Bijou, di Patrick Modiano
Un piccolo capolavoro,
opera del premio Nobel per la Letteratura 2014, Patrick Modiano; un libretto
breve, ma profondo, che affonda la lama della narrazione in uno dei dolori più grandi che possano
esistere: lo stato di abbandono in cui una madre può gettare i figli attraverso
il suo disamore e i maltrattamenti.
Siamo negli anni '50, a
Parigi. Thérèse, una giovane sui 25 anni (a dire il vero, il suo
nome è citato pochissimo e viene ricordato
piuttosto il soprannome impostole dalla madre, Bijou), una sera, sulla
metropolitana, crede di scorgere la madre, o piuttosto una donna che
le assomiglia, abbigliata di un cappotto giallo. Senza farsi scorgere, la segue:
nei giorni successivi si interessa sempre di più alla vita di quella
sconosciuta, che vive miseramente un'esistenza precaria nella periferia
parigina. Le sue ricerche, ma soprattutto le sue memorie,
riportano la ragazza in vari luoghi della metropoli, minuziosamente annotati come su di una cartina geografica, sulla falsariga degli
eventi della sua infanzia e adolescenza: come frantumi, in modo spezzato, ma
anche ripetuto, quasi ossessivo, riemergono alla superficie ricordi dolorosi, spezzoni di angoscia, lampi di paura, frutto delle
sofferenze infertele dalla madre Sonia.
Nel suo girovagare
attraverso le vie di Parigi, apparentemente in modo disordinato, Thérèse ripercorre così il suo passato e vi si immerge
nuovamente per superarlo. Molte volte, nel corso del romanzo, ella pare
affogarvi dentro; e sono superbamente rese le sofferenze di una figlia
tormentata dalla propria madre, come angoscia, paura, spesso apparentemente
immotivata, panico; ma, soprattutto, la terrificante sensazione di precipitare
verso il nulla, perché, quando non si è amati da
una madre, ci si sente davvero ingoiati dal nulla. Il nulla è Le Néant, come il cabaret vicino a casa di Thérèse (non a
caso, un appartamento in Rue Costou, situato in un palazzo dove la madre aveva vissuto in passato e in cui la giovane è andata a vivere come se
agognasse inconsapevolmente un estremo abbraccio materno), quel cabaret che
ricorda l'esistenza di ballerina di quart'ordine in cui Sonia, appassionata
di danza, è precipitata dopo un incidente alle caviglie.
Una madre che non
sapeva accudire la figlia, che indulgeva alla morfina; e la fascinazione perversa
delle droghe (l'etere, i superalcoolici, la morfina, i sonniferi) pare un
sostituto artificiale e menzognero dell'amore materno, un'illusione che, a
lampi, attraversa le pagine del libro e nella cui tentazione Thérèse si imbatte
spesso. Una madre evanescente, di cui è difficile cogliere la personalità, ma descritta in modo estremamente realistico; una madre che ha finito per abbandonare la figlia, per spedirla a
un'amica che la allevasse via treno, con un cartello appeso al collo, e che è
scomparsa, forse morta, chissà dove, nell'azzurro torrido del Marocco. Una madre che potrebbe essere morta
ippure viva: e, dalle pagine del libro, non sapremo mai se la donna dal
cappotto giallo (un colore inquietante) sia veramente lei. Forse è un miraggio, forse una proiezione: forse è il
riflesso delle paure di Bijou, che si risvegliano all'improvviso e rischiano di
sommergerla.
Attorno alla giovane,
un mondo precario, in cui persino i nomi delle persone fluttuano e sono
incerti, in cui le persone stesse appaiono in frantumi, tra appartamenti in stato di
abbandono e abitazioni provvisorie, con materassi per terra, mobili di fortuna e
stanze troppo grandi; e in questo
ambiente di esistenze alla deriva si delineano gli altri personaggi della
vicenda: i Valadier, i datori di lavoro di Thérèse, dal losco passato e che abbandonano a se stessa la figlia non meno di quanto Sonia abbia abbandonato Thérèse;
ma anche personaggi positivi, come il giovane traduttore con cui la ragazza
stringe amicizia; o, soprattutto, la farmacista che la soccorre e diventa, con la sua tenerezza sobria e dolce, un
sostituto della figura materna, una vera e propria ancora di salvezza. L'amore, la solidarietà, sono gli unici rimedi in questo universo di esistenze sospese, incerte, in frantumi.
Vengono in mente tanti
paralleli alla lettura di queste scarne, eppure densissime pagine, che
meriterebbero da sole il Nobel per lo scavo profondo della sofferenza umana,
una sofferenza antica e abissale, per la profonda umanità che dimostrano nel
ritrarre il dolore di bambini abbandonati a se stessi, obbligati a non avere
paura, ad essere soli, ad affrontare il buio, non solo fisico: viene in mente
l'acuto realismo delle pagine di Simenon su Maigret, che percorre le vie,
analogamente disadorne e cupe, di una Parigi di periferia, dove si ammucchiano
solitarie vite ai margini; viene in mente un film degli anni '70 sullo stato di abbandono
di troppi bambini, I bambini
ci guardano, oppure il romanzo di Gilbert Cesbron Cani perduti senza collare; o ancora, il
capolavoro della Nouvelle vague francese,
il nuovo cinema realistico, Les
quatrecents coups, dedicato alla sofferenza di un ragazzino a rischio. Pare che la miseria in cui molti, troppi bambini sono
stati precipitati dall'egoismo degli adulti sia un problema ricorrente
in Francia. Sorge il dubbio che i sovvertimenti politici degli ultimi due
secoli e lo sviluppo economico abbiano sconvolto le famiglie e gettato nel caos e nell'abbandono proprio i più piccoli.
E mi vengono in
mente delle parole che mi ripeto spesso, parole che una mistica del XX secolo
attribuiva nientemento che a Lui: Di
tutti sono i figli. Meno che vostri, o genitori del ventesimo secolo. Sono della nutrice, dell'istitutrice, del
collegio, se siete ricchi. Sono dei compagni, della strada, delle scuole, se
poveri. Ma non vostri. Voi mamme li generate e basta. Voi padri fate lo stesso.
Ma un figlio non è solo carne. E' mente, è cuore, è spirito. ...Nessuno più di
un padre e di una madre hanno il dovere e il diritto di formare questa mente,
questo cuore, questo spirito....(dal Poema
dell'Uomo Dio di M.Valtorta, vol.I, dettato del 21 marzo 1944).
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