L’alluvione ha sommerso il
pack dei mobili,
delle carte, dei quadri che
stipavano
un sotterraneo chiuso a
doppio lucchetto.
Forse hanno ciecamente
lottato i marocchini
5 rossi, le sterminate
dediche di Du Bos,
il timbro a ceralacca con
la barba di Ezra,
il Valéry di Alain,
l’originale
dei Canti Orfici – e poi
qualche pennello
da barba, mille
cianfrusaglie e tutte
10 le musiche di tuo
fratello Silvio.
Dieci, dodici giorni sotto
un’atroce morsura
di nafta e sterco. Certo
hanno sofferto
tanto prima di perdere la
loro identità.
Anch’io sono incrostato fino
al collo se il mio
15 stato civile fu dubbio fin
dall’inizio.
Non torba m’ha assediato,
ma gli eventi
di una realtà incredibile e
mai creduta.
Di fronte ad essi il mio
coraggio fu il primo
dei tuoi prestiti e forse
non l’hai mai saputo.
Questa poesia fu scritta il 27 novembre
1966, qualche settimana dopo la terribile alluvione di Firenze: lo scantinato
di casa Montale, a Oltrarno, fu invaso dall'acqua sporca dell'Arno, insozzata
da sporcizia e carburante sversato nell'acqua. Proprio dalla massa di oggetti
(il pack, metafora che coglie la
massa informe dei ricordi lasciati, si noti, chiusi in cantina e che vengono
assimilati alla banchisa artica, al ghiaccio), da quella massa ormai sporca e
irrecuperabile, Montale trae un simbolo potentissimo. Gli oggetti, nella sua
poesia, parlano. Ed ecco qui una lunga serie di preziosi souvenirs, da intenditore: i "marocchini", cioè stampe
con preziose rilegature rosse; i libri con dedica originale del critico
francese Charles Du Bos, morto nel 1939 e amico del poeta; scritti del celebre
poeta statunitense Ezra Pound, altro amico di Montale, morto nel 1972, e
contrassegnati dal suo tipico sigillo; una pregiata edizione delle liriche di
Paul Valéry, commentata dal critico Alain (Emile-Auguste Chartier, morto nel
1951); l'edizione originale dei Canti
Orfici di Dino Campana. A proposito di quest'opera bisogna ricordarne la
curiosa vicenda: gli editori della rivista Lacerba,
Papini e Soffici, avevano perso la prima versione dell'opera di Campana,
che dovette ricostruirla a memoria e pubblicarla così nel 1914; l'originale,
una rarità, fu ritrovato nel 1971 e pubblicato nel 1973.
Assieme ai cimeli
d'autore, con un'iperbole degna di una cantina dove è ammassata molta roba,
Montale parla di mille cianfrusaglie e
poi di ricordi di famiglia come le musiche di Silvio Tanzi, il fratello morto
giovane di Drusilla, la moglie del poeta. In quella cantina, chiusa gelosamente
a doppio lucchetto, era chiusa una vita intera, in cui affetti e cultura si
mescolavano in modo affascinante.
Anche l'alluvione è un simbolo. Montale
parla spesso di spazzatura e fango nella sua poesia del Dopoguerra: la civiltà
del consumismo, che ha travolto tutto come un'alluvione, ha creato miseria
morale e tanta sporcizia, tanta spazzatura, in cui bellezza e valori affondano
e si perdono. Volgarità e sprezzo dell'essere umano diventano allora l'ordine
del giorno. La successiva frase ellittica ricorda come tutto quel cumulo di
ricordi sia rimasto immerso per giorni nell'acqua sporca: morsura rievoca finemente l'effetto corrosivo del liquido su quei
preziosi oggetti. Questi ultimi, quasi umanizzati, hanno sofferto tanto prima di perdere la loro umanità (e si noti il
forte enjambement che sottolinea sofferto). Memoria di un mondo vivo, di
poesia, di raffinatezza fin de siècle o
dell'era gloriosa della vita culturale d'ante-guerra, dell'epoca d'oro della
poesia simbolista ed ermetica: nella lista degli oggetti perduti pare di
riconoscere gl'interni preziosi in cui Montale si attardava con Clizia, fra
marmi, mogani e stampe preziose, in poesie come La bufera o Nuove stanze. Tutto
ora è affogato nella melma.
Gli oggetti perduti, simbolo di un'identità
culturale (la grande cultura europea amatissima da Montale), divengono così un
potente correlativo oggettivo che esprime semplicemente anche la situazione
dello stesso Montale: a livello esistenziale anche lui si interroga sul senso
della propria esistenza e si descrive, con una metafora, come incrostato fino al collo. Perché lui
ritrovava con tanta difficoltà se stesso? A causa degli eventi/ di una realtà incredibile e mai creduta (si noti la doppia
litote creata dall'aggettivo negativo e dal mai):
guerre, totalitarismi, orrori e poi il consumismo; dov'è il senso della vita?
Le litoti esprimono spesso una visione negativa della realtà: come è noto, la
filosofia montaliana è scettica sulla possibilità di risposte valide, sia a
livello di conoscenza che di felicità, ma spera sempre in un varco. Per affrontare la vita, Montale
ha attinto coraggio dalla moglie "Mosca": e forse lei non l'ha mai saputo. Pare di rileggere la
Casa dei doganieri, in cui l'io lirico
non poteva dialogare veramente con Annetta, la donna cui si rivolgeva, perché
lei era morta e non aveva mai visto la casa dei doganieri; ora Mosca è morta,
separata per sempre dal poeta e non si rende neanche conto (o forse non se ne è
mai resa conto) di quanto sia stata importante per lui. L'incomunicabilità
rimane il rischio onnipresente di ogni rapporto umano. La prosa semplice,
dimessa, rende bene il posto umile toccato ormai in sorte alla poesia in un mondo immerso nella spazzatura.
Questa poesia fu pubblicata per la prima
volta nella rivista Strumenti critici del
1967 e, infine, al termine di Xenia II, le
poesie dedicate alla moglie in Satura (raccolta
del 1971). Nello stesso anno, Michelangelo Pistoletto porta a termine una
celebre istallazione anch'essa dedicata alla riflessione sul consumismo e sulla
spazzatura: la Venere degli stracci, oggi
esposta al Castello di Rivoli. Si tratta di una delle prime manifestazioni di
Arte povera (come la definì nello stesso anno il critico Germano Celant): il
calco di una Venere, eseguita dallo scultore neoclassico Bertel Thorvaldsen su
modello di tante Veneri antiche, viene posto di spalle, come se stesse per
entrare dentro una massa di stracci. L'opera insiste sul contrasto tra la
bellezza ideale della Venere e gli stracci, rimasuglio della spazzatura della
civiltà consumistica. Ma anche la Venere arriva alla nostra civiltà
"degradata": se per Platone le copie si allontanano progressivamente
dall'originale e dall'essere, questa Venere è un calco che riproduce una
scultura neoclassica, che, a sua volta, riproduce una statua classica: come
dire, lontanissima dal'ideale greco (per di più, è la Venere che regge il pomo
accordatole in premio da Paride). L'esposizione degli stracci richiama
l'attenzione sulla"civiltà dello scarto" del nostro consumismo e a una sorta di recupero di quegli scarti: gli stracci diventano opera d'arte e
portano dentro di sé i resti di esseri umani: l'arte è povera in quanto attinge alla vita vera,
alle cose di tutti i giorni (proprio come Montale, che attingeva agli oggetti
per costruire i suoi simboli e che usava un discorso prosastico, quotidiano). Come in Montale la poesia parla della profondità della vita immiserita dalla volgarità dell'oggi, così in Pistoletto troviamo spazzatura, che riduce a scarto la vita, confrontata con la bellezza. La vita si contrappone all'ideale, oppure la bellezza classica al rifiuto e alla volgarità di oggi.
Nessun commento:
Posta un commento