Il ponte delle spie
Il ponte del titolo è quello di Glienicke, presso Berlino, dove, nel corso del film, deve avvenire uno scambio di prigionieri tra Americani e Sovietici.
Siamo nel 1960 e, sotto l’impulso della nuova politica della “distensione” fra Est e Ovest favorita dall’avvento al potere in URSS di Nikita Kruschev e dall’era Kennedy negli USA, si abbozzano tentativi di riassetto della Guerra Fredda, fra continue, brusche impennate di bellicismo e ostilità reciproca. Si combatte in conflitti eccentrici rispetto all’Europa, oppure tramite le spie. Così, a New York viene arrestato dall’FBI (in una movimentatissima scena iniziale da grande thriller) il colonnello Abel (interpretato magnificamente da Mark Rylance), ben presto imputato di attività spionistica.
La sua difesa viene affidata a
Jim Donovan (interpretato da Tom Hanks), un avvocato di origine irlandese,
socio di un prestigioso studio legale e specializzato nel diritto assicurativo;
ha però prestato servizio anche nel team del
procuratore statunitense al processo di Norinberga. Dopo alcune esitazioni,
Donovan accetta, ma si rende ben presto conto che la volontà di assicurare un
equo processo all’accusato è tutta facciata: il verdetto è già scritto, l’ostilità
contro Abel è onnipresente, sia nei media,
che tra il popolino, che tra le alte cariche dello Stato, e Donovan si
ritrova ripetutamente confrontato col muro della mala fede, vedendosi
ad esempio respingere dal giudice una dopo l’altra le sue mozioni che puntano il dito su
gravi infrazioni alla procedura (ad esempio, la perquisizione della stanza d’albergo
di Abel è stata compiuta senza mandato).
Per salvare il suo cliente dalla sedia elettrica, Donovan sfrutta però l’idea cardine che avrebbe dovuto sorreggere il dibattimento: cioè, che il processo Abel rappresenta anche e soprattutto una formidabile messa alla prova del sistema democratico statunitense, dei suoi valori, della sua fede nella giustizia, nell’eguaglianza, nella possibilità di ricevere un equo processo senza pregiudizi di parte; e questi valori fondamentali dovranno risplendere non solo agli occhi dei cittadini americani, ma anche del mondo intero, in particolare degli avversari sovietici, i cui metodi verranno così a loro volta messi in questione. Quindi, alla presenza del giudice, l’avvocato si pone la domanda: e se i Sovietici arrestassero uno dei nostri con le stesse imputazioni di Abel, che cosa vorremmo che gli facessero? E se ci trovassimo nella condizione di dovere scambiare Abel con uno dei nostri? La cattura del pilota Gary Powers, sorpreso dai Sovietici mentre, con un aereo spia, scattava fotografie compromettenti ad alta quota, diventa l’occasione perché lo scambio abbia effettivamente luogo: e per predisporlo la CIA chiama proprio Donovan. Questi però si trova ben presto nella spinosa situazione di dover, con un solo Russo, salvare ben due cittadini americani: non solo Powers, ma anche Frederic Pryor, uno studente di Economia arrestato a Berlino Est….
Per salvare il suo cliente dalla sedia elettrica, Donovan sfrutta però l’idea cardine che avrebbe dovuto sorreggere il dibattimento: cioè, che il processo Abel rappresenta anche e soprattutto una formidabile messa alla prova del sistema democratico statunitense, dei suoi valori, della sua fede nella giustizia, nell’eguaglianza, nella possibilità di ricevere un equo processo senza pregiudizi di parte; e questi valori fondamentali dovranno risplendere non solo agli occhi dei cittadini americani, ma anche del mondo intero, in particolare degli avversari sovietici, i cui metodi verranno così a loro volta messi in questione. Quindi, alla presenza del giudice, l’avvocato si pone la domanda: e se i Sovietici arrestassero uno dei nostri con le stesse imputazioni di Abel, che cosa vorremmo che gli facessero? E se ci trovassimo nella condizione di dovere scambiare Abel con uno dei nostri? La cattura del pilota Gary Powers, sorpreso dai Sovietici mentre, con un aereo spia, scattava fotografie compromettenti ad alta quota, diventa l’occasione perché lo scambio abbia effettivamente luogo: e per predisporlo la CIA chiama proprio Donovan. Questi però si trova ben presto nella spinosa situazione di dover, con un solo Russo, salvare ben due cittadini americani: non solo Powers, ma anche Frederic Pryor, uno studente di Economia arrestato a Berlino Est….
Questa all’incirca la trama del Ponte delle spie, uno dei film migliori
(se non il migliore) dell’ultima annata, firmato Steven Spielberg e
incentrato su fatti reali. Infatti, a
parte alcune limitate libertà (la vicenda viene concentrata tra 1960 e 1961,
quando invece lo scambio avvenne nel 1962; alcuni fatti, come il furto del cappotto di Donovan a Berlino Est,
sono inventati, nel caso specifico per sottolineare le condizioni tremende in cui
versava la città dopo la sconfitta della Seconda Guerra Mondiale; Donovan non
fu sottoposto a minacce ecc.), la sceneggiatura, firmata addirittura dai fratelli Cohen e
da Matt Charman, ricostruisce attentamente la storia di quegli anni, ivi compresa la costruzione del famigerato muro di Berlino.
E’ una sceneggiatura attentamente studiata, in cui i dialoghi assumono un’importanza fondante, di scontro di idee e visioni del mondo, di rivelatori dei valori basilari delle nostre società occidentali: tanto che per tutta la prima parte del film, un calibratissimo legal thriller, appare chiarissimo come Donovan non stia lottando solo per difendere Abel, il “nemico”, ma, soprattutto, “per noi”, come sottolinea: perché, appena i valori democratici venissero messi a repentaglio, anche solo a danno di qualcuno che, apparentemente, non li merita, saremmo tutti in pericolo. Il che viene ampiamente dimostrato poi dal seguito della storia. “Lei è Tedesco, io sono Irlandese”, afferma Donovan a colloquio con l’agente della CIA Hoffmann, che seguirà poi tutta l’operazione di scambio; “Che cosa ci rende Statunitensi? La Costituzione”; e questa difesa, così genuinamente americana, dei valori democratici è costante e intensa, sostenuta senza enfasi, ma con convinzione.
E’ la convinzione di Jim Donovan, un decent man, lo si potrebbe definire in Inglese, una normale, brava persona, con un lavoro, una famiglia, dei figli in età adolescenziale, ben lungi dall’essere un eroe, ma che opera secondo i valori in cui crede profondamente, con discrezione e buona volontà, nella quotidianità e per il meglio delle persone che lo circondano; e che, grazie a quella quotidiana buona volontà giunge a compiere qualcosa di eccezionale. Tom Hanks, con la sua consueta professionalità, che sa adattarsi ai ruoli più eterogenei, conferisce grande spessore a quest’uomo normale, privo di doti eccezionali, ma eccezionale per la dedizione con cui cerca di portare a termine il suo arduo compito (si noti la scena finale in cui i figli scoprono con stupore quanto ha fatto il padre).
Accanto a Tom Hanks, spicca la magnifica interpretazione di Mark Rylance nei panni del colonnello Rudolf Abel: anch’essa discreta, quasi dimessa, low-key, ma intensa e genuina, tanto che l’attore (nominato, non a caso, per l’Oscar come migliore attore non protagonista), inglese, sembra davvero un contadino russo elevato al ruolo d’intelligence da un duro addestramento nel KGB (anche se Abel era nato in Inghilterra: e tanto di cappello a Rylance, perché gli attori britannici appaiono di solito, di primo acchito, così britannici che, al solo vederli sullo schermo vengono in mente le note di God save the Queen; si badi ad esempio a quanto poco “tedesco” appaia l’interprete dell’agente Hoffmann, l'Americano Scott Shepherd). Rylance sembra russo in quel che di apparentemente inerte del mujik, del contadino abituato a tutte le disgrazie, ma che, come afferma lui nel film, impara a rialzarsi dopo ogni colpo; in quell’humour dimesso e intinto di ironia con cui continua a rispondere a Jim, che gli chiede ripetutamente se è preoccupato: “Could it help?” “Potrebbe servire?”. Fin dalle prime battute stupisce la formidabile alchimia che si è creata tra questi due attori, che danno vita sullo schermo a una coppia straordinaria, la cui amicizia e intesa sono percepibili.
E’ una sceneggiatura attentamente studiata, in cui i dialoghi assumono un’importanza fondante, di scontro di idee e visioni del mondo, di rivelatori dei valori basilari delle nostre società occidentali: tanto che per tutta la prima parte del film, un calibratissimo legal thriller, appare chiarissimo come Donovan non stia lottando solo per difendere Abel, il “nemico”, ma, soprattutto, “per noi”, come sottolinea: perché, appena i valori democratici venissero messi a repentaglio, anche solo a danno di qualcuno che, apparentemente, non li merita, saremmo tutti in pericolo. Il che viene ampiamente dimostrato poi dal seguito della storia. “Lei è Tedesco, io sono Irlandese”, afferma Donovan a colloquio con l’agente della CIA Hoffmann, che seguirà poi tutta l’operazione di scambio; “Che cosa ci rende Statunitensi? La Costituzione”; e questa difesa, così genuinamente americana, dei valori democratici è costante e intensa, sostenuta senza enfasi, ma con convinzione.
E’ la convinzione di Jim Donovan, un decent man, lo si potrebbe definire in Inglese, una normale, brava persona, con un lavoro, una famiglia, dei figli in età adolescenziale, ben lungi dall’essere un eroe, ma che opera secondo i valori in cui crede profondamente, con discrezione e buona volontà, nella quotidianità e per il meglio delle persone che lo circondano; e che, grazie a quella quotidiana buona volontà giunge a compiere qualcosa di eccezionale. Tom Hanks, con la sua consueta professionalità, che sa adattarsi ai ruoli più eterogenei, conferisce grande spessore a quest’uomo normale, privo di doti eccezionali, ma eccezionale per la dedizione con cui cerca di portare a termine il suo arduo compito (si noti la scena finale in cui i figli scoprono con stupore quanto ha fatto il padre).
Accanto a Tom Hanks, spicca la magnifica interpretazione di Mark Rylance nei panni del colonnello Rudolf Abel: anch’essa discreta, quasi dimessa, low-key, ma intensa e genuina, tanto che l’attore (nominato, non a caso, per l’Oscar come migliore attore non protagonista), inglese, sembra davvero un contadino russo elevato al ruolo d’intelligence da un duro addestramento nel KGB (anche se Abel era nato in Inghilterra: e tanto di cappello a Rylance, perché gli attori britannici appaiono di solito, di primo acchito, così britannici che, al solo vederli sullo schermo vengono in mente le note di God save the Queen; si badi ad esempio a quanto poco “tedesco” appaia l’interprete dell’agente Hoffmann, l'Americano Scott Shepherd). Rylance sembra russo in quel che di apparentemente inerte del mujik, del contadino abituato a tutte le disgrazie, ma che, come afferma lui nel film, impara a rialzarsi dopo ogni colpo; in quell’humour dimesso e intinto di ironia con cui continua a rispondere a Jim, che gli chiede ripetutamente se è preoccupato: “Could it help?” “Potrebbe servire?”. Fin dalle prime battute stupisce la formidabile alchimia che si è creata tra questi due attori, che danno vita sullo schermo a una coppia straordinaria, la cui amicizia e intesa sono percepibili.
Parlavo dei meriti della
sceneggiatura. Ben articolata, compatta, in cui nulla avviene a caso, con un sapiente equilibrio tra discussione, azione e sentimenti, risente però
della forte spaccatura in due del film: al legal
thriller, infatti, succede, nella seconda parte, la spy story. Anche il quadro ideale sembra subire uno scarto: pure
se i valori di riferimento rimangono quelli della democrazia, tuttavia il cuore
dell’azione di Donovan, che si sposta ora a Berlino Est, si focalizza ora sulla salvezza della persona singola, particolare.
Le trattative fra Donovan e i vari emissari comunisti (i Sovietici da un lato,
i Tedeschi della DDR dall’altro) rallentano e, a tratti, complicano la
sceneggiatura nella sezione finale, inducendo forse volutamente un certo smarrimento. Tuttavia, l’equilibrio della costruzione è indubbio, cosicché i
fattori ideali emergono spontaneamente tra dialoghi, garbate battute di humour
e sequenze in cui prevale l’azione.
Tra gli attori secondari, ricordiamo Amy Ryan (che però non ha la possibilità di emergere come potrebbe: si ricordi la sua magnifica interpretazione della madre drogata della bambina rapita di Gone, Baby, Gone, del 2006) e Sebastian Koch, divenuto famoso a livello internazionale con Le vite degli altri, sempre del 2006 (più vado avanti, più nutro l’impressione che i direttori di casting abbiano poca fantasia: a parte la bravura, Sebastian Koch fa parte di quegli attori noti in patria che, conseguita la celebrità con un film di successo internazionale, vengono poi riciclati in continuazione appena una produzione hollywoodiana sbarca nei loro paesi d’origine; è successo pure a Jean Dujardin dopo The artist, francese, o agl’interpreti giapponesi de L’ultimo samurai; e, dato che qui Koch interpreta un ufficiale della Stasi, mentre ne Le vite degli altri, era una vittima sempre della Stasi, verrebbe da dire, come in Russia si dice del KGB, “Stasi una volta, Stasi per tutta la vita).
Tra gli attori secondari, ricordiamo Amy Ryan (che però non ha la possibilità di emergere come potrebbe: si ricordi la sua magnifica interpretazione della madre drogata della bambina rapita di Gone, Baby, Gone, del 2006) e Sebastian Koch, divenuto famoso a livello internazionale con Le vite degli altri, sempre del 2006 (più vado avanti, più nutro l’impressione che i direttori di casting abbiano poca fantasia: a parte la bravura, Sebastian Koch fa parte di quegli attori noti in patria che, conseguita la celebrità con un film di successo internazionale, vengono poi riciclati in continuazione appena una produzione hollywoodiana sbarca nei loro paesi d’origine; è successo pure a Jean Dujardin dopo The artist, francese, o agl’interpreti giapponesi de L’ultimo samurai; e, dato che qui Koch interpreta un ufficiale della Stasi, mentre ne Le vite degli altri, era una vittima sempre della Stasi, verrebbe da dire, come in Russia si dice del KGB, “Stasi una volta, Stasi per tutta la vita).
Un altro aspetto molto importante
del film è la sua estetica: oltre alla minuziosa ricostruzione degli ambienti e dell'atmosfera fine anni '50, privi del lato zuccheroso di tanti film sull'epoca, bensì fortemente realistici (sembra di essere veramente negli States), penso soprattutto alla fotografia. Le
inquadrature, come sempre in Spielberg, ma in questo film in particolare, sono curatissime:
per esempio, quelle di molti dialoghi, che sfruttano intensi chiaroscuri, l’alternarsi
delle ombre oppure la geometria degl’interni (si pensi ad alcune magnifiche
riprese in cui il contrapporsi di Jim e Abel è sottolineato dalle fughe delle
piastrelle del penitenziario, oppure dalle sbarre delle sue finestre; oppure al dialogo tra Donovan e Hoffmann, reso più intenso dalle ombre di un night su sfondi bruni e blu), ma anche
varie riprese dal basso, come durante la perquisizione iniziale, che
evidenziano la meccanica di potere in atto. Anche altri accorgimenti servono a
Spielberg per enfatizzare la dura logica del potere: soprattutto, gli oggetti, inquadrati
in dettaglio, come anche in altri suoi film (si pensi solo a Schindler’s List)
possiedono una densità simbolica che buca lo schermo (le lampadine dei flash
dei fotografi, abbandonate in frantumi sul pavimento del tribunale; le foto dei cari, posizionate su scrivanie e vicino alla cloche degli aerei, emblema parlante di quello che i valori democratici devono difendere; il telefono da cui Donovan
attende la chiamata degli emissari DDR ecc.). Non di rado, inoltre, simboli di
potere si insinuano nelle inquadrature quasi a organizzarne lo spazio: la
bandiera americana tra Jim e la moglie dopo il processo; il busto di Marx nella
fuga di porte all’ambasciata russa e così via. Magnifiche risultano poi alcune
inquadrature finali del ponte dello scambio, Glienicke: e anche se il film
rinuncia agli eccessi dell’action movie, della
spettacolarizzazione, del tono sopra le righe, o ai contrasti cromatici
violenti (prevale una palette neutra,
se non fredda), le immagini sono di grande effetto e meritevoli non di rado di
entrare nella storia della cinematografia.
Il ponte delle spie non è un film enfatico, spettacolare, un blockbuster: è un film serio, ma avvincente, che riesce a rendere in forma drammatica questioni fondamentali per la nostra civiltà proprio in un momento in cui essa è in pericolo. Lo spessore umano dei protagonisti (insisto ancora sui ritratti in bella vista sulle scrivanie) ci ricorda che democrazia, uguaglianza, libertà, non sono orpelli, o parole vuote, bensì che esse si incarnano nella vita concreta di ciascuno di noi: e proprio per questo la pellicola equilibra tanto bene pensiero ed emozioni. Come osservava giustamente uno dei miei allievi, Andrea, Spielberg non ha creato un film "manicheo", di buoni contro cattivi: il bene e il male esistono da entrambe le parti, si manifestano in persone "normali", anche se è indubbio che la democrazia difenda valori più alti. Ed essa è in pericolo anche negli USA: la prima parte evidenzia storture del sistema giudiziario americano cui ho assistito di persona. In un periodo di allerte e allarmi vari, in cui a ogni momento sembra che la nostra civilizzazione possa disfarsi, sia per le spinte esterne che per gli errori commessi dall'interno, ricordare che la Costituzione difende ogni singolo essere umano è estremamente significativo.
Bridge of spies
The bridge of the title is Glienicke, near Berlin, where, during the film, there should be an exchange of prisoners between Americans and Soviets.
We are in 1960 and, under the impetus of the new policy of "detente" between East and West favored by USSR leader Nikita Khrushchev and the Kennedy era in the US, peace attempts are sketched to end the Cold War, among continuous, sharp rises of warmongering and mutual hostility. Superpowers fight in eccentric conflicts outside of Europe or by spies. Thus, in New York FBI arrests (in a very animated opening scene fitting a great thriller) Colonel Abel (played beautifully by Mark Rylance), soon accused of espionage.
We are in 1960 and, under the impetus of the new policy of "detente" between East and West favored by USSR leader Nikita Khrushchev and the Kennedy era in the US, peace attempts are sketched to end the Cold War, among continuous, sharp rises of warmongering and mutual hostility. Superpowers fight in eccentric conflicts outside of Europe or by spies. Thus, in New York FBI arrests (in a very animated opening scene fitting a great thriller) Colonel Abel (played beautifully by Mark Rylance), soon accused of espionage.
His defense is headed by Jim Donovan (played by Tom Hanks), a lawyer of Irish descent, a member of a prestigious law firm and specialized in insurance law; but he has also served the team of US prosecutor at the Nuremberg trial. After some hesitation, Donovan accepts, but he soon realizes that the will to ensure a fair trial to the accused is just a facade: the verdict is already written, the hostility against Abel is omnipresent, both in the media, than among the populace and the highest offices of State, and Donovan finds himself repeatedly confronted with the wall of bad faith, seeing the judge rejecting one by one his motions pointing to serious breaches of procedure (for example, the search in the hotel room of Abel was done without a warrant).
To save his client from the electric chair, Donovan uses the key idea that should hold the debate: namely, that the Abel trial is above all a formidable challenge for the US democratic system, its values, its faith in justice, in equality, in the possibility to get a fair trial without bias; and these core values will shine not only in the eyes of American citizens, but also of the whole world, particularly of the Soviet adversaries, whose methods are so called into question in turn. So, before the judge, the lawyer asks: what if the Soviets arrested one of ours with the same charges than Abel's? And if we were in the position of having to swap Abel with one of ours? The arrest of pilot Gary Powers, surprised by the Soviets while, with a spy plane, he was taking compromising photographs at high altitude, becomes the opportunity for the exchange taking place: and the CIA calls Donovan to prepare it. However, he is soon in the thorny position of having, one Russian, to save two American citizens: not only Powers, but also Frederic Pryor, a student of Economics arrested in East Berlin ....
To save his client from the electric chair, Donovan uses the key idea that should hold the debate: namely, that the Abel trial is above all a formidable challenge for the US democratic system, its values, its faith in justice, in equality, in the possibility to get a fair trial without bias; and these core values will shine not only in the eyes of American citizens, but also of the whole world, particularly of the Soviet adversaries, whose methods are so called into question in turn. So, before the judge, the lawyer asks: what if the Soviets arrested one of ours with the same charges than Abel's? And if we were in the position of having to swap Abel with one of ours? The arrest of pilot Gary Powers, surprised by the Soviets while, with a spy plane, he was taking compromising photographs at high altitude, becomes the opportunity for the exchange taking place: and the CIA calls Donovan to prepare it. However, he is soon in the thorny position of having, one Russian, to save two American citizens: not only Powers, but also Frederic Pryor, a student of Economics arrested in East Berlin ....
This is the plot of Bridge of spies, one of the best films (if not the best) of the last year, signed by Steven Spielberg and focused on real facts. In fact, apart from some limited inaccuracies (the story takes place between 1960 and 1961, while the exchange took place in 1962; some facts, such as the theft of the Donovan's coat in East Berlin, are invented, in this case to highlight the terrible conditions besetting the city after the defeat of World War II; Donovan was not subdued to threats etc.), the screenplay, written by brothers Cohen and Matt Charman, carefully reconstructs the history of those years, including the construction of the infamous Berlin Wall.It 's a script carefully studied, where dialogues are an important cornerstone for confrontation of ideas and visions of the world, for expressing the basic values of our Western societies: so much so for the first part of the film, a calibrated legal thriller where it appears clear how Donovan is not struggling just to defend Abel, the "enemy", but, above all, "for us", as he points out: in fact, as soon as democratic values are under threat, even to the detriment of someone who, apparently, does not deserve them, we'd all be in danger. That is amply showed by the rest of the story. "You'are German, I'm Irish," Donovan says with CIA agent Hoffmann, who will follow the whole operation; "What makes us Americans? The Constitution"; and this defense, so genuinely American, of democratic values is constant and intense, sustained without emphasis, but with conviction.
And it's the conviction of Jim Donovan, a decent man, a normal, nice person with a job, a family, children in their teens, far from being a hero, but operating under the values he believes in deeply, with discretion and good will, in everyday life and for the best of people around him; and that, thanks to his daily good will, comes to do something exceptional. Tom Hanks, with his usual professionalism, that can adapt to the most diverse roles, gives great depth to this normal man, with no exceptional gifts, but great for the dedication with which he tries to carry out his difficult task (note the final scene when his children discover with amazement what their father did).Opposite Tom Hanks, there stands the magnificent interpretation by Mark Rylance in the role of Colonel Rudolf Abel: discreet, almost humble, low-key, but intense and genuine, so much so that the actor (named, not surprisingly, for the Oscar for Best Supporting Actor), English, looks like a Russian peasant elevated to the role of spy by a hard training in the KGB (although Abel was born in England; and hats off to Rylance, because British actors usually look, at first glance, so British, that only seeing them on the screen you get in your mind the notes of God Save the Queen; mind, for example, how little "German" the American Scott Shepherd appears interpreting CIA agent Hoffmann). Rylance seems Russian like an inert mujik, a farmer used to all misfortunes, but that, as he says in the film, learns to get up after every shot; and with resigned irony he continues to answer to Jim, who asked repeatedly if he was worried: "Could it help?". Right from the start it is surprising the terrific chemistry that has developed between these two actors, who give life on the screen to an amazing couple, whose friendship and understanding are perceptible.
I spoke of the merits of the script. Well articulated, compact, where nothing happens by chance, with a wise balance between discussion, action and feelings, however, it is affected by the sharp split in two parts of the film: the legal thriller, in fact, and, in the second part, the spy story. The ideal framework seems to undergo a difference: even if the reference values are always those of democracy, the heart of the action of Donovan, who moves to East Berlin, now focuses on saving the single person. Negotiations between Donovan and the various communists (the Soviets on the one hand, the Germans of the DDR on the other) slow and, at times, complicate the script in the final section, perhaps deliberately causing some confusion. However, the balance of the whole is no doubt, so ideals emerge spontaneously among dialogues, graceful strokes of humor and sequences where action prevails.
I spoke of the merits of the script. Well articulated, compact, where nothing happens by chance, with a wise balance between discussion, action and feelings, however, it is affected by the sharp split in two parts of the film: the legal thriller, in fact, and, in the second part, the spy story. The ideal framework seems to undergo a difference: even if the reference values are always those of democracy, the heart of the action of Donovan, who moves to East Berlin, now focuses on saving the single person. Negotiations between Donovan and the various communists (the Soviets on the one hand, the Germans of the DDR on the other) slow and, at times, complicate the script in the final section, perhaps deliberately causing some confusion. However, the balance of the whole is no doubt, so ideals emerge spontaneously among dialogues, graceful strokes of humor and sequences where action prevails.
Among the supporting players, I recall Amy Ryan (but she does not have the opportunity to emerge as she could: remember his superbe interpretation of the addicted mother of the kidnapped child in Gone, Baby, Gone, 2006) and Sebastian Koch, who became famous with The Lives of Others, 2006 (the more I go on, the more I have the impression that casting directors have little imagination: apart from his talent, Sebastian Koch is one of those well-known actors at home, who achieved stardom with a film of international success, and who are then recycled continuously when a Hollywood production lands in their countries of origin; it happened also to Jean Dujardin after The artist, or to the Japanese interpreters of The Last Samurai; and, given that here Koch plays a Stasi officer, while in The Lives of Others, he was a victim of the Stasi, one might say, as for Russian KGB, "once Stasi, Stasi for life).
Another very important aspect of the film is its aesthetics: in addition to the meticulous reconstruction of the environment and the atmosphere of the late 50s, without the sugary side of so many films on the age, but in a highly realistic way (it seems to be really in the States), I think especially of photography. The shots, as always in Spielberg, but in this film in particular, are very well cared: for example, those about many dialogues, exploiting an intense chiaroscuro, the changing of the shadows or the geometry of interiors (think of some magnificent shots where the opposition of Jim and Abel is underlined by the spaces between the tiles of the penitentiary or by the bars of its windows; or the dialogue between Donovan and Hoffmann is made more intense by the shadows of a night-club with a brown and blue background); on several occasions shots from below, as during the initial search, highlight the frame of power. Other means are used by Spielberg to emphasize the hard logic of power: especially, objects, framed in detail, as well as in his other films (just think of Schindler's List) have a symbolic density that can not be missed (the bulbs of photographers, abandoned on the floor of the court; the photos of loved ones, positioned on desks or near the aircraft control stick, a powerful symbol talking about what democratic values defend; the phone from which Donovan is waiting the call of DDR emissaries etc. ). Not infrequently, also symbols of power creep into the shots almost to organize the space: the American flag between Jim and his wife after the trial; the bust of Marx in the Russian embassy and so on. Some shots of the bridge after the exchange are magnificent, and although the film avoids the excesses of an action movie, a showy attitude or violent colors (a neutral, if not cold palette prevails), the images are impressive and often deserving to enter the history of cinematography.
Bridge of the spies is not an emphatic, spectacular movie, nor a blockbuster: it is a serious, but exciting film, it can express in a dramatic form fundamental questions for our civilization at a time when it is in danger. The human dimension of the protagonists (I still insist on portraits in plain sight on desks) reminds us that democracy, equality, freedom, are no frills, nor empty words, but that they are embodied in the concrete life of each one of us; that's why the film balances so well thought and emotions. As it was rightly observed by one of my students, Andrea, Spielberg has not created a "Manichean" movie, of good people against evil ones: good and evil exist on both sides, they are manifested in "normal" people, although there is no doubt that democracy defends higher values. And it is in danger in the US too: the first part highlights distortions of the American judicial system which I personally witnessed. At a time of various alerts and alarms, when our civilization seems in danger, both for the external pressures than for the mistakes made from the inside, remembering that the Constitution defends every human being is extremely significant.
Another very important aspect of the film is its aesthetics: in addition to the meticulous reconstruction of the environment and the atmosphere of the late 50s, without the sugary side of so many films on the age, but in a highly realistic way (it seems to be really in the States), I think especially of photography. The shots, as always in Spielberg, but in this film in particular, are very well cared: for example, those about many dialogues, exploiting an intense chiaroscuro, the changing of the shadows or the geometry of interiors (think of some magnificent shots where the opposition of Jim and Abel is underlined by the spaces between the tiles of the penitentiary or by the bars of its windows; or the dialogue between Donovan and Hoffmann is made more intense by the shadows of a night-club with a brown and blue background); on several occasions shots from below, as during the initial search, highlight the frame of power. Other means are used by Spielberg to emphasize the hard logic of power: especially, objects, framed in detail, as well as in his other films (just think of Schindler's List) have a symbolic density that can not be missed (the bulbs of photographers, abandoned on the floor of the court; the photos of loved ones, positioned on desks or near the aircraft control stick, a powerful symbol talking about what democratic values defend; the phone from which Donovan is waiting the call of DDR emissaries etc. ). Not infrequently, also symbols of power creep into the shots almost to organize the space: the American flag between Jim and his wife after the trial; the bust of Marx in the Russian embassy and so on. Some shots of the bridge after the exchange are magnificent, and although the film avoids the excesses of an action movie, a showy attitude or violent colors (a neutral, if not cold palette prevails), the images are impressive and often deserving to enter the history of cinematography.
Bridge of the spies is not an emphatic, spectacular movie, nor a blockbuster: it is a serious, but exciting film, it can express in a dramatic form fundamental questions for our civilization at a time when it is in danger. The human dimension of the protagonists (I still insist on portraits in plain sight on desks) reminds us that democracy, equality, freedom, are no frills, nor empty words, but that they are embodied in the concrete life of each one of us; that's why the film balances so well thought and emotions. As it was rightly observed by one of my students, Andrea, Spielberg has not created a "Manichean" movie, of good people against evil ones: good and evil exist on both sides, they are manifested in "normal" people, although there is no doubt that democracy defends higher values. And it is in danger in the US too: the first part highlights distortions of the American judicial system which I personally witnessed. At a time of various alerts and alarms, when our civilization seems in danger, both for the external pressures than for the mistakes made from the inside, remembering that the Constitution defends every human being is extremely significant.
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