mercoledì 9 dicembre 2015

Viaggio dentro De Chirico 3 parte


Viaggio dentro De Chirico. 3 parte

Firenze. Seconda tappa

De Chirico arriva a Firenze, dove abitano degli zii, nel 1910, a dire il vero dopo un periodo a Milano: è ancora debole di salute (soffre da alcuni anni di problemi intestinali, provocati dal contraccolpo della morte del padre) e si sente debole. Dice nelle sue memorie che nel capoluogo toscano la sua salute peggiorò ancora: "Il periodo böckliniano era passato ed avevo cominciato a dipingere soggetti ove cercavo di esprimere quel forte e misterioso sentimento che avevo scoperto nei libri di Nietzsche: la malinconia delle belle giornate d’autunno, di pomeriggio, nelle città italiane”.
Il primo quadro veramente metafisico è l'Enigma di un pomeriggio d'autunno, appunto, del 1910.


Il pittore stesso racconta: «... In un limpido pomeriggio autunnale ero seduto su una panca al centro di piazza Santa Croce a Firenze. Naturalmente non era la prima volta che vedevo quella piazza: ero uscito da una lunga e dolorosa malattia intestinale ed ero quasi in uno stato di morbida sensibilità. Tutto il mondo che mi circondava, finanche il marmo degli edifici e delle fontane, mi sembrava convalescente. Al centro della piazza si erge una statua di Dante, vestita di una lunga tunica, il quale tiene le sue opere strette al proprio corpo ed il capo coronato dall'alloro pensosamente reclinato... Il sole autunnale, caldo e forte, rischiarava la statua e la facciata della chiesa. Allora ebbi la strana impressione di guardare quelle cose per la prima volta e la composizione del dipinto si rivelò all'occhio della mia mente.Ora, ogni volta che guardo questo quadro, rivedo ancora quel momento. Nondimeno il momento è un enigma per me, in quanto esso è inesplicabile. Mi piace anche chiamare enigma l'opera da esso derivata". 

Firenze non è una meta qualsiasi. A parte il fatto che la sua cultura è sempre stata legata a filo doppio a quella ferrarese (città rinascimentali entrambe e segnate dalla prospettiva rinascimentale), nella prima metà del Novecento era una delle capitali culturali del Regno d'Italia. Nel Primo Dopoguerra vi erano edite molte riviste delle avanguardie, qui esercitava come critico Eugenio Montale e una lunga serie di artisti e autori si ritrovava al mitico bar delle "Giubbe Rosse" in Piazza Repubblica. Ma qui siamo ancora negli anni immediatamente precedenti la Grande Guerra.
Piazza Santa Croce, qui trasfigurata, è la più ampia di Firenze: pochi sanno che è stata costruita secondo le proporzioni dettate dalla sezione aurea, il che le conferisce una particolare armonia. Il monumento di Dante è quello ricordato in una delle sue due canzoni del 1818, le prime, da Giacomo Leopardi. Sullo sfondo, la splendida facciata piena di armonia di Santa Croce. Ora l'artista "trasfigura" la piazza, che diventa irriconoscibile: la basilica diviene una specie di tempio classico, con tanto di frontone e podio; la statua, in cui Dante è invisibile, pare altrettanto un cimelio antico; dietro i muri in mattoni che costituiscono lo sfondo della scena s'intravvede una vela (un porto? A Firenze non esiste), mentre la stessa quinta in mattoni pare ricordare certe strade di Pompei. Infine, quel cielo, che pare di smalto, lo stesso smalto di certi sfondi quattrocenteschi: e la luce radente, una luce da tramonto. Gli elementi del quadro sono del tutto classici, domina ancora la geometria, i colori sono caldi, autunnali: eppure, il quadro lievita in una sospensione onirica, come se lo vedesse una persona in stato di premorte, una che ha appena avuto un arresto cardiaco. E' come se il pittore avesse visto il tutto attraverso un'"illuminazione".

 
Già a Monaco l'artista era stato profondamente colpito dal pensiero di Schopenauer e di Nietzsche, tanto che egli affermò: "Schopenauer e Nietzsche per primi insegnarono il profondo significato del non senso della vita e come tale non senso potesse venire tramutato in arte". L'assurdo non emerge dalle forme, perfette, o dai colori, ma dall'associazione inconsueta degli oggetti, che crea un'atmosfera onirica. Lo spettatore subisce quindi un effetto di straniamento (che cosa ci fa una vela dietro Piazza Santa Croce?) che lo fa meditare sull'enigma della vita, quel qualcosa che sfugge alla visione quotidiana e ci proietta nell'"oltre".
Dice Schopenauer: "Per avere pensieri originali, straordinari, forse immortali, è sufficiente estraniarsi dal mondo e dalle cose per certi momenti, in modo così totale che gli oggetti e i processi più ordinari appaiano assolutamente nuovi ed ignoti, sicché in tal modo si dischiude la loro vera essenza".

Sullo stesso piano abbiamo Enigma di un giorno, del 1914. La prospettiva è netta, con le linee del porticato che sembrano fuggire verso l'orizzonte, in un drastico alternarsi di ombre e chiari; le ciminiere verso il punto di fuga, il cielo di smalto, la statua (pomposa e inutile) al centro della piazza immersa in una luce autunnale e due omini appena visibili ai piedi delle ciminiere. Sembra che De Chirico abbia ridotto all'essenziale gli elementi della nostra cultura (la rivoluzione industriale rappresentata dalle ciminiere, la pompa retorica statale raffigurata dalla statua, l'architettura vuota e solitaria delle nostre città, gli omini soli) e li abbia affiancati gli uni agli altri per farcene cogliere l'inanità. Il tutto sotto una luce da sole calante. Da questo emergono solitudine, vuoto, mancanza di senso, come se si vedesse l'esistenza in prospettiva, sempre dell'"oltre" (a che serve tutto questo?).
La vita diventa così un enigma. Sempre a Firenze, nel 1910, De Chirico realizza l'Enigma dell'oracolo, uno spazio vuoto e misterioso con una tenda (che cela...cosa? Una statua? Un dio? La cella dell'oracolo?) e, sulla sinistra, una statua apparentemente moncata dal tempo. Qui la dimensione dell'"oltre" si fa percepibile, quasi immanente. Cosa deve accadere in quest'atmosfera sospesa? Qual è il vaticinio?



Ma non è tutto. Nel Ritratto dell'artista disegnato da lui stesso, sempre del 1910, troviamo in calce un aforisma di Nietzsche: “Et quid amabo nisi quod aenigma est?” (“E cosa amerò se non ciò che è enigma?”). L'aspetto enigmatico dell'esistenza e del suo significato diventa così un interrogativo costante, riflesso anche dall'atteggiamento assorto dell'artista (che amava ritrarsi e scrivere autobiografie: un riflesso narcisista?). Ma Nietzsche ci porta alla prossima tappa: Torino.

Torino. Terza tappa

Nel 1889, a Torino, nella sontuosa Piazza Carignano, avrebbe avuto luogo l'episodio più noto della vita di Friedrich Nietzsche: vedendo un cavallo frustato a sangue da un vetturino, il filosofo avrebbe abbracciato con compassione l'animale, quindi avrebbe perso la testa. Qualcuno ha revocato in dubbio l'episodio dell'abbraccio al cavallo, ma, comunque, da quel momento Nietzsche non fu più in sé e perse la lucidità: forse fu vittima del terzo stadio della sifilide, quello che intacca il sistema nervoso.
De Chirico amava molto Torino. La sua topografia ad angolo retto, le sue sontuose piazze, la fastosa architettura, parevano riecheggiare quello stesso senso della geometria che egli aveva ravvisato nelle prospettive rinascimentali di Firenze. Negli ultimi anni della Belle Époque egli visitò la città e qui realizzò un altro dei suoi "enigmi": l'Enigma dell'ora, del 1914.

Il quadro rappresenta la piazza davanti alla stazione di Porte Nuove (è vero, la riconosco), con la fontana davanti e l'orologio, oltre le solite arcate. L'orologio (amato anche dai surrealisti) pare però sospeso fuori dal tempo e segnare piuttosto lo scorrere incessante della vita: avete notato che ora fa? Le 3 meno 5. Ma le ombre sono da tramonto, al solito (anche per l'autunno, come vedremo sotto). E poi, la figura bianca vicino alla fontana sembra un marinaio: che cosa ci fa un marinaio a Torino?
Dice il nostro di Torino:
La vera stagione per Torino, quella durante la quale meglio si manifesta la sua grazia metafisica, è l’autunno. […] E’ la stagione dei filosofi, dei poeti e degli artisti inclini a filosofare. Nel pomeriggio le ombre sono lunghe e dovunque regna una dolce immobilità. […] Per mio conto, credo che questa armonia, così squisita da diventare quasi insostenibile, non sia stata estranea alla follia di Nietzsche, il cui spirito già provato non poteva ricevere impunemente simili scossoni. Fatte per fortuna le debite proporzioni, anch’io attraversavo una crisi di melanconia e di pessimismo quando all’improvviso mi venne questa rivelazione. […] Lo charme autunnale di Torino è reso ancora più penetrante dalla costruzione rettilinea e geometrica delle vie e delle piazze.”
Torino ricorre spesso nei quadri di De Chirico con elementi del suo paesaggio (la Mole Antonelliana, le piazze ecc.): ma frequente è anche il tramonto, con la sua malinconia e la vaga atmosfera che ricorda il tramonto della vita o, come si diceva allora, della nostra civiltà. Dice giustamente Barbara Meletto, specialista di storia dell'arte:
Rapporti topologici volutamente errati creano la sensazione angosciante di un palcoscenico sul vuoto, il grande vuoto del cielo senza dei.
E il "crepuscolo degli dei" ci fu davvero: nel 1914 scoppiò la Prima Guerra Mondiale, l'"inutile strage" secondo papa Benedetto XV. Arruolato col fratello, il pittore venne trasferito a Ferrara, dove assunse incarichi amministrativi. E qui, mentre il "cielo crolla", sboccia la sua arte metafisica.
Bibliografia:
Biografia di G.De Chirico, pubblicata sul sito Fondazione Giorgio e Isa De Chirico, http://www.fondazionedechirico.org/biografia/
B.Meletto, Giorgio De Chirico: la nascita della Metsafisica, posted il 26/10/2012, su http://barbarainwonderlart.com/2012/10/26/giorgio-de-chirico-metafisica/
R.Crosio, Spazi metafisici di G.De Chirico, in http://www.roberto-crosio.net/1_citta/DE_CHIRICO_SPAZI.htm



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