sabato 26 marzo 2016

Bijou, Patrick Modiano (La petite Bijou, 2001)


Bijou, di Patrick Modiano

Un piccolo capolavoro, opera del premio Nobel per la Letteratura 2014, Patrick Modiano; un libretto  breve, ma profondo, che affonda la lama della narrazione in uno dei dolori più grandi che possano esistere: lo stato di abbandono in cui una madre può gettare i figli attraverso il suo disamore e i maltrattamenti.
 
 
Siamo negli anni '50, a Parigi. Thérèse, una giovane sui 25 anni (a dire il vero, il suo nome è citato pochissimo e viene ricordato piuttosto il soprannome impostole dalla madre, Bijou), una sera, sulla metropolitana, crede di scorgere la madre, o piuttosto una donna che le assomiglia, abbigliata di un cappotto giallo. Senza farsi scorgere, la segue: nei giorni successivi si interessa sempre di più alla vita di quella sconosciuta, che vive miseramente un'esistenza precaria nella periferia parigina. Le sue ricerche, ma soprattutto le sue memorie, riportano la ragazza in vari luoghi della metropoli, minuziosamente annotati come su di una cartina geografica, sulla falsariga degli eventi della sua infanzia e adolescenza: come frantumi, in modo spezzato, ma anche ripetuto, quasi ossessivo, riemergono alla superficie ricordi dolorosi, spezzoni di angoscia, lampi di paura, frutto delle sofferenze infertele dalla madre Sonia.

Nel suo girovagare attraverso le vie di Parigi, apparentemente in modo disordinato, Thérèse ripercorre così il suo passato e vi si immerge nuovamente per superarlo. Molte volte, nel corso del romanzo, ella pare affogarvi dentro; e sono superbamente rese le sofferenze di una figlia tormentata dalla propria madre, come angoscia, paura, spesso apparentemente immotivata, panico; ma, soprattutto, la terrificante sensazione di precipitare verso il nulla, perché, quando non si è amati da una madre, ci si sente davvero ingoiati dal nulla. Il nulla è Le Néant, come il cabaret vicino a casa di Thérèse (non a caso, un appartamento in Rue Costou, situato in un palazzo dove la madre aveva vissuto in passato e in cui la giovane è andata a vivere come se agognasse inconsapevolmente un estremo abbraccio materno), quel cabaret che ricorda l'esistenza di ballerina di quart'ordine in cui Sonia, appassionata di danza, è precipitata dopo un incidente alle caviglie.
Una madre che non sapeva accudire la figlia, che indulgeva alla morfina; e la fascinazione perversa delle droghe (l'etere, i superalcoolici, la morfina, i sonniferi) pare un sostituto artificiale e menzognero dell'amore materno, un'illusione che, a lampi, attraversa le pagine del libro e nella cui tentazione Thérèse si imbatte spesso. Una madre evanescente, di cui è difficile cogliere la personalità, ma descritta in modo estremamente realistico; una madre che ha finito per abbandonare la figlia, per spedirla a un'amica che la allevasse via treno, con un cartello appeso al collo, e che è scomparsa, forse morta, chissà dove, nell'azzurro torrido del Marocco. Una madre che potrebbe essere morta ippure viva: e, dalle pagine del libro, non sapremo mai se la donna dal cappotto giallo (un colore inquietante) sia veramente lei. Forse è un miraggio, forse una proiezione: forse è il riflesso delle paure di Bijou, che si risvegliano all'improvviso e rischiano di sommergerla.
 
 

Attorno alla giovane, un mondo precario, in cui persino i nomi delle persone fluttuano e sono incerti, in cui le persone stesse appaiono in frantumi, tra appartamenti in stato di abbandono e abitazioni provvisorie, con materassi per terra, mobili di fortuna e stanze troppo  grandi; e in questo ambiente di esistenze alla deriva si delineano gli altri personaggi della vicenda: i Valadier, i datori di lavoro di Thérèse, dal losco passato e che abbandonano a se stessa la figlia non meno di quanto Sonia abbia abbandonato Thérèse; ma anche personaggi positivi, come il giovane traduttore con cui la ragazza stringe amicizia; o, soprattutto, la farmacista che la soccorre e diventa,  con la sua tenerezza sobria e dolce, un sostituto della figura materna, una vera e propria ancora di salvezza. L'amore, la solidarietà, sono gli unici rimedi in questo universo di esistenze sospese, incerte, in frantumi.
Vengono in mente tanti paralleli alla lettura di queste scarne, eppure densissime pagine, che meriterebbero da sole il Nobel per lo scavo profondo della sofferenza umana, una sofferenza antica e abissale, per la profonda umanità che dimostrano nel ritrarre il dolore di bambini abbandonati a se stessi, obbligati a non avere paura, ad essere soli, ad affrontare il buio, non solo fisico: viene in mente l'acuto realismo delle pagine di Simenon su Maigret, che percorre le vie, analogamente disadorne e cupe, di una Parigi di periferia, dove si ammucchiano solitarie vite ai margini; viene in mente un film degli anni '70 sullo stato di abbandono di troppi bambini, I bambini ci guardano, oppure il romanzo di Gilbert Cesbron Cani perduti senza collare; o ancora, il capolavoro della Nouvelle vague francese, il nuovo cinema realistico, Les quatrecents coups, dedicato alla sofferenza di un ragazzino a rischio. Pare che la miseria in cui molti, troppi bambini sono stati precipitati dall'egoismo degli adulti sia un problema ricorrente in Francia. Sorge il dubbio che i sovvertimenti politici degli ultimi due secoli e lo sviluppo economico abbiano sconvolto le famiglie e gettato nel caos e nell'abbandono proprio i più piccoli.
E mi vengono in mente delle parole che mi ripeto spesso, parole che una mistica del XX secolo attribuiva nientemento che a Lui: Di tutti sono i figli. Meno che vostri, o genitori del ventesimo secolo.  Sono della nutrice, dell'istitutrice, del collegio, se siete ricchi. Sono dei compagni, della strada, delle scuole, se poveri. Ma non vostri. Voi mamme li generate e basta. Voi padri fate lo stesso. Ma un figlio non è solo carne. E' mente, è cuore, è spirito. ...Nessuno più di un padre e di una madre hanno il dovere e il diritto di formare questa mente, questo cuore, questo spirito....(dal Poema dell'Uomo Dio di M.Valtorta, vol.I, dettato del 21 marzo  1944).
 
 
 

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