venerdì 9 giugno 2017

L'infanzia, il trauma, Saba e la pittura di G.Celiberti


L'infanzia, il trauma, Saba e G.Celiberti


Umberto Saba stava regolarmente male. Durante la I Guerra Mondiale, da cittadino italiano (perché, per quanto triestino e straniero, discendeva dal padre, Ugo Edoardo Poli, di cittadinanza italiana) fu arruolato, ma non fu mai mandato al fronte perché crollò a causa di una crisi depressiva; e crisi depressive, nonché tentazioni suicide, si ripeterono nel corso della sua vita, così come i ricoveri, tanto che morì  in clinica a Gorizia nel 1957. Nel 1929, Saba entrò in terapia psicanalitica presso il dott.Edoardo Weiss (lo stesso medico che spedì Bruno Veneziani, il cognato di Svevo, a Vienna da Freud), una terapia che durò fino al 1931.


Saba si appassionò alla psicanalisi che per lui divenne un metodo per leggere la propria vita (non che migliorò molto, come al solito), la "verità che giace al fondo". E dalle sedute psicanalitiche emerse l'origine del suo disagio: l'assenza della figura paterna, che aveva abbandonato la famiglia prima della sua nascita; la drastica separazione dall'affettuosa Peppa Sabaz, la sua balia, vera figura materna, laddove la madre, Rachele Cohen, era severa ed anafettiva. Il dott.Weiss costituì una vera e propria figura paterna per il poeta, che gli dedicò la sezione Il piccolo Berto (dal soprannome datogli dalla sua balia) nel Canzoniere. Si tratta di poesie in cui il tema dell'infanzia si mescola a quello del passato dell'autore. Poesia e psicanalisi devono quindi riportare alla luce la "verità che giace al fondo" e che si cela in quel momento  fondamentale che è l'infanzia.


L'infanzia è una medaglia a due facce per Saba. E' il momento della gioia, della felicità ingenua, dell'affetto materno di Peppa; ma è anche il momento della costrizione, del dolore, della repressione operata dalla madre. Gioia e sofferenza sono il binomio, la contraddizione maggiore che si affaccia continuamente all'animo del poeta e che contraddistingue anche la sua infanzia. E vediamo ora una sua poesia caratteristica, Eroica, tratta da Il piccolo Berto:


                               Ecco el vapor che fuma,
                               che vien dalla montagna,
                               Addio papà e mama,
                               me toca de andar soldà.

Nella mia prima infanzia militare
schioppi e tamburi erano i miei giocattoli;
come gli altri una fiaba, io  la canzone
amavo udire dei coscritti.
                                               Quando
con sé mia madre poi mi volle, accanto
mi pose, a guardia, il timore. Vestito
più non mi vide da soldato, in visita
a noi venendo, la mia balia. Assidui
moniti udivo da mia madre; i casi
della sua vita, dolorosi e mesti.

E fu il bambino dalle calze celesti,
dagli occhi pieni di un muto rimprovero,
buono a sua madre e affettuoso. Schioppi
più non ebbi e tamburi. Ma nel cuore
io li celai; ma nel profondo cuore
furono un giorno i versi militari;
oggi sono altra cosa: il bel pensiero,
forse, onde resto in tanto strazio vivo.


Carlo Emilio Gadda, in Psicanalisi e letteratura, sosteneva simpaticamente che la Peppa fu il primo, vero, grande amore di Saba; tanto che la madre, gelosa, avrebbe deciso di allontanare il bambino presso una zia, in modo da fargli dimenticare "l'eterna Peppa".

L'incipit della poesia riporta una canzone militare che rinvia alla prima raccolta di Saba compresa nel Canzoniere, i Versi militari. Il piccolo Berto si esaltava alle immagini di guerra, agli "schioppi e tamburi", in rilievo nel v.2, paragonati dalla similitudine del v.3 a una "fiaba"; si esaltava alla "canzone...dei coscritti" dei vv.3-4. Come si noterà, la poesia di Saba scorre in modo semplice, lineare, quasi prosastico, senza pretese. Il poeta rifuggiva dagli artifici letterari. Se i primi 4 versi descrivono la passione infantile di Berto per la guerra, la seconda strofa rinvia invece al drastico mutamento indotto dal ritorno a casa dalla madre: la personificazione del timore diventa la nuova guardia del corpo del poeta bambino al v.7; allora, la balia in visita non vede più il piccolo Berto vestito da soldatino (si noti l'allitterazione in v), mentre tutto viene ricoperto dai lamenti della madre, lamenti che i due enjambements paiono prolungare.


Nella terza strofa è documentato il cambiamento di Berto: ora indossa "calze celesti", è "buono a sua madre e affettuoso", cioè represso e obbligato a una bontà di facciata, ma con gli occhi "pieni di un muto rimprovero". La frase negativa seguente segnala che il poeta non ebbe più i famosi "schioppi e tamburi": essi rimasero nel "cuore", una parola chiave per Saba, che indica il profondo dell'animo umano, la genuinità dei sentimenti. Nel cuore permane la fascinazione per le immagini e i versi militari: immagini e pensieri, di eroismo, gloria, vitalità, che rappresentano la parte più viva e autentica del poeta, quella che lo  mantiene "in tanto strazio vivo".
La poesia rileva così quella duplicità, tra eroismo e lamenti materni, vitalità e repressione, così tipica del poeta triestino. L'infanzia è allora un fondo autentico e genuino, cui ritornare per ritrovare la parte più vera di sé.

Ho trovato delle analogie tra Saba e l'opera di una grande artista contemporaneo, Giorgio Celiberti. Nato a Udine nel 1929, partecipa alla celebre Biennale di Venezia del 1948. Allievo di Emilio Vedova, si trasferisce poi a Parigi nei primi anni '50; quindi viaggia a Londra, negli USA, in Messico, a Cuba e in Venezuela e si interessa alle culture ed etnie più varie; quando ritorna, si stabilisce a Roma. E' animato da una costante sperimentazione, con materiali e generi differentissimi: pittura, affresco, ceramica, graffiti, scultura. 


Celiberti è perseguitato dall'insonnia: come racconta allo psichiatra Massimo Recalcati, all'alba si mormora: "Anche questa notte è vinta...". L'insonnia, sempre secondo Recalcati, così caratteristica di questo artista, è la lotta contro il buio delle tenebre, contro il male. Rimane nella veglia come forma di resistenza. Quando è cominciata questa insonnia? Forse, azzarda Recalcati, fin dal momento decisivo per l'arte di Celiberti, la visita, nel 1965, del campo di transito di Terezin: organizzato dai nazisti a 60 km da Praga, era nato per accogliere i bambini deportati e abbandonati lì in condizioni spaventose, nonostante la facciata impeccabile di "centro di accoglienza". Da lì i piccoli viaggiavano poi verso la morte: Auschwitz e altri campi di sterminio. Sui muri del lager, Celiberti vide i disegni dei bambini, le crocette che rappresentavano i giorni di prigionia, cuori, numeri, graffiti, farfalle e altri disegni (ma anche lettere come A, oppure T, Z, N del nome Terezin). 


Da quel momento in poi, Celiberti abbandonò la pittura precedente (Dopo non potevo più esercitarmi in temi tradizionali:  i paesaggi, le nature morte...) e, come se rivivesse un trauma, prese a ripetere ossessivamente nelle sue opere quei segni e quei graffiti: e se Saba, attraverso la psicanalisi, risaliva ai suoi traumi originari, li approfondiva tramite la poesia e li riproduceva in continuazione, così Celiberti prese a ripetere all'infinito attraverso l'arte i segni di quel trauma assoluto, di quel buio assoluto che è stato l'Olocausto, specie il massacro dei bambini. Difatti, il nero è immancabile nelle opere dell'artista. Il buio è l'assenza di Dio nel prevalere immenso del male.

Quello fu il momento più drammatico della mia storia di pittore … Ciò che producevo dopo la visita a Terezin sembrava non esprimere abbastanza il dolore profondo che provavo. Come se in quel momento fossi passato a vedere la vita dall’altra parte: dalla parte della verità, della tragedia, del dolore, dell’orrore, della vergogna di essere uomo e come tale responsabile di quello che era accaduto. Desideravo dare una risposta che non si servisse delle parole, perché le parole erano tutte inutili. Bisognava scavare dentro per trovare segni che rispondessero all’invocazione di quei bambini, che con i loro graffiti avevano lasciato una disperata domanda d’amore e anche di perdono. Hanno scritto delle poesie e fatto dei piccoli disegni rappresentanti farfalle, cuori, numeri. Ho cominciato così a dipingere le farfalle e i cuori in omaggio a quelle vittime innocenti”.


Entrambi gli artisti scavano nel profondo alla ricerca del male originario, entrambi recuperano la dimensione originaria dell'infanzia, come luogo di luce, di farfalle, di cuori; ma è anche un'infanzia tormentata dall'incomprensione, dalla mancanza d'amore (per Saba) o dalla violenza (per Celiberti e i bimbi di Terezin) degli adulti. Singolarmente, Saba, di origine ebraica (almeno per parte di madre) è stato perseguitato un po' come quei bambini ebrei tormentati a Terezin: ma ogni bambino sofferente è, in certo senso, in quei bambini annientati.  Laddove Saba vede insanabili contraddizioni, Celiberti riesce però a estrarre dal buio "un'alba": e così nei suoi quadri emergono il rosso dei cuori dei bambini e il bianco della luce ritrovata. 

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