venerdì 26 maggio 2017

Arte e poesia - Ungaretti e i Crocefissi di William Congdon


Cristo, pensoso palpito di Giuseppe Ungaretti e i Crocefissi di William Congdon

Possono poesia e arte essere messe a confronto? Certo, purché ognuna venga considerata secondo la propria cifra specifica. Vediamo ora un confronto insolito: una poesia di Ungaretti e i famosi Crocefissi dell'artista americano William Congdon. 




Fa piaga nel Tuo cuore

La somma del dolore
Che va spargendo sulla terra l'uomo;
Il Tuo cuore è la sede appassionata
Dell'amore non vano.

Cristo, pensoso palpito,

Astro incarnato nell'umane tenebre,
Fratello che t'immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l'uomo,
Santo, santo che soffri, 
Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo, Santo che soffri
Per liberare dalla morte i morti
E sorreggere noi infelici vivi,
D'un pianto solo mio non piango più,
Ecco, Ti chiamo, Santo, Santo che soffri. 



Questa poesia celeberrima fa parte della raccolta Il dolore, del 1947: in essa Ungaretti rievocava la morte del figlio Antonietto, quella del fratello Costantino e tutta l'immane sofferenza cui lui aveva assistito durante la Seconda Guerra Mondiale e l'occupazione di Roma. Tuttavia, anche qui la sofferenza trova un suo approdo nella speranza evocata dalla fede: e la forma diventa ancora più lineare e semplice, quasi intima, che in Sentimento del tempo, dove vigeva ancora un certo preziosismo simbolista. A dire il vero, questa è la terza parte della poesia Mio fiume anche Tu, dedicata all'occupazione di Roma e in cui il poeta invoca il Cristo. La poesia è suddivisa, come un poemetto, in tre sezioni e questa è la terza e conclusiva. 

La  poesia si apre con un'invocazione al Cristo (chiaramente il Crocefisso, anche se ciò rimane implicito) e con la metafora secondo cui il dolore umano, provocato dall'essere umano stesso, fa piaga nel cuore del Figlio di Dio (ricordate che il cuore di Gesù fu spaccato dalla lancia). Perché? Perché quel  cuore è sede di amore, un amore non vano (la litote contrappone l'amore cristico ad altri "vani", inutili e profani: sicuramente Petrarca avrebbe inserito nella lista la sua Laura, lui che usava questo aggettivo per indicare il suo vano errore). Cristo partecipa in tutto alla nostra sofferenza ed è indicato con una metafora come pensoso palpito: viene in mente l'ultimo battito del cuore prima della morte in croce, un po' come l'ultimo battito de La madre. Cristo è un cuore che palpita di amore. 




L'aggettivo pensoso dona alla compassione del Cristo un tono meditativo, per cui il Figlio di Dio prende su di sé la sofferenza umana. Quasi in  una specie di litania, Gesù viene descritto anche come astro incarnato nelle umane tenebre; i riferimenti biblici qui sono molteplici: si pensi al passo di Numeri 24,17, che annuncia "Una stella sorgerà da Giacobbe" e che tante volte è stato ripreso per la nascita di Gesù; pensiamo alla stella cometa e a canti come "Astro del ciel"; ma anche al Prologo del Vangelo di Giovanni: "la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta" (Gv. 1,5). Le tenebre evocano quelle del male in cui l'uomo è precipitato. 

Fratello indica che il Cristo partecipa della nostra sofferenza; e, successivamente, i versi liberi insistono su varie figure etimologiche: per riedificare / umanamente l'uomo gioca sulla radice di uomo, come a sottolineare il fatto che solo il Cristo, Uomo perfetto, può veramente ricostruire un'umanità sfigurata dal male; per liberare dalla morte i morti insiste sulla radice di morte, una morte dal molteplice significato (peccato, male, crudeltà, dolore, morte fisica e spirituale), e da cui solo Cristo libera, come fu di Lazzaro resuscitato; d'un pianto solo mio non piango più, riprende invece la radice di pianto, per ribadire il dolore in cui è immerso il poeta, costruendo un chiasmo per cui in Cristo il pianto non è più solitario. 


Ma è soprattutto l'anafora santo, santo che soffri, che ricompare più volte come un ritornello, ad attirare l'attenzione. "Santo" corrisponde all'ebraico qadosh che indica qualcosa che è stato messo da parte per Dio, "separato"; eppure, Cristo non è separato dalla nostra sofferenza, anzi, vi partecipa fino in fondo. La sua santità consiste proprio in questo: nell'essere stato "tenuto da parte" per offrire la Sua innocenza per amore. In questo è l'unico vero puro, innocente. Diceva un grande teologo svizzero, Maurice Zundel, che la risposta di Dio alla sofferenza umana è quella di scendere tra i sofferenti, in mezzo a loro, di condividere il nostro dolore: i versi di Ungaretti esprimono questa verità in pieno.




                                                               Morgentod Belsen C Camp

Sul lato artistico, la migliore traduzione di questa verità è adombrata dagli stupendi Crocefissi di uno dei più grandi artisti contemporanei, l'americano William Congdon. Nato a Providence, in Rhode Island, nel 1912, Congdon studiò a Yale, quindi pittura, viaggiò in Europa (amava molto i viaggi) e assorbì il meglio della tradizione nostrana. Durante la Seconda Guerra Mondiale fu autista di ambulanze per la Croce Rossa e, sicuramente, ne vide di tutti i colori; il disegno Morgentod Belsen C Camp (alla lettera, "la morte al mattino"), del 1945, traduce nelle sue forme spigolose e stilizzate l'incontro terrificante con la barbarie nazista e con le sue tracce nel lager di Bergen Belsen. Dopo la guerra fu a New York, dove entrò a far parte del gruppo dell'Espressionismo astratto: fra questi pittori, anche i celebri Pollock e Rothko. In quella corrente apprese anche nuove tecniche pittoriche, come il dripping portato alla fama da Pollock, o la colatura: il colore viene fatto sgocciolare, colare sulla tela e diventa non segno di qualcos'altro, ma espressione che ha valore di per se stessa. Negli anni '50, Congdon si trasferì a Venezia (dove conobbe Peggy Guggenheim), viaggiò moltissimo (fu anche nel Sahara) e continuò la sua linea espressiva astratta. 




Nel 1959, la svolta: ad Assisi (non a caso) si converte al cattolicesimo. Da quel momento comincia ossessivamente a dipingere una cosa sola: i suoi celeberrimi, intensi Crocefissi, il fulcro della raccolta della fondazione a lui intitolata a Milano (dove il pittore è morto nel 1998). Ma lui stesso ha affermato: 


Dipingo sempre il Crocefisso perché in questo sta tutto ciò che ho visto e vissuto sino al momento di dipingerlo, e tutto ciò che mai vedrò in futuro....Il soggetto del Crocefisso come il soggetto che contiene tutti gli altri. 


Il Crocefisso, per Congdon, riassume quindi in sé tutto: ricordiamo che la Croce è un simbolo ben più antico dell'uso cristiano, un simbolo che assomma in sé tutte le dimensioni (verticale, collegamento tra cielo e terra, orizzontale, per la realtà umana), tanto che S.Giustino le conferiva valenza cosmica e diceva che intorno alla Croce si organizza l'universo (l'asse terrestre e l'eclittica formano una croce: cfr. 1 Apologia 60, del II sec.); il simbolo della croce compare in Asia Minore addirittura nel 4.000 a.C.! Ma la Croce riassume in sé anche tutto il dolore del mondo: e nei quadri di Congdon Cristo e Croce finiscono per diventare un tutt'uno. Infine, per Congdon, il Crocefisso riassume la sua esperienza: i prigionieri e le vittime che aveva già rappresentato alla fine della guerra, come in Morgentod (avrete notato che questo ritratto sembra la testa riversa di un Crocefisso); tutta la sua vita quello cui ha sempre aspirato, il suo futuro. E' come se, arrivato a dipingere i suoi Crocefissi, egli avesse finalmente capito il senso della sua esistenza e i suoi dipinti illuminassero tutto il suo passato e il suo futuro. 



Ungaretti e Congdon hanno in comune l'esperienza della guerra, della Seconda Guerra Mondiale: entrambi vedono nel Crocefisso la sintesi di tutto il dolore dell'umanità, di cui il Cristo si carica, un dolore provocato dalla malvagità dell'essere umano; entrambi approdano a un'arte essenziale. In Congdon la figura del Cristo diventa sempre più ridotta, rappresentata da alcuni colpi di colore, dati a spatola, per raffigurare un'immagine umana sul  legno della croce; e se i Crocefissi iniziali conservano ancora tracce dell'iconografia tradizionale, man mano che va avanti, l'artista riduce sempre di più la figura del Cristo, sul nero dello sfondo (le tenebre! E le tenebre discesero davvero su Gerusalemme al momento della Crocefissione, simbolo delle tenebre del male); finché essa non si riduce a un'unica spatolata grigia, a stento distinguibile nel buio, come se l'immagine di Cristo affondasse sempre più nel buio. 



Non si vedono più mani, piedi, gambe, volto: si percepisce solo il capo reclinato di vittima, di agnello sacrificale, con i capelli riversi: l'essenza dell'immolazione. Santo, santo che soffri: pochi segni, poche parole, per una purificazione somma del dolore umano divenuto sacro. Ungaretti ha imparato a preservare la sacralità della parola poetica, riducendola all'essenziale, come quando scriveva le sue poesie telegrafiche sugl'incarti delle cartucce al fronte; Congdon per la sua arte sacra, riduce il segno al massimo, con l'essenzialità potente e intensissima dell'astrattismo; il dolore, per essere rappresentato davvero, non deve essere sbandierato, come avviene oggi in TV, ma vissuto con pudore, con ritrosia somma: perché è davvero troppo importante, è sacro, come le vittime che lo patiscono. 



Bibliografia

M.Cappellini - E.Sada, I sogni e la ragione 6. Dal Novecento ad oggi, Signorelli, p.139.
M.Recalcati, Il mistero delle cose. Nove ritratti d'artisti, Bologna, Feltrinelli, 2016, pp.106-25.

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