lunedì 21 maggio 2018

"Crocifisso sul palo del telegrafo": Quasimodo e la violenza nel Novecento


"Crocifisso sul palo del telegrafo": Quasimodo e la violenza nel Novecento

Una delle poesie più note di Quasimodo, Alle fronde dei salici, recita:

E come potevamo noi cantare           
Con il piede straniero sopra il cuore,
Tra i morti abbandonati nelle piazze
Sull’erba dura di ghiaccio, al lamento          
D'agnello dei fanciulli, all'urlo nero
Della madre che andava incontro al figlio                            
Crocifisso sul palo del telegrafo?                              
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,            
oscillavano lievi al triste vento.         



Questa poesia molto nota e tratta dalla raccolta Giorno dopo giorno, pubblicata nel 1947, è un valido esempio della poesia del secondo Quasimodo, quella che gli ha probabilmente attirato maggiori consensi e spianato la via al Nobel del 1958: al primitivo ermetismo, più arduo e che attinge a temi assoluti, mitici, il poeta unisce la riflessione sulla contemporaneità e sulla società del Dopoguerra. Qui però medita sulle devastazioni prodotte dall'invasione tedesca della Seconda Guerra Mondiale: e la lirica di Quasimodo densa di immagini, ma di immagini che risultano, in fin dei conti, semplici e senza tempo, evoca il dominio sprezzante del nemico (la metonimia con il piede straniero sopra il cuore) e le vittime delle sue atrocità in vario modo: i morti abbandonati nelle piazze, poi la metafora dell'agnello che si lamenta prima di essere condotto al macello ed è termine di paragone per i bambini, infine la forte sinestesia l'urlo nero /della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo. Quasimodo usa volutamente il vocabolo "crocifisso" per rimandare al motivo della crocifissione di Cristo; del resto, anche l'immagine dell'agnello rinvia a Lui (si legga la profezia di Isaia 53, 7, come un agnello condotto al macello... applicata a Lui; qui sotto la splendida resa nell'Agnus Dei di Francisco de Zurbaran, 1635-40).



Il filo unificante della poesia è costituito da un "pre-testo", cioè un testo che serve da modello e riferimento: il salmo 137, ovvero "salmo dell'esiliato" (qui vv. 1-4):

Sui fiumi di Babilonia,
là sedevamo piangendo 
al ricordo di Sion. 
Ai salici di quella terra
appendemmo le nostre cetre. 
Là ci chiedevano parole di canto
coloro che ci avevano deportato,
canzoni i nostri oppressori: 
"Cantateci i canti di Sion!"
Come cantare i canti del Signore
in terra straniera?

Gli Ebrei portati in esilio a Babilonia dopo la sconfitta del 586 a.C. non possono più intonare i canti del Tempio distrutto di Gerusalemme e vengono scherniti dai loro carcerieri, che domandano loro proprio quei canti; così essi appendono ai salici (si noti, piangenti) le loro cetre, strumento tipico di accompagnamento del culto interrotto. Nella lirica di Quasimodo, la cetra rappresenta la poesia, muta davanti alle atrocità della guerra; e l'ultima, bellissima immagine dei versi è proprio quella delle cetre che dondolano tristemente al vento, un vento "triste" (ipallage). Quasimodo era molto sensibile al tema dell'esilio: qui è come se ritraesse la sua terra, l'Italia, in esilio da se stessa a causa di una crudele invasione. Che l'autore sia stato affascinato proprio dal "canto biblico dell'esiliato" è sintomatico. 

Qui vorrei soffermarmi soprattutto sull'immagine, molto densa, del "figlio crocifisso sul palo del telegrafo", triste spettacolo di troppi massacri novecenteschi. Essa porta a compimento una specie di climax di immagini di morte. Il primo parallelo che mi viene in mente è un particolare di Guernica di Picasso, la celebre tela a olio in bianco e nero che rievoca la Guerra Civile spagnola e il terrificante bombardamento della Luftwaffe sull'omonima cittadina basca del 26 aprile 1937: un quadro volutamente brutto, per rappresentare le brutture del conflitto. Mi riferisco qui alla madre che regge il figlio bambino tra le braccia e si dispera, una versione cubista del motivo tradizionale della Pietà o della Madonna col Bambino.



Come nella lirica di Quasimodo, il riferimento al Cristo è implicito: Lui è la vittima per eccellenza a cui tutte le vittime innocenti sono assimilate. Lo stesso avviene in un altro celeberrimo quadro, anch'esso denuncia di una guerra insana, quella napoleonica d'invasione della Spagna del 1808: 3 maggio 1808 di Francisco Goya. Il quadro rappresenta, assieme al 2 maggio 1808,  la resistenza madrilena contro i Francesi e le successive fucilazioni: sullo sfondo di una Madrid buia, un nucleo di fucilieri senza volto, si direbbe senz'anima, punta il fucile contro un gruppo inerme di ribelli. Già alcuni cadaveri sono riversi nel sangue a sinistra, ma tutta l'attenzione è attirata dal'unico punto bianco del quadro, un uomo ritratto volutamente con le braccia alzate come un Crocifisso e rivestito di  una camicia bianca. Anch'egli è una vittima innocente che sta per morire. Il quadro fu realizzato nel 1814, dopo che le guerre napoleoniche erano ormai finite (salvo Waterloo).



Sempre Goya ha realizzato, con un anticipo strabiliante rispetto ai massacri del Novecento, una serie di stampe eseguite  nel 1820, I disastri della guerra, in cui dettagliava gli orrori dell'invasione napoleonica. Una, terrificante, assomiglia proprio all'immagine offerta da Quasimodo: 


Si noti il soldato francese che osserva l'impiccato, senza dar segni di sentimento alcuno, indifferente. 
Purtroppo, però, di "crocifissi sul palo del telegrafo" nel corso del Novecento ce ne sono stati tanti: proprio i telegrafi, simbolo di modernità, sono divenuti spesso, troppo spesso, delle sinistre forche (del resto, già all'epoca della Repubblica romana, gli schiavi insorti con Spartaco erano stati crocifissi lungo tutta la via Appia). Qui sotto una foto che rappresenta corpi di partigiani uccisi ed esposti in pubblico a Ravenna nel 1944 a opera dei nazi-fascisti. E si ricorderà come la scena si ribaltò quando vennero uccisi Mussolini e i suoi. Al di là delle intenzioni dei partigiani, i corpi del Duce, della Petacci e di altri furono appesi alle filanie di Piazzale Loreto ed esposti al pubblico ludibrio come già era successo a tanti prima di loro.



Sotto invece una tristissima immagine del Viale dei Martiri di Bassano del Grappa, dove, il 26 settembre 1944 furono esposti i corpi di 31 giovani della Resistenza trucidati dai Tedeschi. Al ritorno da Berlino, alcuni dei miei allievi di 5O, tra cui Sofia, mi hanno mostrato delle foto analoghe di partecipanti della Resistenza ucraina impiccati ai pali del telegrafo al passaggio della Wehrmacht. 



Ma non è tutto. La pessima abitudine di appendere i giustiziati ai pali del telegrafo come monito atroce per la popolazione si era già diffusa nel Messico devastato dalla guerra cristera, la rivolta scoppiata nel 1926 e terminata nel 1929, dopo che una legislazione violentemente anti-cattolica era stata imposta dall'élite governativa liberale al paese fin dal 1917, poi applicata con la forza nel 1926. Si noti che i fedeli messicani reagirono dapprincipio con la non violenza e solo dopo numerose vessazioni alcuni si diedero alla macchia ed alla resistenza armata. In una scena del bel film Cristiada, del 2012, che ripercorre le vicende della rivolta, un rappresentante della conferenza episcopale del Messico sta cercando di trattare su di un treno con l'ambasciatore americano (che rendeva possibile il rifornimento di armi al governo), per giungere al termine del conflitto. A un certo punto, il treno ha un sobbalzo e si ferma: dal finestrino è visibile una scena identica a quella fotografata qua sotto. Numerosissimi sacerdoti e laici fecero questa fine semplicemente perché erano cattolici. Si calcola che la guerra provocò tra i 70.000 e gli 85.000 morti: morti di cui nessuno parla mai...


Dato che ci sono inserisco qui il link del trailer del film, che annovera tra i suoi protagonisti Andy Garcia, Peter O'Toole ed Eva Longoria. 

giovedì 3 maggio 2018

Un giardino alla rovescia: "Meriggiare pallido e assorto" di E.Montale



Un giardino alla rovescia: "Meriggiare pallido e assorto" di E.Montale

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche. 



Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.



La poesia più nota, forse, del Novecento italiano, è stata tra le prime redatte da Montale: nel 1916, prima di partire per il fronte, il poeta aveva solo vent'anni e compose questa lirica, poi inserita negli Ossi di seppia. Come si sa, la prima raccolta di Montale, pubblicata nel 1925, immerge la lirica nel paesaggio salmastro e scosceso delle Cinque Terre, dove lui passava le estati al mare con la famiglia; proprio quel paesaggio diventa un repertorio di immagini per rappresentare la vita e la sua asprezza.
Qui, gli elementi del paesaggio diventano cifra dell'ardua condizione esistenziale dell'essere umano; e Montale non cessa, per tutta la vita di interrogarsi su questioni di carattere filosofico, esistenziale, spirituale. Nel corso degli anni egli definisce se stesso "nestoriano smarrito": lo smarrimento si coniuga alla definizione dell'eresia che separava eccessivamente l'umanità dalla divinità di Cristo. Un po' come gli antichi epicurei, Montale ritiene che gli dei, se anche esistono, si disinteressano dell'uomo. Questa lirica diventa allora una metafora della vita.


La poesia di Montale è filosofica. Si pone alcune questioni fondamentali: conoscere la verità e il senso della vita. Montale è una specie di scettico e, talora, amareggiato Ponzio Pilato che chiede al Cristo: "Che cos'è la verità?". Protagonista della crisi del Novecento, grande lettore della filosofia antica, moderna e contemporanea, soprattutto di Schopenauer, ma anche di Leopardi, l'autore dubita che si possa arrivare mai da un lato alla verità, dall'altro al senso della vita; e questo rappresenta instancabilmente nelle sue poesie. In Schopenauer trovava l'idea che i fenomeni sono illusione, coperti come sono dal "velo di Maya" (Il mondo come volontà e rappresentazione, 1818), mentre l'uomo è abitato da un'insaziabile, irrazionale volontà che anima la sua esistenza; in Leopardi, invece, egli rinveniva l'idea della "natura matrigna" (quasi un controcanto alle Myricae di Pascoli, ha osservato A.Marchese).


Ma Montale, che si potrebbe definire, in senso lato, "esistenzialista" (non come appartenente all'omonimo movimento filosofico, ma in quanto interessato al dibattito sull'esistenza), conosceva e amava anche altri autori intrisi di anti-intellettualismo e di una paradossale consapevolezza dei limiti della ragione: Pascal, il russo Sestov, Kierkegaard, Doestoevskij. Si era avvicinato alla tormentata riflessione religiosa modernista, grazie alla sorella Marianna (che gli faceva da chioccia e condivideva con lui molte letture) e a sacerdoti barnabiti da cui lei si faceva consigliare, come padre Trinchero. Tra l'altro, Montale si sentiva un "inetto", inadeguato alla vita pratica quotidiana (quasi una trasposizione del motivo sveviano): assediato dalla malinconia, ironico, consapevole dei suoi limiti, l'autore si è in seguito descritto come in "totale disarmonia con la realtà" (cfr. Il secondo mestiere. Arte, musica e società, raccolta dei suoi interventi sul Corriere della sera). Proprio per questo motivo, da giovane fu attratto dalla lettura del diario di un autore molto vicino a questa sensibilità da "inetto", i Fragments d’un journal intime di Henri-Frédéric Amiel (1821-81).


Il giovane poeta ha respirato vari influssi letterari coevi: dalla triade Pascoli, D'Annunzio (quello del Poema paradisiaco), Gozzano, dedita a una poesia sintatticamente più semplice e prosastica, al frammentismo vociano, da Sbarbaro, altro ligure (Pianissimo), ai geni simbolisti Baudelaire e Rimbaud, che lui adorava; addirittura, del simbolismo egli recepisce la commistione artistica e il gusto per la sinestesia, tanto che, colpito da Debussy, sogna di fondere poesia, colori e musica.
In seguito, l'autore, per definire  meglio la sua poetica, ha parlato di "correlativo oggettivo", alla maniera di Thomas Eliot nella Waste Land. Il correlativo oggettivo è semplicemente un oggetto che, evocato in poesia, suscita emozioni nel lettore come le ha suscitate nel poeta. Non è propriamente un simbolo: i simboli sono forme che rinviano a una molteplicità di contenuti e traslati. Non è neanche del tutto un'allegoria: l'allegoria è una forma che rinvia a un contenuto traslato preciso. Metafore e similitudini, invece, sono procedimenti retorici che mettono in comunicazione insiemi semantici, di significati, diversi (ad es., "i capelli d'oro" connette l'insieme dei metalli preziosi con quello del corpo umano"), arricchendo così il discorso. 


Ma qui è diverso. Gli oggetti sono veri, reali: essi evocano però sensazioni del soggetto. Giustamente, la poesia di Montale è stata collegata all'arte metafisica di De Chirico: precisa, netta, essa delinea oggetti e luoghi di tutti i giorni, come piazze e monumenti; ma li sospende in un'atmosfera al di fuori del tempo e quei luoghi od oggetti assumono una valenza che va al di là di loro stessi. Sono "metafisici" appunto. Anche gli oggetti di Montale evocano sensazioni al di là  di loro stessi.Solo, sono oggetti molto comuni, che di solito non appartengono al pantheon delle metafore poetiche consacrate dalla tradizione. Oppure sì? Inoltre, proprio perché provengono dalla soggettività del poeta, non dalla tradizione, trasmettono collegamenti e sensazioni unici. Eppure, stranamente, sulla pagina di Montale assumono un valore senza tempo.


In questa poesia, l'io lirico delinea una sua passeggiata nella natura ligure: lo stile è ellittico, senza verbi reggenti, e la poesia consiste di un cumulo di infiniti che, accostati gli uni agli altri descrivono le azioni di lui o della natura. Così, sembra che tutto sia sospeso fuori dal tempo, proprio in una dimensione metafisica. E' un pomeriggio assolato, vicino a un muro arroventato (che ritorna, non a caso, ad anello alla fine); la natura si riassume nel verso dei merli e nel fruscio dei serpenti, in radi cespugli e sterpi. A mio modesto avviso, i pruni e sterpi del v. 3 non sono privi di echi del XIII dell'Inferno dantesco, in cui l'orrida flora della selva dei suicidi è costituita proprio da pruni e sterpi; anche le serpi appaiono sinistre. Del resto, si noterà che Montale impiega qui molte sonorità aspre, un po' come le stesse rime petrose di Dante, così tipiche dell'Inferno. Spesso (scricchi, schiocchi) si tratta di dure onomatopee. Insomma, il giardino che vuole descrivere il poeta è pieno di risonanze di morte, quasi infere.


In mezzo a questa natura desolata, inaridita, Montale (che molto conosceva sia di botanica, che di entomologia), contempla le file di minuscole formiche: così minute e impotenti, esse ricordano la piccolezza degli esseri umani, che si affannano ugualmente senza posa. E mentre, nella terza quartina, si leva il frinire delle cicale nel meriggio assolato, l'io lirico contempla in lontananza il mare, descritto splendidamente nel suo ondeggiare dalla metafora "scaglie di mare". Si ricordi che il mare, in Mediterraneo, poemetto in parti che appartiene agli Ossi, rappresenta la violenza della vita; e tutto questo paesaggio assetato rinvia a una condizione esistenziale difficile, assetata anch'essa. L'ultimo correlativo oggettivo è proprio il muro: come tanti muri di proprietà liguri, esso è incoronato da cocci di vetro con funzione deterrente: quel muro rappresenta l'impossibilità di trovare il famoso "varco", la via verso la verità e il senso della vita e del suo travaglio (si noti la lunga serie di assonanze in gl dell'ultima strofa, di 5 versi).


I correlativi oggettivi qui impiegati sembrano inusuali: e certo il panorama ligure era inusuale nella poesia italiana, a parte forse il precedente di Camillo Sbarbaro. Eppure, questo strano paesaggio, accecato dal sole e pieno di animali striscianti, sembra un locus amoenus alla rovescia. Non giardini, acque, fontane, erba, fiori: ma un'immagine desolata, di sterpi, biscie, terra inaridita, formiche e il mare, minaccioso, ma evocatore, lontano. E qui vale la pena ricordare ancora Leopardi.
Nel 1826, mentre era a Bologna (il 19 aprile), egli compose una pagina celeberrima dello Zibaldone, detta "Il giardino della sofferenza", in cui ribalta la tradizionale e idilliaca immagine del locus amoenus.

Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare....

La natura è ormai completamente matrigna. Nel mondo non esiste armonia: esiste solo il dolore e il male, universale.

domenica 15 aprile 2018

Il mio nuovo libro - Anguera aveva ragione


Il mio nuovo libro - Anguera aveva ragione

Cari Amici,
ecco qui il mio nuovo libro, pubblicato dall'editore Fede e Cultura, di Verona, nello scorso gennaio:

http://www.fedecultura.com/p/vetrina_30.html#!/Anguera-aveva-ragione/p/99766424/category=0




Questo libro è il frutto di 5 anni di ricerche e di un'analisi attenta e rigorosa dei messaggi che la Vergine darebbe, dal 29 settembre 1987, a un signore oggi di mezza età, allora diciottenne, Pedro Regis, ad Anguera, diocesi di Santana de Feira, presso Salvador Bahia in Brasile. Ho potuto incontrarlo più volte, parlare con lui e ne ho ricavato la convinzione che si tratti di una persona equilibrata. Inoltre, i messaggi contengono una vasta serie di appelli a costruire una vera e propria "civiltà dell'Amore" che l'Apparsa tratteggia con accenti accorati, perché ci vuole "felici in questa vita e nell'altra". Essi si mostrano del tutto fedeli alla dottrina cattolica e insistono sulla preghiera, l'amore vicendevole, la fedeltà alla Chiesa, la frequenza ai sacramenti, l'amore per gli ultimi e i poveri. 



                                                             Col veggente, il sig.Pedro Regis

I messaggi superano ormai i 4.000 e comprendono anche un ricco insieme di profezie, probabilmente il corpus profetico più importante dell'ultimo secolo. Uno in particolare riprende il dettato del famoso Terzo Segreto di Fatima. Per studiarle, le ho raggruppate per argomenti, verificate nell'originale portoghese, analizzate e confrontate con i testi biblici, quindi con una ricca bibliografia di carattere geopolitico. Effettivamente, il quadro che ne esce è attendibile e compatibile con gli eventi di questi ultimi anni: sono profezie che si stanno progressivamente avverando. Il mio auspicio è che questo studio possa favorire l'evangelizzazione ed il lavoro della commissione istituita dal vescovo di Santana de Feira, mons. Zanoni Demettino Castro.

Chi fosse interessato all'acquisto può direttamente rivolgersi a me, oppure acquistare l'e-book o il cartaceo sul sito dell'editore al link sopra. Alcune copie sono disponibili anche alla cartoleria Mazzoni in via Pomposa a Ferrara e in altre librerie. 


lunedì 9 aprile 2018

La Passione (2)

La Passione (2)

Il processo ebraico

Una delle scene più impressionanti della Passione di Mel Gibson è proprio quella del processo ebraico. Mattia Sbragia, il bravissimo attore che interpretava Caifa, disse che, al vederla, era rimasto "sconvolto". La scena tradisce infatti l'astio e la violenza che contraddistinsero il processo di Gesù, come spesso succede a tutti i processi capitali. Al termine della seduta, i presenti cominciano a picchiare Gesù e a sputargli addosso, per quanto Lui sia del tutto indifeso e legato (e i Vangeli riportano che aveva già ricevuto un pesante schiaffo da una guardia, cfr. Gv. 18,22, senza contare le botte già ricevute dagli sgherri del Tempio).



La gente ignora che cosa siano sul serio i processi capitali. Molti pensano che, durante un processo con eventuale condanna a morte, sia possibile godere della dovuta serenità e agire con distacco: non è affatto vero. L'atmosfera è consuetamente inquinata da odio e disprezzo crescenti per il condannato. Di solito, giurie e giudici si radunano con un forte pregiudizio negativo contro l'imputato e, troppo spesso, più o meno inconsapevolmente, fanno questo "ragionamento": "Abbiamo già deciso che dobbiamo condannarlo a morte, poi troveremo la motivazione". Nel caso di Gesù è andata evidentemente proprio così: prima Gesù è stato arrestato, poi gli astanti hanno cominciato a discutere sulle cause per ritenerlo reo di morte. Di qui l'affastellarsi di varie accuse, non ritenute però dal Sommo Sacerdote pienamente soddisfacenti. Erano accuse false (cioè prnunciate con cuore falso, pur utilizzando elementi di verità): un peccato gravissimo per Esodo 20,16. Ricordiamo che non tutti i reati passibili di morte nel diritto giudaico valevano per i Romani, gli unici che detenevano, essendo la Giudea occupata da loro, la giurisdizione per giustiziare qualcuno (cfr. Gv. 18,31). E i Romani erano, ovviamente, alieni alle sentenze per motivi religiosi.


Vale la pena allora ricordare brevemente la situazione politica della Giudea di allora. L'attuale Palestina era suddivisa in varie zone: la Galilea, ad esempio, era affidata al tetrarca (= re di una quarta parte del territorio) Erode Antipa, figlio di Erode il Grande. La Giudea, invece, era governata dai Romani, da un prefetto, quindi da un personaggio di rango equestre, un cavaliere, non un senatore, direttamente dipendente dall'imperatore (che, a quell'epoca, era Tiberio) e che risiedeva nella città costiera di Cesarea. Come vedremo, allora si trattava di Ponzio Pilato, che, per le feste, si recava a Gerusalemme. I Romani, come sempre, cooptavano le classi dirigenti dei popoli conquistati per governare la regione con la loro collaborazione: e, di regola, le élites avevano il loro tornaconto a cooperare. Nel caso della Palestina, i Romani avevano ottenuto la collaborazione dei sadducei, l'aristocrazia, soprattutto sacerdotale, ma anche laica, che possedeva buona parte delle terre e controllava il Sinedrio ("seduta"), cioè il consiglio di governo di 71 membri a capo della politica interna e più alto organo religioso e giudiziario di Israele. Il Sinedrio contava anche dei farisei ed è possibile che fosse diviso in commissioni minori: si riuniva quotidianamente e pubblicamente nella Sala delle Pietre Squadrate, presso il Cortile dei Sacerdoti nel Tempio. Tuttavia, all'epoca di Gesù era dominato dai sadducei. 

                                                               Trinità di Masaccio, 1428

Sono i sadducei (che poco compaiono nei Vangeli) i veri responsabili della morte di Gesù, più che i celebri farisei, i dottori della legge più simili a dei "borghesi", specialisti della Torah, la Legge d'Israele. Sono i farisei quelli che discutono perennemente di halakhah, applicazione della Legge, con Gesù e che nei Vangeli appaiono così rigidi; in realtà avevano molti meriti e sono loro che hanno letteralmente salvato il giudaismo dopo la catastrofe della distruzione di Gerusalemme da parte dei Romani nel 70. Il giudaismo focalizzato sulla sinagoga risale a loro e molto il cristianesimo ha in comune con loro, come la fede nell'immortalità dell'anima e nell'esistenza degli angeli. I sadducei, invece, che costituivano il grosso dei sacerdoti, sono scomparsi col Tempio. E sono proprio loro, quelli che non credevano nell'immortalità dell'anima perché si attenevano solo al Pentateuco - dove di questo non si parla - e che perciò rivolgono a Gesù una bizzarra domanda (cfr. Mt. 22,23-33), sono loro, i ricchi e i potenti, che hanno voluto Gesù morto. Lui ha turbato il Tempio cacciandone i venditori (cfr. Gv. 2,12-33), cioè i traffici che vi si svolgevano e da cui l'aristocrazia sacerdotale ricavava lauti guadagni. Inoltre, devono avere ritenuto Gesù un disturbo all'ordine costituito e a loro favorevole. L'azione dei sadducei, più discreta e surrettizia, è stata quindi tanto più micidiale.

                                        L'esterno della tomba di Anna, il sommo sacerdote

Da anni, la carica di Sommo Sacerdote era appannaggio della famiglia di Anna, nominato nel 5 e deposto nel 15 d.C., ma ancora potente; ed era passata, di volta in volta, ai suoi 5 figli alternativamente. Anna non doveva tuttavia essere molto soddisfatto dei figli, perché il membro della famiglia che resistette più a lungo in carica fu l'astuto Caifa, il genero, dal 18 al 37 d.C. Tutti costoro avevano praticamente comprato la carica dai Romani, che trattenevano anche la preziosissima veste del Sommo Sacerdote, adorna di pietre preziose. Quando Gesù fu arrestato al Monte degli Ulivi, le guardie del Tempio (che godevano pessima fama presso la popolazione ed erano considerati dei veri e propri sbirri senza scrupoli) lo trasportarono alla dimora di Caifa, nel quartiere elegante del Sisto, presso il Santuario; si tratta della Città Alta, dove gli archeologi hanno ritrovato dimore decorate da mosaici ed affreschi, ampie cantine dove veniva ammassato il cibo e ricco vasellame in ceramica; numerose anche le cisterne per l'acqua, indispensabile per le numerose abluzioni. Giovanni, però, registra anche un incontro preventivo di Gesù con Anna (cfr. Gv. 18,13 e 24). Nella parte meridionale della valle di Hinnom, che separa il Monte Sion dalla collina di Abu Tor, gli archeologi hanno ritrovato i resti della tomba del Sommo Sacerdote Anna, identificata grazie alla descrizione del sito lasciata da Flavio Giuseppe; 3 km più in là, nella foresta di Gerusalemme, è stata ritrovata anche la tomba di Caifa. La decorazione sontuosa rimasta in stile ellenistico, lascia capire che i resti odierni erano sovrastati da un imponente monumento in mattoni: e l'ingresso, non casualmente, ripeteva il modello del Triplo Ingresso al Tempio. 


                                                     Crocifisso di W.Congdon

A proposito delle norme sui processi celebrati dal Sinedrio, abbiamo il trattato del Talmud Sanhedrin, il cui contenuto è databile alla fine del I, inizio del II secolo d.C., dopo la caduta di Gerusalemme. Non possiamo essere sicuri che queste regole valessero anche all'epoca di Gesù, ma è probabile. Comunque, secondo il Sanhedrin, le adunanze notturne non erano valide, perché mancavano i requisiti ed era verosimile che non tutti i membri potessero essere raggiunti e convocati regolarmente; in effetti, Luca 22, 63-71 registra un prolungamento della seduta al mattino, come se essa fosse stata necessaria per convalidare il tutto. Il grosso della seduta è avvenuto però di notte e questo era probabilmente irregolare. Non solo: non si potevano tenere sedute nei giorni di festa e il sabato (!), nè condannare qualcuno dopo un solo giorno. Insomma, la  procedura è stata violata più volte nel caso di Gesù, per cui si può parlare a stento di un processo. Se ritorniamo alle accuse, si ricordi quella secondo cui Lui avrebbe promesso di distruggere il Tempio e di ricostruirlo in 3 giorni, un attacco gravissimo al Santuario, secondo gli Ebrei; oppure quella di magia. Nella tradizione ebraica già vista, riportata proprio dal Sanhedrin, Gesù infatti compiva dei miracoli grazie alla magia, proibita dal Levitico. 

                                                           Crocifissione di Giotto

L'accusa però che finisce per prevalere è quella di bestemmia "in flagranza". Stanco delle inutili discussioni degli astanti, discussioni che no portano a nulla, Caifa decide di chiedere a Gesù direttamente: "Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?" (Mc. 14,61: "Benedetto" è un termine che sostituisce il Nome di Dio, impronunciabile). In realtà, è una domanda a trabocchetto: Caifa è ben consapevole di come risponderà Gesù ed è intenzionato a non prendere seriamente in considerazione la Sua risposta affermativa. L'idea che il Messia sarebbe stato figlio di Dio era diffusa, ma intesa in senso generico: un po' come per tutto Israele, figlio di Dio per traslato. Qui invece, Gesù rivendica nientemeno che la divinità di persona, commettendo una blasfemia, cioè intaccando il dominio esclusivo di Dio (come quando perdona i peccati ai malati). Difatti, appena Gesù risponde: "Sono Io" (il Nome di Dio), Caifa si straccia le vesti (gesto di massima costernazione). A quel punto, il Sinedrio decreta che Gesù è reo di morte (continua). 


lunedì 2 aprile 2018

La Passione (1)


La Passione (1)

Il 7 aprile del 30 d.C., su di un'altura situata fuori dalla porta occidentale di Gerusalemme, il Golgotha, avvenne un'esecuzione fuori dell'ordinario, di un Uomo, umile, ma fuori dell'ordinario. Conosciamo quella data perché è l'unica entro il periodo di governatorato di Ponzio Pilato in Giudea (26-36 d.C.), a parte il 33, in cui la Pasqua sia caduta di sabato, come riferisce Giovanni (il 33 appare un po' troppo spostato verso la fine del governo di Pilato). In queste puntate del mio blog riferirò i dati storici sulla Passione di Gesù, come sfondo per la meditazione sulla Pasqua.  

Abbiamo varie fonti in merito. Innanzitutto, i 4 Vangeli: anche se il loro scopo è teologico, cioè parlare di Dio, la loro base è storica; infatti, la predicazione evangelica non avrebbe valore senza una solida base storica, è fatta di storia. Del resto, l'archeologia ha fornito loro varie conferme. I Vangeli sono stati scritti pochi decenni dopo i fatti: Marco per la comunità cristiana di Roma, intorno al 60 d.C., Matteo evidentemente in ambiente ebraico, tra 70 ed 80 d.C., mentre Luca da un cristiano di origine gentile, un Greco, per dei Greci, più o meno alla stessa epoca. Si capisce anche che Luca non è testimone diretto dei fatti, ma, come del resto afferma lui stesso nel suo proemio, si è fatto raccontare gli eventi stessi da testimoni. Infine Giovanni, il più arduo a livello teologico e il più tardivo, redatto intorno al 90, appare tuttavia quello che, più degli altri, riporta dettagli storici di prima mano: risale a un testimone oculare e proviene da un ambito giudaico. Dettagli sulla Passione sono riportati anche nel resto del Nuovo Testamento, per esempio nelle epistole di S.Paolo, mentre molto poco contano gli scritti esclusi dal canone, i cosiddetti apocrifi, con l'eccezione di uno, degl'inizi del II secolo, il cosiddetto Vangelo di Pietro, che riprende in gran parte la struttura dei Vangeli canonici.


A proposito: spesso i media ci favoleggiano sopra, ma gli apocrifi sono invariabilmente più tardivi, spesso anche molto più tardivi dei Vangeli; soprattutto, parecchi di quelli collocabili tra II e III d.C., sono pieni di speculazioni esoteriche gnostiche su fantomatici enti spirituali e, quindi, ben lontani da ogni narrazione storica; quelli dal IV secolo in poi sono invece fortemente leggendari. In proposito, vorrei ricordare un aneddoto. Alcuni anni fa, quando ancora abitavo in Svizzera, la veglia di Natale fui invitata a cena assieme al parroco da una parrocchiana della comunità in cui lavoravo come assistente pastorale. Durante la cena, il figlio maggiore della padrona di casa, un giovanotto sulla ventina, cominciò a pontificare che la Chiesa aveva nascosto gli apocrifi per celare chissà quali segreti, ecc. ecc. ecc. Io, che assistevo regolarmente alle riunioni dell'AELAC (Association pour l'étude de la Littérature Apocryphe Chrétienne, il gruppo di studio internazionale sugli apocrifi), lo lasciai dire, poi intervenni: "Scusa, ma li hai mai letti?" Evidentemente, no. "Bene, ripresi, in certi apocrifi c'è scritto, ad esempio, che Gesù, da bambino, fulminava e faceva morire gli altri bambini che giocavano con Lui, perché avevano osato offenderlo con qualche dispettuccio". Il giovanotto tacque di colpo e abbandonò l'argomento. In definitiva, gli apocrifi sono testi molto interessanti, ma raramente appartengono al genere letterario storico-narrativo e sono perciò affidabili a livello di cronaca.


                                                  Il Monte degli Ulivi con la relativa chiesa
Oltre a queste fonti, esistono però anche alcuni riferimenti alla Passione in autori non cristiani: lo storico romano Tacito (Annales 15,44) cita Cristo e la sua morte per ordine di Pilato in margine alla persecuzione dei cristiani da parte di Nerone; poi anche Flavio Giuseppe, lo storico ebraico dell'epoca della rivolta del 70, parla di Gesù in Antichità giudaiche, 18,3,3,63-64, il cosiddetto Testimonium flavianum, che contiene qualche rimaneggiamento cristiano. Tralascio invece qui le fonti provenienti dal Talmud, più tardive, a parte il trattato Sanhedrin 6,1 che riferisce la morte di Gesù in modo molto diverso, ma incompatibile con l'incontrovertibile giudizio romano attestato da più fonti: si parla di lapidazione e impiccagione, dopo una divulgazione della sentenza durata 40 giorni! Tuttavia, il Talmud conferma che Gesù fu ucciso la Parasceve, il giorno di preparazione della Pasqua. Infine, e soprattutto, abbiamo una marea di dati archeologici. Bisogna ricordare, in particolare, che molto luoghi venerati in Terra Santa sono stati recintati già alla fine del I o inizi del II secolo, quando ancora le  persone sapevano con precisione che cos'erano, quindi furono isolati perché sottoposti a venerazione dai pellegrini: la datazione può essere ricavata dall'analisi epigrafica dei graffiti che i pellegrini ci lasciavano sopra. Ecco quindi come è stata isolata la grotta che rientrava  nell'abitazione della Madonna a Nazareth, così come la zona del Santo Sepolcro e del Golgotha, oggi compresi nella basilica. Ma ora veniamo al racconto vero e proprio della Passione, a partire dal momento in cui Gesù, accompagnato dai Dodici, lascia il Cenacolo (quasi sicuramente collocato nella zona a SE della città), per attraversare il Cedron, il torrente che circonda la rocca, ed avviarsi verso il Monte degli Ulivi.


Qui Gesù raggiunge un giardino chiamato Gethsemani, cioè "frantoio": era un luogo dove amava pregare. Il pellegrinaggio pasquale era un obbligo per ogni devoto Israelita, ragion per cui la città moltiplicava il  numero dei suoi abitanti durante le feste: ma non si poteva lasciarne il periplo durante le celebrazioni. Gesù sapeva che lo cercavano, ma non volle venire meno al suo dovere di pio Ebreo; e così rimase nelle vicinanze (le colline circostanti la città erano comprese nel periplo) e fu catturato. Il Monte degli Ulivi, che circonda Gerusalemme sul lato nord-orientale, trae il nome proprio dagli ulivi che lo coprivano e lo ricoprono ancor oggi: ma non sono più gli stessi. Durante il tremendo assedio del 70 a opera dei Romani, questi ultimi, per motivi di sicurezza, disboscarono tutta l'area per miglia e miglia intorno alla città. Qui Gesù si ritirò in un angolo di pace per pregare.


Quando pensiamo alle sofferenze della Passione, la nostra attenzione è attratta dalla flagellazione, dalla croce, dalle torture: quasi nessuno pensa a quello che ha provato quella notte Gesù, da solo nel giardino, con gli Apostoli che continuavano ad appisolarsi e apparivano più ottusi che mai, tanto da non capire l'evidente sofferenza del loro Maestro; quasi nessuno pensa che Gesù ha sofferto qualcosa di estremamente angoscioso, qualcosa di molto vicino alla morte (cfr. Mt. 26,36-46; Mc. 14,32-42; Lc. 22,39-46; Gv. 18,1, ma anche Ebrei 5,7, che riferisce come Gesù pregò "con forti grida e lacrime"). Gesù sapeva quello che sarebbe successo. Luca, secondo la tradizione un medico, ci ricorda un dettaglio impressionante: Gesù sudava sangue (Lc.22,44), fenomeno definito in medicina come ematoidrosi e dovuto alla rottura di capillari, il cui sangue viene poi convogliato nelle ghiandole sudoripare. Il fenomeno, rarissimo, fu tuttavia osservato anche da Aristotele, Leonardo da Vinci e anche di recente lo è stato in un caso italiano registrato al Pronto Soccorso di Firenze su di una ragazza. La condizione precipita per causa dello stress: e, quella notte, lo stress cui fu sottoposto Gesù, dovette essere immane. Il sudore, del resto, presenta Gesù come una sorta di atleta in lotta: in lotta con il male. "La mia anima è triste fino alla morte", dice ai discepoli (Mc. 14,33).


                                               La croce di Claudio Parmeggiani

Egli vede con estrema chiarezza l'intera  marea sporca del male, tutto il potere della menzogna e della superbia, tutta l'astuzia e l'atrocità del male, che si mette la maschera della vita e serve continuamente la distruzione dell'essere, la deturpazione e l'annientamento della vita, osserva papa Ratzinger. Mentre Gesù prega faccia a terra (la posizione dell'estremo abbandono a Dio) e osserva, davanti a sé, la sagoma del Tempio di Gerusalemme stagliarsi ai raggi della luna (che è piena a Pasqua), deve avere percepito il peso del male che lo circondava: così prega "che il calice passi": "Ma non ciò che Io voglio, bensì ciò che vuoi Tu" (Mt. 26,39). E non ha del tutto torto Mel Gibson, il regista che nel suo The Passion, inserisce un serpente, immagine del demonio, nel Gethsemani, tanto che Gesù, infine, lo schiaccia col calcagno: è un rinvio al testo di Genesi 3,14-15 in cui si preannuncia la lotta infinita tra il serpente e la stirpe della donna, l'umanità; ma si pensi anche a Luca 4,13, in cui l'evangelista osserva, al termine delle tentazioni, che il diavolo sarebbe tornato "al tempo fissato". Eppure, nell'angoscia di quest'ora suprema, Gesù, secondo Marco, si rivolge a Dio col termine confidenziale "Abbà", "Papà": nessuno lo avrebbe fatto alla sua epoca (Mc. 14,36).

sabato 24 marzo 2018

Pirandello e la psicologia

Pirandello e la psicologia

Ieri mattina stavo pacificamente interrogando Dario ed Aurora in 5O e, durante l'orale, abbiamo iniziato un'interessantissima discussione sul rapporto tra Pirandello e la psicologia. Pirandello, che come nessun altro ha scomposto la personalità umana, è forse anche l'autore contemporaneo che, più di ogni altro, riflette tematiche psicologiche o si potrebbe utilizzare per condurre riflessioni psicologiche.
Questo è vero innanzitutto perché Pirandello stesso si interessava alla psicologia: lesse per esempio Le alterazioni della personalità di Alfred Binet (l'inventore del QI, quoziente intellettivo), uno psicologo francese di origine italiana che si occupava dei vari livelli dell'Io. Pirandello si interessava anche di parapsicologia e spiritismo (pratica che induce facilmente a dissociazioni psichiche, come sanno certi medici del Pronto Soccorso che si vedono arrivare a volte come pazienti dei fanatici di queste sedute), ma questa è un'altra storia.



Poi, bisogna ricordare le sue vicende personali. La moglie Maria Antonietta, che lui aveva sposato per matrimonio combinato, come usava in Sicilia, ma di cui si era comunque innamorato, aveva delle latenze psicotiche (cioè era fragile a livello psicologico e poteva sviluppare una psicosi): era patologicamente gelosa del marito, tanto che lo andava a spiare all'uscita dalla Facoltà di Magistero a Roma (una Facoltà frequentata dalla future maestre, quindi quasi esclusivamente da ragazze), per osservare come lui, giovane docente ammirato ed attraente, si comportava con le sue studentesse. La follia però esplose nel 1903, quando si allagò la miniera di zolfo di famiglia, in cui era stata investita la dote di Antonietta, e la famiglia subì un tracollo economico. La donna non si riprese più, anzi, arrivò al punto di essere gelosa della figlia Lietta, accusandola d'incesto. La povera Lia tentò addirittura il suicidio. Pirandello (che era irreprensibile e non tradì mai la moglie, pur vivendo un matrimonio infernale) infine dovette convincersi a farla ricoverare in una clinica specializzata, perché non ne potevano più (1919).



La personalità di Pirandello appare come quella del tipico depressivo, che si rimette in questione senza posa, assumendosi le proprie responsabilità, senza rigettarle sugli altri: colto, distinto, di grande umanità e sensibilità, simpaticissimo, dotato di grande senso dell'humour, è dominato però dal pessimismo e da una specie di senso d'impotenza; sembra anzi depresso tout court. Inoltre, possiede una tendenza sicuramente ossessiva: molto esigente con se stesso, irreprensibile, fa pensare difatti al depressivo che sia stato vittima di violenza psicologica e di traumi senza averli elaborati e che, perciò, rimanga legato all'eterna ripetizione di atteggiamenti o gesti di fuga (si ripetono i traumi per sfuggirne). Il suo pensiero ci presenta infatti di continuo la vita come libero fluire di energia vitale, che però tanto libero non è: infatti, regolarmente, la vita rimane "incastrata" nella forma, cioè nei ruoli, nelle convenzioni, nelle etichette, imposti dalla società e dal contatto con gli altri. Nel teatro pirandelliano, queste si chiamano "maschere". 



Questo è quanto mai attuale: così osservavo con Dario che, quando lo chiamo alla lavagna a fare "il segretario" e a trascrivere in uno schema quello che sto spiegando, lui cerca di far ridere gli altri e assume, così, una forma, un ruolo, per suscitare la simpatia dei suoi compagni; io stessa, a volte, resto "imprigionata" nella "forma" di insegnante; oppure, Aurora ricordava, in fin dei conti un ragazzo si può presentare a casa con i genitori in una maniera e insieme agli amici in un'altra: assume allora varie maschere. Una personalità equilibrata, soggiungevo io, riesce comunque a trovare una sintesi e un'armonia tra le varie "forme", perché tutte, in fin dei conti, riportano alla stessa personalità.



Il problema per Pirandello è però proprio se questa personalità esista. In Uno, nessuno, centomila, il protagonista Vitangelo Moscarda arriva alla conclusione che no: preso dalla frenesia di capire come appare agli altri, perde la percezione di se stesso e si dissolve nei centomila riflessi e immagini che gli altri hanno di lui. Ieri mattina osservavo che proprio le vittime di violenza e abusi finiscono per perdere il senso di quello che sono e vogliono autenticamente, perché hanno perso l'abitudine di esprimerlo, a causa delle continue costrizioni; e quello che dicono gli altri finisce per essere per loro come una continua imposizione. Questo, più l'ossessività con cui Pirandello si pone sempre gli stessi problemi e le stesse domande (il famoso "pirandellismo") ci lascia intravvedere come lui stesso fosse una vittima di oppressione, se non altro psicologica, un uomo molto sensibile e spesso incapace di manifestarsi fino in fondo; proprio per questo, continuava ossessivamente a porsi sempre gli stessi interrogativi ("pirandellismo" appunto).



                                             Edvard Munch, Sera al Karl Johan. 

A proposito: servirà un post specifico, ma proprio il capolavoro del teatro pirandelliano, I sei personaggi in cerca di autore, sembra il  tentativo disperato, da parte dei protagonisti, di elaborare un gigantesco trauma (sulla scena ne succedono di tutti i colori, dal tentato incesto, al suicidio di un ragazzino, alla morte per affogamento di una bambina): e loro ripetono, ripetono, ripetono i disastri successi, alla ricerca di una rappresentazione adeguata degli stessi, del loro dolore, che però nessuno sarà in grado di mettere in scena. Sembra la coazione a ripetere, fenomeno ben noto in psicologia e tipico di chi è rimasto incastrato in un trauma.



Che la società ottocentesca fosse piuttosto rigida e oppressiva, lo sapevamo. Si noti che proprio  l'Ottocento ha sviluppato l'indagine (per non dire la fissazione) sull'isteria, ovvero, come lo definiremmo oggi, il disturbo borderline: e il suo primo sintomo è la mancanza di autocontrollo (vi ricordate che si parla di "pianto isterico", di "crisi isterica" ecc.?). Di solito, la definizione di "isterica" veniva sbolognata sulle donne (anzi, isteria deriva dal termine greco per "utero", perché si riteneva che l'insoddisfazione sessuale la provocasse...); mi sono chiesta più volte se l'isteria non fosse anche il riflesso di una società rigida che, iper-controllando, finiva per far "esplodere" alcuni suoi membri più fragili. 
                                                            Edvard Munch, Malinconia

E' sintomatico che fenomeni analoghi si registrassero nel Seicento, altro secolo molto rigido, con le famose "convulsionarie", donne che dicevano di avere esperienze mistiche e che finivano per mostrare atteggiamenti davvero "isterici"; ma, all'epoca, la cosa era trasversale, tanto che ciò succedeva anche ai "profeti" ugonotti dei camisards francesi o alle suore di Loudun (quelle che ritennero di essere tutte indemoniate a partire dalla superiora, neanche la possessione fosse contagiosa come la varicella...Richelieu utilizzò l'episodio per eliminare alcuni suoi oppositori politici, come un prete-intellettuale, accusato di avere indemoniato le suore). In definitiva, l'insistenza di Pirandello sulle "maschere" ci rinvia a una società che schiaccia il singolo e non lo comprende: basti pensare al povero Mattia Pascal, che cerca di inventarsi più identità sempre nella speranza di trovare il suo spazio nella vita, uno spazio autentico in cui essere se stesso; inutilmente.



Pirandello descrive così, come tanti altri della sua epoca, l'alienazione dell'individuo nella società: Freud, Marx, Tozzi, Rebora e tanti altri hanno descritto e motivato, in varia maniera, questo stato per cui la persona perde se stessa. Nella società borghese e sempre di più di massa, il singolo perde se stesso. In psichiatria si sa che il disturbo peggiore, da questo punto di vista, una vera e propria scissione della personalità, è la schizofrenia; del resto, come nel metateatro Pirandello scompone sulla scena gli elementi di cui consta il teatro e li mette sotto gli  occhi degli spettatori, così scompone la persona del singolo. D'altro lato, ieri mattina facevo notare ai miei ragazzi che i narcisisti (cioè, come abbiamo detto più volte, i manipolatori), assumono "maschere" diverse a seconda dei contesti: non ci pensano in modo specifico, ma agiscono "di pancia" adeguandosi al contesto, per manipolare gli altri. Ecco perché genitori che abusano dei figli sono spesso considerati i pilastri della comunità, mentre i serial killer sono buoni buoni in carcere. Poi c'è qualche psichiatra o giudice di sorveglianza che, magari, ci casca e li mette fuori (come successe nel caso di Angelo Izzo). Non si tratta di "doppie personalità" compiute, ma semplicemente di atteggiamenti incoerenti che il singolo assume via via per comodità. L'immaturità o la malvagità, in questo caso, alienano. La vittima di abusi, invece (alienazione al massimo livello), rischia davvero di cambiare personalità: paura, depressione, insicurezza, abulia, ne velano la personalità originaria, come uno strato di vernice nera un bel quadro. Anche queste sono maschere: e solo con la cura la persona si libera.


                                                     Pirandello coi De Filippo

Spesso, nell'opera di Pirandello, affiora il desiderio di un "oltre", una via di fuga (Montale la chiamerà "la maglia rotta nella rete / che ci stringe"), come l'immagine del treno e del suo fischio, ne Il treno ha fischiato, novella che evoca spazi di viaggio infinito al di là di una quotidianità opprimente; e spesso, la  via di fuga è la follia. Così succede a Vitangelo Moscarda al termine di Uno, nessuno, centomila: solo impazzendo egli smette di porsi interrogativi incessanti sulla propria identità perduta, e in manicomio finisce anche Belluca, il protagonista del Treno ha fischiato. Così succede ne Enrico IV, col  protagonista costretto a fingere per sempre di essere folle, per salvarsi dall'essere perseguito per l'omicidio del suo rivale. E sa di follia anche la situazione del Fu Mattia Pascal, intrappolato in vite non sue; come succede anche ai protagonisti di Così è (se vi pare), desunti dalla novella La signora Frola e il signor Ponza. Chi è il matto tra i due? 
Se la razionalità diventa ossessione, meglio allora la follia, sembra dire Pirandello. Forse dovremmo chiederci proprio che razza di razionalità e società abbiamo coltivato in questi ultimi due secoli, a partire dall'Illuminismo: e se essa non sia diventata un ruolo e, al tempo stesso, una prigione, che aliena chi ci entra.



                                         Evoco qui una forma più completa di razionalità
                                             nel San Gerolamo di Antonello da Messina

Si noti che ho inserito qui dei quadri di Edvard Munch, contemporaneo di Pirandello e che finì in clinica psichiatrica per un breve periodo.

Bibliografia
G.Ferroni, Storia della letteratura italiana, IV, Il Novecento, Milano, Einaudi, 1991.
M.Cappellini - E.Sada, I sogni e la ragione. 5 Tra Ottocento e Novecento, Milano, Mondadori, 2015.
S.Ferlita, Scrittori sull'orlo di una scelta spiritista, La Repubblica, 20 dicembre 2006. 
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2006/12/20/scrittori-sull-orlo-di-una-scelta-spiritista.html

domenica 18 marzo 2018

Dolcetti di cioccolata e frutti di bosco


Dolcetti di cioccolata e frutti di bosco


Ingredienti

250 gr. di pasta sfoglia
Farina 
Cioccolato al latte qb
Frutti di bosco
Zucchero qb

Stendere la pasta sfoglia sul tavolo infarinato, quindi ritagliare dei rettangoli di 5 x 10 cm. Inserire su ogni rettangolo un pezzetto di cioccolata e qualche bacca di frutti di bosco, quindi richiudere il dolcetto a libro e spolverare di zucchero. Mettere a cuocere su una placca imburrata in forno a 150 gradi per 15-20 minuti. Sono davvero deliziosi. 


Pastries with chocolate and raspberries

Ingredients
250 gr. of puff pastry
Flour
Milk chocolate to taste
Raspberries
Sugar to taste

Roll out the puff pastry on the floured table, then cut out rectangles of 5 x 10 cm. Place a piece of chocolate and a few raspberries on each rectangle, then close the pastry as a book and sprinkle it with sugar. Put the pastries to cook on a greased plate in oven at 150 degrees for 15-20 minutes. They are really delicious!