lunedì 4 gennaio 2016

The irrational man


The irrational man, W.Allen, 2015.

Il sempre prolifico Woody Allen (quasi un film all'anno!) torna con  una gustosa commedia interpretata ottimamente da Joaquin Phoenix (abituato a parti da "cattivo": il perfido Commodo del Gladiatore, oppure il devastato reduce di The master, senza dimenticare i suoi ruoli nei film di Shyamalan, Signs e The village) e in modo credibile dalla nuova musa di Allen, Emma Stone (che, difatti, è protagonista anche del suo penultimo film, Magic in the moonlight, dell'anno scorso).
 
 
La sceneggiatura, come sempre in Woody Allen appare piuttosto compatta e calcolata al millimetro: se ci badate, di solito le sinossi dei suoi film appaiono incomprensibili, tanto sono complesse, mentre, sullo schermo, si dipanano in modo fluido come per magia. Il tema di base è quello del "delitto perfetto" ripreso da un autore amatissimo da Allen, il Dostoevskij di Delitto e castigo: perciò questo film è da considerare come un pendant di Match Point, del 2006, a detta del regista il suo migliore e sicuramente da segnalare per profondità esistenziale e filosofica.
Perché il "delitto perfetto"? In Dostoevskij il protagonista, Raskolnikov, si erge a giudice degli altri, situandosi al di là delle norme: ritiene quindi di dover uccidere una meschina usuraia, che sfrutta gli altri, come se lui fosse un essere onnipotente al di sopra delle regole. Finisce così per uccidere anche l'innocente e mite sorella della sua vittima, divenuta una testimone scomoda, dimostrando così la validità universale delle norme etiche, di cui certi "superuomini" di fine Ottocento, per protervia intellettuale, si sentivano immuni. In Match point la protervia era quella del parvenu  insignificante che, convinto di meritare chissà quale destino, è pronto a tutto, con un egoismo ripugnante.
Proprio la protervia intellettuale è al centro di questa storia, che, per certi versi sembra ricalcare il romanzo di Dostoevskij (il cui volume compare difatti in alcune scene, defilato su di un ripiano: ma lo stesso accadeva, appunto, in Match point): "Delitto chiama delitto" afferma Gill, la protagonista, e difatti è quello che puntualmente accade. Abe Lucas è un filosofo e intellettuale di grido, in piena crisi umana ed esistenziale, che si sente fallito, ha atteggiamenti cinici ed è minato dall'alcolismo. Si trasferisce in un college del Rhode Island e i suoi allievi ne adorano le lezioni; mentre una collega, Rita, lo bracca senza troppi scrupoli, una sua studentessa particolarmente dotata, Gill, comincia a subire il fascino del maturo e disincantato professore, come del mondo intellettuale che lui rappresenta. Finisce per innamorarsene e per lasciare il suo fidanzato, Roy, il classico bravo ragazzo. Un giorno, Abe e Gill ascoltano in un fast food una conversazione da cui emerge che un giudice locale, Thomas Spengler (come l'Oswald Spengler autore del Declino dell'Occidente!), è corrotto e sta provocando l'allontanamento di una madre dai figli. A quel punto, Abe recupera la sua voglia di vivere architettando il classico "delitto perfetto": decide di avvelenare il giudice e si organizza in maniera molto meticolosa, come se il delitto fosse non solo un atto di giustizia, ma anche una prodezza intellettuale. Ma non tutto va come spera, anzi, il finale costituisce una vera e propria sorpresa....
 
 
Ho parlato di protervia intellettuale. In questo caso, come Raskolnikov, Abe si sente intellettualmente superiore e in dovere di disporre della vita degli altri, con motivazioni pseudo-etiche. Come gli grida infine Gill, a corto di sofismi: "Io non posso argomentarlo come te, ma so che è sbagliato!". Uccidere è difatti profondamente sbagliato. Vorrei qui sottolineare che Allen, per quanto osannato come uno dei  maggiori intellettuali viventi, non si sente un intellettuale: anzi, come emerge spesso dai suoi film (si pensi a Manhattan) diffida dell'intellettualismo. Come spiega la madre di Gill alla figlia, i libri di Abe sono affascinanti, ma, in fin dei conti, appaiono "privi di sostanza": e proprio Abe che si scaglia contro il vuoto intellettualismo distaccato dalla vita vera, finisce per essere il classico intellettuale pieno di sofismi, "tutto fumo e niente arrosto", che non solo non fa niente di buono, ma usa la sua energia intellettuale per compiere il male. Di converso, nel personaggio di Gill, intravvediamo, così come nella Tracy di Manhattan, la nostalgia che Allen prova per il candore della giovinezza, per la purezza, di contro a tanto vano spremersi le meningi (non è un caso se ricompare qui il binomio amoroso: in Manhattan all'opposto di Tracy c'era la sofisticata Mary - Dianne Keaton; qui appare invece Rita, una figura priva di scrupoli - e anche di dignità intellettuale, verrebbe da dire).
Il film è un vero piacere, per la vista e per la mente: alla citazione dei grandi filosofi del passato, si alterna la splendida musica di Bach, alla magnifica (come sempre) fotografia (si notino alcuni paesaggi marini e tramonti, che scendono nel cuore senza essere da cartolina) si aggiunge la cura con cui vengono organizzati gli interni, in atmosfere spesso intime, accoglienti, mai casuali rispetto ai protagonisti. Come sempre, Allen rivela la necessità di circondarsi di cose belle. E, forse, come nel precedente Magic in the Moonlight, si può percepire qui la nostalgia per il soprannaturale. Magari non è casuale il ricorrere di melodie proprio di Bach, il musicista "teologo".
In fin dei conti, il tema del "delitto perfetto" rinvia non solo alla sfida intellettuale cui si sottopone la protervia intellettuale, non solo alla superbia (la hybris delle antiche tragedie greche) che vuole oltrepassare i limiti umani: esso rinvia anche alla teodicea, alla domanda sulla giustizia in questo mondo, sulla validità dell'etica, sull'esistenza di un possibile "oltre" che giustifichi le nostre norme morali e giudichi quanto avviene. Anche se Allen è ateo, ritengo non errato asserire che, non di rado, in questo film, come in Magic, affiora la nostalgia di Dio.
 
The irrational man, by W.Allen, 2015.
 
Woody Allen, always prolific  (almost one film per year!) is back with a tasty comedy, starring a very good Joaquin Phoenix (used to play the "villain": the evil Commodus of the Gladiator, or the ravaged veteran of The Master, without forgetting his roles in the movies by Shyamalan, Signs and The Village) and, with a very credible performance, Allen's new muse, Emma Stone (who, in fact, is also the protagonist of his penultimate film, Magic in the moonlight, of the last year).The script, as always in Woody Allen, looks quite compact and carefully organized; the synopsis of his films usually seem incomprehensible, so complex they are, while, on the screen, they unfold smoothly as if by magic. The basic theme is the "perfect crime", taken by an author beloved by Allen, the Dostoevsky of Crime and Punishment: this movie should be considered as a companion piece of Match Point, 2006, according to the director, his best one and definitely worth mentioning for its deep existential and philosophical meaning.
Why the "perfect crime"? In Dostoevsky's novel, the protagonist, Raskolnikov, judges the others, locating himself beyond standards: therefore he believes he must kill a petty usurer, who exploits people, as if he were an omnipotent being above the rules. He ends up to kill the innocent and meek sister of his victim too, an uncomfortable witness, thus demonstrating the universal validity of ethical norms, which certain "supermen" of the late nineteenth century, because of their intellectual arrogance, wanted to neglect. In Match point it was the arrogance of the insignificant upstart, who believes he deserves everything, who is ready for anything, with a repulsive selfishness.



Intellectual arrogance is at the center of this story, which, in some ways, seems to follow the novel by Dostoyevsky (the volume in fact appears in some scenes, set back on a shelf, but the same was true in Match point): "Crime calls crime" says Gill, the protagonist: and that's what happens. Abe Lucas is a philosopher and intellectual shout, sunk in a human and existential crisis; he feels failed, shows cynical attitudes and is undermined by alcoholism. He moves into a college in Rhode Island and his students love his lessons; while a colleague, Rita, hunts him without any scruple, his most gifted student, Gill, begins to be charmed by the mature and disenchanted professor, as by the intellectual world he represents. She ends up falling in love with him and leaving her boyfriend, Roy, the classic good guy. One day, at a fast food, Abe and Gill listen to a conversation which shows that a local judge, Thomas Spengler (like the Oswald Spengler of the Decline of the west!) is corrupted and is causing the removal of a mother from her children. At that point, Abe recovers his will to live plotting the classic "perfect crime": he decides to poison the judge and organizes the murder in a very meticulous way, as if the crime were not only an act of justice, but also an intellectual prowess. But not everything goes as hoped, indeed, and the final is a real surprise....
 
I spoke of intellectual arrogance. In this case, like Raskolnikov, Abe feels intellectually superior and compelled to dispose of the life of others, with pseudo-ethical reasons. As Gill finally cries out, being short of sophistry: "I can't argue it like you, but I know it's wrong." Killing is very wrong indeed. I would like to emphasize here that Allen, acclaimed as one of the greatest living intellectuals, does not feel such: indeed, as it often emerges from his films (think of Manhattan) he warns against intellectualism. As explained by the mother of Gill, Abe's books are fascinating, but, after all, appear "unsubstantiated"; and Abe, who battles against empty intellectualism, detached from real life, ends up being the classic intellectual full of sophistry, "all smoke and no fire," who not only does no good, but uses his intellectual energy to do evil. Conversely, in the character of Gill, we  glimpse, as in Tracy in Manhattan, Allen's nostalgia for the innocence of youth, for purity, in contrast to such a vain racking one's brains (not a coincidence, here we have the binomial love: in Manhattan the opposite of Tracy was the sophisticated Mary - Dianne Keaton; here Rita appears instead, an unscrupulous figure - and even without intellectual dignity, one might say).
The film is a true pleasure for the eyes and the mind: quotes of the great philosophers of the past, the beautiful music by Bach, the great (as always) photography (note some seascapes and sunsets, which descend in your heart without looking like postcards), the care with which interiors are organized, in intimate, cozy atmospheres, always fitting the main characters. As always, Allen reveals the need to surround himself with beautiful things. And, perhaps, as in the previous Magic in the Moonlight, here you can sense a longing for the supernatural.
Maybe it's not hazard the presence of melodies by Bach, the "theologian" of music.
After all, the theme of the "perfect crime" refers not only to intellectual arrogance, not only to pride (the hybris of ancient, Greek tragedies) that wants to go beyond human limits: it also refers to theodicy, to the question about justice in this world, the validity of ethics, the existence of a possible "beyond", to justify our moral norms and judging what happens. Although Allen is an atheist, I claim that, not infrequently, in this film, as in Magic, one can sense some nostalgia of his for God.
 
 

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