La caccia infernale 2
Ma è presente in questa tradizione anche il valore negativo di solito attribuito alla caccia. Attività tipica di nobili e re fin dagli albori della civiltà, fin dai regni di Assiri e Babilonesi, riforniva infatti di cacciagione le loro tavole. Nella Bibbia però, la caccia è antitetica alla pastorizia praticata dagli Ebrei, che erano pastori nomadi. "Grande cacciatore al cospetto del Signore" è Nimrod, in Genesi 10,8-12: è il prototipo del re mesopotamico, eroe e cacciatore, costruttore e legislatore, emblema di una civiltà più complessa ed evoluta, ma anche arrogante in confronto ad Israele; qui la Bibbia ha forse umanizzato il dio Marduk, oppure Ninurta, patrono dei cacciatori e iniziatore della civiltà e dell'agricoltura.
La successiva tradizione esegetica ebraica e rabbinica vide però in Nimrod l'arrogante persecutore di Abramo, che viene da lui fatto chiudere in una fornace (come nell'episodio dei tre fanciulli in Daniele): il primo esempio di quest'interpretazione si trova nel Libro delle antichità bibliche 6, del I a.C. A dire il vero, quest'interpretazione negativa di Nimrod si basava più sull'etimologia del suo nome (che veniva collegato al verbo "ribellarsi", marad), che alla caccia; inoltre, gli veniva attribuita la costruzione della torre di Babele: ma ben presto, Nimrod venne associato a un altro cacciatore, Esaù, che nei commenti ebraici, i midrashim, appariva come il progenitore dei pagani e di Roma, quindi degli oppressori per eccellenza.
Origene, il grande
esegeta cristiano alessandrino del III d.C., nel suo Commento al Cantico dei Cantici, 3,14,27-28, equipara non a caso
Nimrod al diavolo, visto come il cacciatore per definizione; Prudenzio, poeta
latino del IV sec., in ham. 143,
segue la stessa equivalenza, perché il diavolo è un cacciatore di anime; così
anche S.Ambrogio afferma che Esaù e Nimrod simboleggiano il diavolo nel suo Commento ai Salmi, 118. Anche altri
autori dell'Alto Medioevo (Isidoro di Siviglia, Beda), ritraggono Nimrod come un empio tiranno e cacciatore, o addirittura come un tipo del
diavolo, che "cattura" gli esseri umani inducendoli al peccato e
scorrazza nella "selva" di questo mondo per uccidere gli uomini, quasi fossero selvaggina. A partire da questi due autori, la metafora
della caccia dilaga nell'esegesi di storici e commentatori medievali, che
contrappongono i cacciatori della Bibbia a quegli umili pescatori che erano gli
Apostoli. Sembra quasi che il Vangelo sia riuscito a ribaltare la percezione
sociale di queste attività: laddove i pescatori erano originariamente
disprezzati e i cacciatori identificati con gli aristocratici, ora succede il
contrario. Ecco perché la metafora della caccia come attività diabolica ritorna in autori come Freculfo di
Lisieux e, tra gli altri, in Rabano Mauro, che afferma, nel suo Commento alla Genesi 11, che i cacciatori non sono mai buoni.
Così, i papi si affannarono a ripetere che la caccia era incompatibile con la
fede cristiana (sarebbe stato entusiasta il WWF): lo ripetevano anche perché,
sul modello dei nobili, i chierici ci si dedicavano un po' troppo. Un’epistola
di papa Nicola I, la 127, sconsiglia ai chierici la caccia, difatti,
contrapponendo Ismaele, Nimrod ed Esaù, reprobi cacciatori, ai “pescatori di
uomini” che erano gli Apostoli; lo stesso viene ripetuto dal Decretum di Ivo di Carnot (cap. 354) e
da Pietro di Blois nella sua ep. 56.
Ecco quindi il diavolo,
cacciatore per eccellenza, darsi alla persecuzione delle anime in boschi
desolati nelle ore notturne, con tanto di corteggio di demoni. Secondo la
leggenda, solo le anime pure godevano del privilegio di assistere a questo
terrificante spettacolo: esse avevano poi il discutibile potere di pronunciare
predizioni infauste, come succede in un romanzo giallo della scrittrice
francese Fred Vargas, La cavalcata dei morti. Le leggende in merito si moltiplicano, specie sulle Alpi
e nelle zone montane o meno accessibili. In Valtellina, ad esempio, si
racconta quanto segue (si veda il link al blog sulle leggende locali: http://www.paesidivaltellina.it/piateda/storiediscais.htm).
Una notte, un montanaro
vide passare davanti alla sua baita un oscuro cacciatore ed ebbe l'ingrata (e
folle) idea di pronunciare le seguenti parole: O casciadù de la bona cascia, portemen anca a mi de la vosa cascia (“O cacciatore della buona caccia, portate anche a me qualcosa della vostra caccia”). Detto, fatto: la mattina dopo,
il povero (e fesso..) montanaro si ritrovò nel focolare...un mezzo cadavere. Atterrito, fuggì dal parroco,
che gli consigliò di fare quanto segue: la notte successiva, avrebbe dovuto
nascondersi in mezzo al fieno
(benedetto); quindi, allo scorgere il tenebroso cacciatore, avrebbe dovuto
affermare: O casciadù de la bona cascia, vignìn pür a tosla la vosa cascia (“O cacciatore della buona caccia, venite pure a riprendervela la vostra caccia”).
Il montanaro obbedì e il cadavere scomparve (io, però, avrei gettato via il
paiolo e rifatto il focolare).
In Dante, il motivo
leggendario è applicato nel contesto più adeguato: l'Inferno è difatti il luogo
ideale per una caccia infernale. Molto meno indovinata è invece la cornice associata
al tema dal Boccaccio nella quarta giornata del suo Decameron, nella novella di Nastagio degli Onesti. Il giovane,
aristocratico, è innamorato di una bella fanciulla, appartenente alla famiglia
Traversari, però lei non lo ricambia. Ritiratosi a Classe, presso Ravenna,
mentre passeggia nella pineta, un venerdì verso mezzogiorno, scorge un
cavaliere nero che insegue e dilania con le sue armi una giovane donna nuda:
all'esterrefatto Nastagio, che cerca di intervenire in difesa della fanciulla,
il cavaliere obbietta che così la donna viene punita nell'aldilà come
contrappasso per il suo rifiuto di amarlo, mentre lui è all'inferno perché si è suicidato per amore; Nastagio fa allora in modo che la
donna da lui amata assista alla scena e questa capisce l'antifona, per cui
cede. Decisamente un colpo basso. F.Botticelli, Nastagio degli Onesti, Madrid, Museo del Prado (pure l'immagine sopra)
A parte il
comportamento di Nastagio, che, come osservano i critici, è ispirato più alla
logica mercantile del do ut des, che alla
magnanimità che dovrebbe ispirare l'amor cortese, la caccia infernale qui
stona. Siamo ben lontani dal contesto horror
paranormale delle foreste nordiche o anche della Divina Commedia: il quadro mentale di Boccaccio è laico, avulso da
intonazioni soprannaturali; ma, di conseguenza, alla caccia infernale non resta
più sugo. Usarla come punizione per un amore non ricambiato, oltreché meschino, è
anche insulso; del resto, l'ambientazione stessa della novella, per quanto
elegante, non convince: invece delle nordiche e buie foreste, la pineta di
Classe (mancano solo i bambini col secchiello...); invece di mezzanotte,
mezzogiorno. E anche se il mezzogiorno
ha pessima fama nei paesi mediterranei (il troppo sole può dare alla
testa e le prime ore del pomeriggio erano quelle in cui, secondo gli antichi
Greci, circolava Pan, il satiro dalle fattezze demoniache; incontrarlo portava
alla pazzia, come stare sotto al solleone portava un'insolazione), tanto da
essere definito "l'ora panica", l'operazione di Boccaccio non
convince. E' rimasta comunque nota, tanto da essere riprodotta anche a livello
artistico, come da Botticelli, che dipinse la scena su di un cassone di nozze (continua).
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