lunedì 14 dicembre 2015

L'isola di Ogigia (modello di commento a un testo poetico)


Su richiesta di Marco, della 3M, inserisco qui un modello di commento a un testo poetico (non è esattamente  una parafrasi, ma quasi, dato che ne condivide alcune caratteristiche), testo in cui, tra l'altro, ci sono poche figure retoriche (per la serie: che cosa si fa quando non si sa cosa dire?). Come si vede, è molto curata l'introduzione, l'inquadramento del contesto è attento, tutto è in terza persona e abbondano le spiegazioni (quelle spesso lasciate nella penna).

Commento all’Odissea V, 55-84 (« L’isola di Ogigia »).

Un uomo siede desolato e in lacrime sulla riva di un’isola sperduta in mezzo all’Oceano, afflitto dalla nostalgia per la propria patria: questa è la prima immagine che il poema epico dell’Odissea ci presenta di Ulisse, il suo leggendario protagonista, vittima delle infinite traversie descritte per l’appunto nell’opera, nel brano qui proposto. Il passo è tratto dall’esordio del V libro, quando Zeus, a seguito di un concilio degli dei, ha ormai deciso di far partire Ulisse dall’isola in cui l’eroe è trattenuto dalla ninfa oceanina Calipso da ben nove anni: egli ha perso tutti i suoi compagni durante il suo travagliato ritorno da Troia e non è in grado di ritornare a Itaca. Ermes, il messaggero degli dei, viene dunque inviato a comunicare a Calipso di lasciare partire Odisseo, cosa che l’eroe farà su di una zattera.

Il brano introduce quindi la seconda parte del poema, quella direttamente consacrata alle peripezie del re di Itaca. In precedenza, l’autore, chiamato per convenzione Omero, si era occupato esclusivamente di Telemaco, figlio di Ulisse, e della situazione a Itaca: si tratta della famosa “Telemachia”, in cui i vari personaggi alludono spesso all’eroe assente, il che crea quindi nel pubblico una forte attesa. Ulisse può pertanto fare in seguito la sua comparsa, preparata da forti aspettative, degne di tanta personalità. Il brano qui presentato si riferisce all’arrivo di Ermes a Ogigia: una prima parte (vv.55-62) presenta la discesa del dio sull’isola, il suo arrivo alla grotta di Calipso e la ninfa che fila nella spelonca sua abitazione. Una seconda sequenza del passo (vv. 63-75) descrive invece la natura incantata di Ogigia: in realtà, già nella prima sequenza, alcuni particolari (come l’aroma prodotto dal legno pregiato che brucia sul fuoco, oppure la spola d’oro impiegata dalla dea) mostrano che l’ambientazione dei fatti si situa al di fuori del mondo umano, in una terra fatata: ma ora, ogni dettaglio, dalla bellezza della natura all’abbondanza di animali, fa capire che ci troviamo di fronte a un tipico locus amoenus, forse il primo della letteratura europea, ovvero la descrizione di un luogo paradisiaco, la cui bellezza arricchisce la narrazione ed evoca meraviglie straordinarie. Persino Ermes, si narra (v. 75), rimane ammirato. Infine, nella terza breve sezione, il dio messaggero incontra Calipso (vv. 76-80), che comprende al volo, senza bisogno di parole, il senso della missione del dio; Ulisse invece (vv. 81-84) si trova ben lungi dalla dea, sulla riva del mare, a sfogare il suo dolore di esule davanti all’immagine di quell’oceano che gl’impedisce di tornare a casa.


Come risulta evidente dalla segmentazione del brano, sono proprio questi ultimi versi che risaltano grazie al contrasto con il resto del passo: vi troviamo infatti due temi fondamentali, il locus amoenus, paradiso meraviglioso su cui regna Calipso, e, in antitesi ad esso, la struggente nostalgia e solitudine di Odisseo. Questo locus amoenus viene descritto dettagliatamente, affinché ne risalti la bellezza: la dea è circondata da oggetti d’oro, come la spola, che, da comune utensile domestico diviene un prezioso gioiello; addirittura ella può permettersi di bruciare legno di cedro sul fuoco, mentre fila e canta con voce melodiosa; la grotta, sua residenza, è quindi ben lungi dall’apparire una spelonca disadorna, bensì è una dimora degna di una dea. All’intorno, la natura è rigogliosa e caratterizzata dalla fertilità: numerosi sono gli alberi, mentre una vite, carica di grappoli, allunga i suoi tralci e pampini nei pressi dell’apertura della grotta; ben quattro sorgenti irrigano il suolo, lasciando scorrere le loro acque in direzioni diverse, prati tappezzati di fiori ed erbe aromatiche si estendono all’intorno, mentre gli animali, in particolar modo gli uccelli, abbondano nei dintorni. La stessa grotta della dea viene descritta come un luogo domestico, protetto ed accogliente.

Tutto quindi lascerebbe pensare ad uno spazio incontaminato, ad un luogo privilegiato, dove regnano fecondità, bellezza ed abbondanza e in cui la vita possa scorrere dolcemente, ben lontano dagli affanni tipici dell’esistenza umana, affanni che, del resto, Ulisse conosce in prima persona fin troppo. Ogigia è dunque un paradiso in terra, luogo al di fuori del mondo consueto, sperduto nell’Oceano e adatto alla splendida dea che lo abita. Eppure, il cuore di Odisseo non cede dinnanzi a queste lusinghe, così come non ha ceduto alla seduzione esercitata dalla dea. Spicca allora, sullo sfondo incantato di Ogigia, l’altro tema fondamentale di questo passo: quello della nostalgia. Per quanto l’isola sia magnifica, per quanto Calipso sia stata benevola con lui, per quanto ella abbia tentato di sedurre il suo ospite prospettandogli persino il matrimonio con lei e l’immortalità, Ulisse non può dimenticare la sua vita vera, ad Itaca, tra le persone che ama. Tanta bellezza non gli farà mai scordare la sua terra natia, anzi, al confronto di Itaca, Ogigia sembra un nulla. Il locus amoenus appare dunque non solo una descrizione decorativa, ma un espediente di grande forza volto a sottolineare la fedeltà di Odisseo ai suoi affetti ed alla realtà in cui è nato e vissuto, ma anche la sua profonda, dolorosa nostalgia per essi.

L’eroe piange dinnanzi al mare che gl’impedisce il ritorno e che lo racchiude in una sorta di prigione dorata: anche in questo caso, le indicazioni spaziali sono funzionali ai temi del racconto. Il mare è l’elemento che imprigiona Ulisse, la distesa d’acqua immensa che risulta fatale al marinaio lontano dalla sua patria, non meno fatale di quanto gli sia stata l’inimicizia di Poseidon. L’antitesi tra il locus amoenus e l’irrefrenabile nostalgia dell’eroe è rappresentata quindi dall’antitesi tra due luoghi, l’isola paradisiaca ed il mare che la racchiude: ma entrambi formano la prigione dorata in cui Ulisse viene mantenuto lontano dal luogo-chiave del poema, qui implicito, ma, proprio perché implicito, tanto più presente alla mente del lettore: Itaca.

La narrazione, come è noto, inizia durante il decimo anno dalla partenza di Ulisse da Troia, poco prima che le sue avventure volgano finalmente al termine: Omero si concentra dunque sull’acme della vicenda. Siamo all’inizio della fine, per così dire, quando Odisseo sta per tornare ed uscire dal suo stato di malinconia e dolore. Dall’inattività forzata, durata nove anni, il poeta sta per far passare il suo eroe nuovamente all’azione. I personaggi sono qui tre: Ermes, il messaggero neutrale, inviato a comunicare la partenza all’eroe, l’eroe stesso, oppresso dal dolore, e Calipso. Ermes svolge nel brano il ruolo di semplice araldo e spettatore: ammira la natura di Ogigia, riferisce il comando di Zeus, visita Calipso. Il vero fulcro umano della vicenda sta però nel confronto tra Odisseo e la dea. I due appartengono a due mondi diversi: infinitamente umano lui, astuto e intelligentissimo, forte e coraggioso, ma anche vittima di innumerevoli angustie e colto da un’infinità di sentimenti umanissimi, sconosciuti al mondo divino e che lo rendono vulnerabile; lei, invece, una dea, appartenente ad un mondo immoto e fuori del tempo, privo di problemi e dolori, ignara di ciò che sia la vita umana reale. Ella tenta Ulisse con la promessa dell’immortalità, con la prospettiva di una vita facile e beata in quell’isola al di fuori del mondo ed accanto a lei, ma l’eroe preferisce la sua vita comune. Implicitamente, Omero situa quindi l’esistenza umana, con le sue gioie e i suoi dolori, al di sopra della vita facile e vuota del capriccioso mondo degli dei olimpici. Calipso viene vinta quindi da Penelope: eppure, non è possibile dimenticare neanche che tale è la personalità di Ulisse da averlo reso capace di far innamorare di sé nientemeno che una dea.

Lo stile del passo segue i canoni della poesia epica omerica, ricca di espressioni formulari esornative (come “la ninfa riccioli belli”, v. 58, oppure “Calipso, chiara tra le dee”, v.78) o di aggettivi fissi, che accompagnano alcuni nomi (come “magnanimo Odisseo”, v. 81), o epiteti (come “Arghifonte”, attributo di Ermes, al v.75). Le une e gli altri servivano lo scopo mnemonico e, allo stesso tempo, arricchivano l’ornamentazione del brano. Si nota anche l’abbondanza di aggettivi, particolarmente necessari nella descrizione del locus amoenus, che serve non poco all’abbellimento del passo; mancano invece le similitudini. Vale la pena infine sottolineare l’importanza di alcune espressioni, di significato pregnante: il mare compare sia all’inizio che al termine della sezione, ma se al principio è il “mare viola”, descritto nelle tonalità che gli attribuivano gli antichi Greci, al termine è il “mare infecondo”, da cui non cresce alcuna forma di vita e che, anzi, infligge a Ulisse tormenti e frustrazioni (ben rappresentati dal climax “lacrime, lamenti e dolori”). Il mare chiude ad anello il passo, così come imprigionava l’antico eroe tra le sue onde: un mare la cui infecondità contrasta vivamente con la bellezza di Ogigia. La negatività del mare finisce per annullare l’effetto incantato dell’isola e per rievocare, malgrado questo paradiso incontaminato, la sofferenza e la nostalgia dell’eroe esule dalla patria tanto amata.

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