lunedì 19 giugno 2017

Montale, la spazzatura e la "Venere degli stracci" di M.Pistoletto



Montale, la spazzatura e la Venere degli stracci di M.Pistoletto

L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili, 
delle carte, dei quadri che stipavano 
un sotterraneo chiuso a doppio lucchetto. 
Forse hanno ciecamente lottato i marocchini
5 rossi, le sterminate dediche di Du Bos, 
il timbro a ceralacca con la barba di Ezra, 
il Valéry di Alain, l’originale 
dei Canti Orfici – e poi qualche pennello 
da barba, mille cianfrusaglie e tutte
10 le musiche di tuo fratello Silvio. 
Dieci, dodici giorni sotto un’atroce morsura 
di nafta e sterco. Certo hanno sofferto 
tanto prima di perdere la loro identità. 
Anch’io sono incrostato fino al collo se il mio
15 stato civile fu dubbio fin dall’inizio. 
Non torba m’ha assediato, ma gli eventi 
di una realtà incredibile e mai creduta. 
Di fronte ad essi il mio coraggio fu il primo 
dei tuoi prestiti e forse non l’hai mai saputo.


Questa poesia fu scritta il 27 novembre 1966, qualche settimana dopo la terribile alluvione di Firenze: lo scantinato di casa Montale, a Oltrarno, fu invaso dall'acqua sporca dell'Arno, insozzata da sporcizia e carburante sversato nell'acqua. Proprio dalla massa di oggetti (il pack, metafora che coglie la massa informe dei ricordi lasciati, si noti, chiusi in cantina e che vengono assimilati alla banchisa artica, al ghiaccio), da quella massa ormai sporca e irrecuperabile, Montale trae un simbolo potentissimo. Gli oggetti, nella sua poesia, parlano. Ed ecco qui una lunga serie di preziosi souvenirs, da intenditore: i "marocchini", cioè stampe con preziose rilegature rosse; i libri con dedica originale del critico francese Charles Du Bos, morto nel 1939 e amico del poeta; scritti del celebre poeta statunitense Ezra Pound, altro amico di Montale, morto nel 1972, e contrassegnati dal suo tipico sigillo; una pregiata edizione delle liriche di Paul Valéry, commentata dal critico Alain (Emile-Auguste Chartier, morto nel 1951); l'edizione originale dei Canti Orfici di Dino Campana. A proposito di quest'opera bisogna ricordarne la curiosa vicenda: gli editori della rivista Lacerba, Papini e Soffici, avevano perso la prima versione dell'opera di Campana, che dovette ricostruirla a memoria e pubblicarla così nel 1914; l'originale, una rarità, fu ritrovato nel 1971 e pubblicato nel 1973. 


Assieme ai cimeli d'autore, con un'iperbole degna di una cantina dove è ammassata molta roba, Montale parla di mille cianfrusaglie e poi di ricordi di famiglia come le musiche di Silvio Tanzi, il fratello morto giovane di Drusilla, la moglie del poeta. In quella cantina, chiusa gelosamente a doppio lucchetto, era chiusa una vita intera, in cui affetti e cultura si mescolavano in modo affascinante.  
Anche l'alluvione è un simbolo. Montale parla spesso di spazzatura e fango nella sua poesia del Dopoguerra: la civiltà del consumismo, che ha travolto tutto come un'alluvione, ha creato miseria morale e tanta sporcizia, tanta spazzatura, in cui bellezza e valori affondano e si perdono. Volgarità e sprezzo dell'essere umano diventano allora l'ordine del giorno. La successiva frase ellittica ricorda come tutto quel cumulo di ricordi sia rimasto immerso per giorni nell'acqua sporca: morsura rievoca finemente l'effetto corrosivo del liquido su quei preziosi oggetti. Questi ultimi, quasi umanizzati, hanno sofferto tanto prima di perdere la loro umanità (e si noti il forte enjambement che sottolinea sofferto). Memoria di un mondo vivo, di poesia, di raffinatezza fin de siècle o dell'era gloriosa della vita culturale d'ante-guerra, dell'epoca d'oro della poesia simbolista ed ermetica: nella lista degli oggetti perduti pare di riconoscere gl'interni preziosi in cui Montale si attardava con Clizia, fra marmi, mogani e stampe preziose, in poesie come La bufera o Nuove stanze. Tutto ora è affogato nella melma. 


Gli oggetti perduti, simbolo di un'identità culturale (la grande cultura europea amatissima da Montale), divengono così un potente correlativo oggettivo che esprime semplicemente anche la situazione dello stesso Montale: a livello esistenziale anche lui si interroga sul senso della propria esistenza e si descrive, con una metafora, come incrostato fino al collo. Perché lui ritrovava con tanta difficoltà se stesso? A causa degli eventi/ di una realtà incredibile e mai creduta (si noti la doppia litote creata dall'aggettivo negativo e dal mai): guerre, totalitarismi, orrori e poi il consumismo; dov'è il senso della vita? Le litoti esprimono spesso una visione negativa della realtà: come è noto, la filosofia montaliana è scettica sulla possibilità di risposte valide, sia a livello di conoscenza che di felicità, ma spera sempre in un varco. Per affrontare la vita, Montale ha attinto coraggio dalla moglie "Mosca": e forse lei non l'ha mai saputo. Pare di rileggere la Casa dei doganieri, in cui l'io lirico non poteva dialogare veramente con Annetta, la donna cui si rivolgeva, perché lei era morta e non aveva mai visto la casa dei doganieri; ora Mosca è morta, separata per sempre dal poeta e non si rende neanche conto (o forse non se ne è mai resa conto) di quanto sia stata importante per lui. L'incomunicabilità rimane il rischio onnipresente di ogni rapporto umano. La prosa semplice, dimessa, rende bene il posto umile toccato ormai in sorte alla  poesia in un mondo immerso nella spazzatura.


Questa poesia fu pubblicata per la prima volta nella rivista Strumenti critici del 1967 e, infine, al termine di Xenia II, le poesie dedicate alla moglie in Satura (raccolta del 1971). Nello stesso anno, Michelangelo Pistoletto porta a termine una celebre istallazione anch'essa dedicata alla riflessione sul consumismo e sulla spazzatura: la Venere degli stracci, oggi esposta al Castello di Rivoli. Si tratta di una delle prime manifestazioni di Arte povera (come la definì nello stesso anno il critico Germano Celant): il calco di una Venere, eseguita dallo scultore neoclassico Bertel Thorvaldsen su modello di tante Veneri antiche, viene posto di spalle, come se stesse per entrare dentro una massa di stracci. L'opera insiste sul contrasto tra la bellezza ideale della Venere e gli stracci, rimasuglio della spazzatura della civiltà consumistica. Ma anche la Venere arriva alla nostra civiltà "degradata": se per Platone le copie si allontanano progressivamente dall'originale e dall'essere, questa Venere è un calco che riproduce una scultura neoclassica, che, a sua volta, riproduce una statua classica: come dire, lontanissima dal'ideale greco (per di più, è la Venere che regge il pomo accordatole in premio da Paride). L'esposizione degli stracci richiama l'attenzione sulla"civiltà dello scarto" del nostro consumismo e a una sorta di recupero di quegli scarti: gli stracci diventano opera d'arte e portano dentro di sé i resti di esseri umani: l'arte  è povera in quanto attinge alla vita vera, alle cose di tutti i giorni (proprio come Montale, che attingeva agli oggetti per costruire i suoi simboli e che usava un discorso prosastico, quotidiano). Come in Montale la poesia parla della profondità della vita immiserita dalla volgarità dell'oggi, così in Pistoletto troviamo spazzatura, che riduce a scarto la vita, confrontata con la bellezza. La vita si contrappone all'ideale, oppure la bellezza classica al rifiuto e alla volgarità di oggi. 

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