lunedì 28 dicembre 2015

Saggio (tipologia B): istruzioni per l'uso.


Saggio (tipologia B), istruzioni per l’uso

Su richiesta dei miei allievi, riporto qui alcuni consigli su come scrivere un saggio: cioè la  tipologia scritta che alla maturità è definita B e che consiste nel redigere un'argomentazione a partire dai testi consegnati all'allievo. Tutti i tipi di scrittura che facciamo a scuola sono di genere argomentativo (non ci occupiamo, che so, di  narrativa o di poesia): dobbiamo cioè essere in grado di sviluppare una tesi con vari passaggi e di dimostrarla. Come vedrete, i consigli seguono la falsariga della mia, ormai mitica, "terapia d'urto".

1)      Leggere attentamente e comprendere i testi ed il titolo = uno degli errori più frequenti nei temi di maturità è quello di comprensione dei testi offerti (che, spesso, non sono per niente facili!); quindi la traccia e i testi stessi vanno riletti più volte e capiti a fondo.

2)      Brain-storming = questa è la fase di partenza, la raccolta delle idee. Come sempre suggerisco, vanno buttate giù rapidamente e senza un ordine, come vengono vengono, per evitare di dimenticarle.

3)      Scaletta ben strutturata = l'ordine viene imposto ora, con la scaletta.

4)      Fornire ogni idea generale e concetto di prove ed esempi a sostegno = non smetterò mai di ricordare che ogni concetto generale deve essere sempre comprovato con un esempio specifico, sennò si passeggia sulle nubi. Nel saggio, di solito, si usano come prove i testi. Se per esempio devo redigere un saggio sull'amor cortese e mi è stato offerto un passo tratto da un poeta dell'epoca (che so, Guglielmo d'Aquitania), lo userò come esemplificazione di quanto intendo dimostrare.

5)     Mantenere una struttura ed uno stile argomentativi = appunto. Alcuni ragazzi scrivono in maniera narrativa (c'è chi mi ha redatto un racconto e si è beccato un 4), oppure con uno stile poetico o impressionistico degno del Fuoco di D'Annunzio. Il saggio è e deve rimanere  una dimostrazione. Altri esperimenti non rientrano negli scopi della maturità e delle nostre attività usuali.

6)     Inserire un’introduzione ed una conclusione che riassumono rapidamente la vostra argomentazione per entrare ed uscire dall’argomento = anche questo è un errore frequente. L'introduzione (breve, poche righe) e la conclusione (altrettanto breve) devono sempre esserci, sennò il saggio sembra monco. Entrambe servono a dare un'idea e a riepilogare il contenuto della vostra dimostrazione, in modo da preparare il lettore.

7)     Attenzione alle citazioni ed a come i testi forniti vengono reimpiegati nel vostro (passaggio dal discorso diretto all’indiretto, cambio di tempi verbali, di pronomi, passaggio da un genere letterario diverso al vostro, un saggio) =  nei saggi, i problemi sintattici maggiori riguardano le citazioni. Se infatti riporto una citazione in modo diretto (con tanto di virgolette a caporale) non succede niente, ma in stile indiretto sono possibili vari pasticci: si intricano i tempi verbali (per cui si veda la tabella della "Terapia d'urto 2"), mutano i pronomi, i possessivi, cambia l'impostazione del discorso, mutano i soggetti, spesso anche lo stile: magari dovete citare una narrazione entro un'argomentazione e...v'inceppate. A questo punto, ricorrete ai consigli degli altri post oppure, se avete dubbi, alla citazione diretta. Cercate però di evitare l'effetto "collage": le fonti vanno interpretate e spiegate, non semplicemente scopiazzate una dietro l'altra.

8)     Impiegare sempre almeno la maggior parte dei testi forniti = in alcune classi, i ragazzi prendono la pessima abitudine di ignorare i testi forniti. Questo è equivalente a un fuori-tema. Più della metà dei testi forniti deve essere citata, perché è la traccia. Ogni aggiunta è benvenuta, ma si deve muovere nel raggio del materiale fornito.

9)     Se possibile, aggiungere materiale vostro personale = insisto sul fatto che non basta citare le fonti: bisogna anche interpretarle, commentarle, spiegarle. Cioè devono essere rielaborate dal vostro cervello. A questo si possono aggiungere materiali introdotto dai voi.

10)  Evitare l’uso della prima persona: le idee presentate saranno sempre vostre, ma devono mantenere una validità oggettiva ed universale = quando i ragazzi iniziano a scrivere mi chiedono sempre: "Prof, posso inserire le mie idee personali?". Ragazzi, tutto quello che scrivete è vostra idea personale, semplicemente perché viene dalla vostra penna e filtrato dal vostro cervello. Tuttavia, le idee personali interessano quando sono di rilievo anche per gli altri: inoltre, essere devono essere oggettive, cioè collegate alla realtà. Le vostre personali allucinazioni non interessano nessuno, ma se avete  una buona idea, quella è valida anche per gli altri. Ecco perché bisogna rifuggire dal narcisistico "io penso, io credo, io dico..." ed esprimersi in  maniera oggettiva, impersonale, ma non per questo meno vostra.
 
A questo punto, inserisco un modello di saggio, sviluppato da me: l'ho suddiviso in sezioni mediante una tabella, in  maniera tale che sia facilmente visibile l'articolazione dell'argomentazione. Nella prima parte ho indicato i testi proposti: poi segue lo  sviluppo, con, a fianco, i testi impiegati come prova. La tematica generale era la solitudine. Ricordate che l'argomentazione è il genere letterario che molto spesso vi viene richiesto sul lavoro anche fuori dalla scuola: in relazioni o dimostrazioni, all'università, in un'impresa, ufficio e simili. Per questo è importante imparare a svolgerlo bene.
 
La solitudine come problema e come opportunità costruttiva (saggio breve)
 
Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile(Gn. 2,18).
Perché la solitudine è così terribile? Perché noi, come individui isolati, non esistiamo. La nostra lingua, le nostre emozioni, il modo di comportarci, le mete, le speranze le prendiamo dai genitori, dai maestri, dagli amici, dagli altri. Viviamo nella nostra comunità come il bambino nel ventre della madre, fuori c'è il deserto, l'esilio: trovarsi fra gente che non conosci e che non ti conosce, che non ami e che non ti ama, a cui non sai cosa dire e che non ha nulla da dirti.
(F. Alberoni, Corriere della sera, 1 nov. 2010).
Si resiste a stare soli finché qualcuno soffre di non averci con sé, mentre la vera solitudine è una cella intollerabile.
(C. Pavese)
C'è un'altra Solitudine
Che molti muoiono senza aver conosciuto -
Non è una mancanza di amici a causarla
O la sorte di Lot

Ma la natura, a volte, a volte il pensiero
E chiunque ne è colpito
È più ricco di quanto possano rivelare
I numeri mortali -.
(E. Dickinson)

E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo
per quanto sta in te: non sciuparla
nel troppo commercio con la gente
con troppe parole in un viavai frenetico.
Non sciuparla portandola in giro
in balía del quotidiano
gioco balordo degli incontri
e degli inviti,
fino a farne una stucchevole estranea.
(C. Kavafis, Cinquantacinque poesie)
Tutti coloro che prendono seriamente se stessi e la vita, vogliono stare soli, ogni tanto. La nostra civiltà ci ha così coinvolti negli aspetti esteriori della vita, che poco ci rendiamo conto di questo bisogno, eppure la possibilità che offre, per una completa realizzazione individuale, sono state messe in rilievo dalle filosofie e dalle religioni di tutti i tempi. Il desiderio di una solitudine significativa non è in alcun modo nevrotico; al contrario, la maggior parte dei nevrotici rifugge dalle proprie profondità interiori, ed anzi, l'incapacità di una solitudine costruttiva è per se stessa un segno di nevrosi. Il desiderio di star soli è un sintomo di distacco nevrotico soltanto quando l'associarsi alla gente richiede uno sforzo insopportabile, per evitare il quale la solitudine diviene l'unico mezzo valido.
(K. Horney, I nostri conflitti interni.
La solitudine è una realtà universale, con cui ognuno di noi è obbligato a confrontarsi; esiste una solitudine sinonimo di vuoto e sofferenza, di cui ci si sente vittime, ma ne esiste pure una costruttiva ed utile.
Introduzione
Come sosteneva Aristotele, “l’uomo è un animale politico”: dato che il termine “politico” proviene dal greco “polis”, “città”, in realtà il grande filosofo greco intendeva definire l’essere umano come un essere sociale. Infatti, già l’esordio della Bibbia, in Gn. 2,18, fa esclamare addirittura a Dio, la celebre frase: “Non è bene che l’uomo sia solo”: la solitudine, pur nel mitico e meraviglioso giardino dell’Eden, sarebbe un peso se l’essere umano non avesse un suo simile da amare.
1) La natura sociale umana.
·         Gn.2,18
·         Arist.
Ogni persona, infatti, necessita di un largo cerchio di altre per poter, semplicemente, sopravvivere. Come sostiene il noto psicologo F.Alberoni, editorialista per il Corriere della sera, il processo di apprendimento, attraverso cui ogni bambino impara a vivere, non può avvenire che in compagnia di altri: nozioni, comportamenti e valori non possono che essere trasmessi in una catena continua che non si spezza fin dalle origini della cultura umana. La stessa parola “cultura” implica l’idea di “coltivare”, che ogni persona debba essere “coltivata”, come un giardino, per dare il meglio di sé: la cultura è quindi un processo plurale. Non stupisce allora che un bambino poco accudito nei primi anni di età possa sviluppare patologie mentali e affettive importanti: gli psicopatici sono, di solito, adulti la cui infanzia non ha conosciuto una reale tenerezza materna, ma che si sono ritrovati a piangere per ore, da neonati, senza che nessuno li soccorresse.
2) Le ragioni della socialità.
·         Alberoni.
·         Cultura.
·         Psicopatici.
Del resto, anche le operazioni più semplici della vita quotidiana necessitano il supporto di altri, come il procurarsi il cibo o il disporre di un’abitazione, di vesti e cure: ecco perchè il primo male di tanti clochards consiste in realtà proprio nella solitudine, nel fatto che essi sono stati abbandonati a loro stessi e sono rimasti privi di aiuto. Le nostre città, spesso anonime, rigurgitano di persone sole, come gli anziani, o i deboli in genere, dai malati, ai detenuti nelle loro celle a tutti coloro che sperimentano la marginalità. Da soli non potranno mai riemergere dalle loro difficoltà: come afferma Pavese, la solitudine intesa come mancanza di amore è una “cella insopportabile” ed è questa la solitudine cui faceva allusione la Bibbia, la più atroce perchè leva al singolo la possibilità di sentirsi persona. Lo scrittore piemonetese deve averla sperimentata, perchè pose fine ai suoi giorni con il suicidio nel 1950.
3) Effetti della solitudine.
·         Clochards.
·         Anziani.
·         Marginali e deboli.
·         Pavese.
Tuttavia, può esistere anche un genere positivo di solitudine, una solitudine che non è mancanza, bensì pienezza di amore. Già la Bibbia rievoca il ritiro di alcuni profeti, come Elia, nel deserto, affinché potessero rimanere in silenzioso colloquio con Dio. E’ la solitudine evocata da una densa poesia di E.Dickinson, poetessa americana ottocentesca che visse ritirata per tutta la sua vita e che seppe per l’appunto intendere questa sua esistenza silenziosa come ricchezza creativa, lasciandoci una straordinaria quantità di intense poesie. La solitudine, ella afferma, non risulta solo dalla mancanza di amici, non è solo quella di Lot (il personaggio biblico che rimase solo e abbandonato dopo la distruzione della città in cui viveva, Sodoma): esiste anche la solitudine sinonimo di meditazione e arricchimento interiore, una realtà che, purtroppo, molti ignorano per tutta la vita.
4) La solitudine come pienezza.
·         Profeti.
·         E.Dickinson.
La poetessa sembra parlare proprio per la nostra frenetica età contemporanea, in cui il silenzio appare sempre più difficile: e questo è un male. Come infatti l’essere umano possiede una natura sociale, egli necessita anche di momenti di quiete e silenzio, non solo per riposare, ma anche per riflettere sulla propria esistenza. La solitudine diventa allora un’indispensabile fonte di ricchezza interiore, tanto che il poeta greco Kavafis raccomanda di non sciuparla con il “troppo commercio con la gente / con troppe parole in un viavai frenetico”. La vita rumorosa delle agglomerazioni urbane contemporanee rischia di compromettere, con l’assenza continua di silenzio, la salute psico-fisica dei suoi abitanti: nelle parole di Kavafis, la pace interiore appare l’unico rimedio alla mancanza di felicità che spesso opprime i nostri contemporanei.
5) La solitudine come ricchezza interiore.
6) Il bisogno salutare di solitudine.
·         Kavafis
Insomma, la solitudine non significa solo lo spettro dell'abbandono, la paura di rimanere isolati: essa è anche opportunità, possibilità di ritemprarsi, di rinfrancarsi a contatto con la parte più profonda di noi stessi; è apertura, è arricchimento, anzi, è passaggio ineludibile per chiunque non voglia ridursi allo stato miserevole di marionetta in balia degli eventi.
7) Perchè la solitudine è necessaria.
 
 

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