituato agli ostacoli più banali nelle storie
d’amore: familiari, motivi d’interesse, divisioni sociali. Ma i veri ostacoli
all’amore vengono da dentro. Quando due creature sono state ripetutamente
ferite dalla vita o dall’odio altrui, si ripiegano su stesse, si rivestono di paura e
vergogna, si sentono incapaci di amare ancora. Le creature ferite rischiano di
rimanere da sole; il male divide e annienta. Anche nello
splendido Padiglione cancro di Solženitsyn,
il protagonista Oleg non incontra più la ex-fidanzata, una volta che entrambi
sono usciti dal gulag, perché il gulag ha scavato tra loro un abisso; e,
analogamente, si sente incapace di ritornare ad amare. Quel muto abisso la
prigionia di lui aveva scavato tra loro: non meno profondo e invalicabile di
quello che tracciavano le autorità quando riferivano alle famiglie: “Dieci anni
senza diritto di corrispondenza”, il che copriva semplicemente d’un velo
omertoso un’esecuzione.
Tuttavia,
dopo la prima crisi di sconforto, lei decise di non perdersi d’animo. E continuò ad aspettare. Inseguirlo
sarebbe stato controproducente; attirarlo a sé non poteva. Allora, proprio come
è detto nella poesia, decise di aspettare, aspettare con tutte le sue forze, di
aspettare come nessun altro. E così lei lo avrebbe salvato dal fuoco, ad onta
di tutte le morti: e lui sarebbe tornato da lei. Aspettare così significa credere, avere fede, nutrire la speranza, perché risorgere dall’ombra della morte è possibile e
ritornare nella luce della resurrezione può
accadere; sperare così non significa ignorare superficialmente le
difficoltà, bensì, proprio perché se ne è coscienti, profondere tutte le
proprie energie per superarle. Alla fine, lei ne era sicura, la sua attesa
avrebbe vinto; lui non era tipo da arrendersi e non si sarebbe mai arreso, purché lei continuasse ad amarlo; era forte, ma dal suo amore avrebbe tratto ancora più forza. E lei avrebbe cucinato per lui la pasta al forno, gli avrebbe
profumato la biancheria e deposto un bacio sulla fronte mentre dormiva. Lei lo
amava come non mai e desiderava soltanto rivedere il suo volto, pulito e
fanciullesco, per carezzarlo dolcemente sulla guancia. Perché l'amore fa miracoli.
Solo
l’amore riporta alla vita. Come dice la poesia Attesa di Raymond Carver:
C’è una casa di tronchi
Con il tetto di tavole, a
sinistra.
Non è quella che cerchi.
E’ quella appresso,
subito dopo una salita.
La casa
dove gli alberi sono
carichi
di frutta. Dove flox,
forsizia e calendula
crescono rigogliose. E’
quella
la casa dove, in piedi
sulla soglia,
c’è una donna
col sole nei capelli.
Quella
che è rimasta in attesa
fino ad ora.
La donna che ti ama.
L’unica che può dirti:
“Come mai ci hai messo
tanto?”
ADF
Note
1) La facoltà delle cose inutili è il titolo del capolavoro di Jurij Dombrovskij, pubblicato nel 1978 e denuncia autobiografica dello stalinismo; l'autore fece un continuo andirivieni tra carceri e gulag. Nel romanzo, il titolo è però riferito alla Facoltà di Diritto di Mosca.
2) Si noti che la chiesa ortodossa ricevette qualche garanzia da Stalin per opportunismo del dittatore solo durante la guerra.
3) La prassi dell'NKDV era di mantenere segrete le esecuzioni e di fornire alle famiglie come unica, laconica spiegazione: "Condannato a dieci anni senza diritto di corrispondenza".
ADF
Note
1) La facoltà delle cose inutili è il titolo del capolavoro di Jurij Dombrovskij, pubblicato nel 1978 e denuncia autobiografica dello stalinismo; l'autore fece un continuo andirivieni tra carceri e gulag. Nel romanzo, il titolo è però riferito alla Facoltà di Diritto di Mosca.
2) Si noti che la chiesa ortodossa ricevette qualche garanzia da Stalin per opportunismo del dittatore solo durante la guerra.
3) La prassi dell'NKDV era di mantenere segrete le esecuzioni e di fornire alle famiglie come unica, laconica spiegazione: "Condannato a dieci anni senza diritto di corrispondenza".
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